Six

Questa sera, appena prima che spengano le luci, ritorno al Palazzo di Vetro. A differenza di questa mattina, che era pieno di gente, adesso non c'è nessuno.
Mi avvicino ad una finestra e guardo fuori. Sta piovendo. Il rumore della pioggia che batte sui vetri della struttura mi rilassa. Mi siedo per terra e raccolgo le gambe al petto, ignorando il dolore che provo alle costole. Mi fa male ogni tipo di movimento. La testa mi fa molto meno male rispetto a questa mattina ma in ogni caso mi beo del silenzio che mi circonda in questo momento. Mi vergogno ad ammetterlo, ma ho paura di ritornare al dormitorio questa notte.
Chiudo gli occhi e, cullata dalla pioggia, faccio vagare il pensiero senza una meta precisa; mi accorgo di star pensando alla vita tra gli Intrepidi.
A casa ero abituata a trascorrere piacevoli e rilassanti serate con la mia famiglia. Mamma lavorava a maglia sciarpe per i ragazzi del quartiere e papà aiutava Caleb con i compiti. C'era il fuoco nel caminetto e la pace nel mio cuore, perché stavo facendo esattamente quello che gli altri si aspettavano da me, e tutto era tranquillo.
Non sono mai stata lanciata giù da un edificio di cento piani imbragata solo per divertimento, né ho riso fino ad avere i crampi allo stomaco durante la cena, né ho mai sentito quanto baccano riescono a fare un centinaio di persone che parlano tutte insieme. E non ho mai neanche provato qualcosa verso una persona che non fosse un qualche tipo di amicizia. La pace è controllo. Questa è libertà.
Cambio pensiero e mi metto a riflettere sul perché ho scelto questa fazione e sul perché ero così determinata a entrarci da saltare da un cornicione, prima ancora di sapere che cosa volesse dire essere un'Intrepida.
Volevo essere come gli Intrepidi che vedevo a scuola. Ma loro non erano ancora membri, stavano solo giocando a fare gli Intrepidi. E così era per me, quando sono saltata giù da quel tetto. Non sapevo che cosa fosse la paura.
Negli ultimi quattro giorni ho affrontato quattro paure. In una simulazione ero legata a un palo e Peter accendeva un fuoco sotto i miei piedi. In un'altra stavo annegando di nuovo, questa volta nel mezzo di un oceano, con le acque che infuriavano intorno a me. Nella terza, guardavo i miei familiari morire lentamente per dissanguamento. E nella quarta ero costretta a sparargli, sotto la minaccia di una pistola puntata. Ora so che cos'è la paura.
Con la mente ritorno sul bordo del tetto: mi sbottono la camicia grigia da Abnegante, denudando le braccia, mostrando il mio corpo più di quanto abbia mai fatto. Appallottolo la camicia e la scaglio contro il petto di Peter.
Apro gli occhi. No, avevo torto: non sono saltata da quel cornicione perché volevo essere come gli Intrepidi; sono saltata perché già ero come loro e volevo farmi notare. Volevo riconoscere quella parte di me che gli Abneganti mi avevano sempre chiesto di nascondere.
Rimango per un po' a guardare il cielo scuro sopra di me, fino a quando, da un punto indistinto alla mia destra, sento dire:
-Frequentare gli stessi posti al posto di dormire sta diventando un'abitudine.-
Sobbalzo sbattendo la testa al vetro dietro di me. Trattengo un gemito di dolore e mi volto verso Quattro.
-A quanto pare. Di nuovo di ritorno dal centro di controllo?- gli chiedo mentre mi porto una mano sulla nuca.
-No, oggi semplicemente avevo voglia di farmi un giro. Ho pensato alla rete, ma poi mi sono detto che probabilmente eri lì.- mi dice mentre si siede per terra. La sua compagnia mi piace, soprattutto quando siamo da soli, al buio. Mi fa sentire protetta.
Mentre lo guardo, mi accorgo che forse non è la sua presenza a piacermi, ma è lui e basta.
È più facile per me ammetterlo ora, al buio, con nessun testimone oltre a me.
-Cosa c'è?- mi sussurra ad un certo punto. Si è accorto che lo sto guardando. Mi mordo un labbro.
-Nulla.- rispondo.
-Sicura? Stai meglio?- mi chiede.
Io annuisco.
-Non mi fido a tornare al dormitorio.- confesso.
-Lo capisco, sei stata aggredita, è una cosa del tutto comprensibile. Hai fatto come ti ho detto?- mi chiede di nuovo.
-Sì, ho cercato la protezione dei miei amici trasfazione. Credo di averla. Spero di averla.-
Lo vedo annuire e poi, all'improvviso, una luce sotto di noi si accende. Entrambi ci guardiamo e poi scendiamo in fretta e furia. Quando arriviamo alla Guglia, quasi tutti gli Intrepidi si sono già radunati e io lo perdo di vista raggiungendo Christina dall'altra parte della grotta.
-Cosa sta succedendo?- chiedo.
-Non ne ho idea! Ma dove eri finita?!- mi chiede.
-Al Palazzo di Vetro.- rispondo, e insieme cerchiamo di capire cosa sta succedendo.
Ci avviciniamo un po' di più.
Due uomini stanno sollevando qualcosa con le corde. Ansimano per lo sforzo, spostando indietro il peso del corpo per far scorrere le funi sopra il parapetto, e poi chinandosi in avanti per afferrare il tratto successivo. Una massa grossa e scura emerge dal bordo e alcuni Intrepidi si precipitano ad aiutare gli uomini a tirarla su.
La massa cade con un tonfo sul pavimento. Un braccio pallido, gonfio d'acqua, abbandonato sulla pietra. Un corpo. Christina si stringe al mio fianco, aggrappandosi al mio braccio, e nasconde il viso nella mia spalla singhiozzando, ma io non riesco a spostare lo sguardo. Alcuni uomini rivoltano il corpo e la testa cade di lato.
Gli occhi sono aperti e vuoti. Scuri. Occhi di bambola. Il naso ha narici grandi, il dorso stretto e la punta arrotondata. Le labbra sono blu. Il viso ha un che di disumano, metà cadavere e metà creatura fantastica. Mi bruciano i polmoni, l'aria fatica a entrare. Al.
-È uno degli iniziati.- dice qualcuno dietro di me. -Che cos'è successo?-
-Quello che succede ogni anno.- risponde un altro. -Si è buttato giù.-
-Non essere così morboso. Magari è stato un incidente.-
-L'hanno trovato nel mezzo dello strapiombo. Secondo te, è inciampato nelle stringhe delle scarpe e... ooops, è caduto solo quattro metri più avanti?-
Le mani di Christina si stringono sempre di più intorno al mio braccio. Dovrei dirle di lasciarmi, perché comincia a farmi male. Qualcuno si inginocchia vicino alla testa di Al e gli chiude gli occhi, per cercare di farlo sembrare addormentato, forse. Che stupidaggine. Perché la gente vuole far finta che la morte sia come il sonno? Non è così. Non è così.
Qualcosa dentro di me crolla: Al, il mio amico, il mio aggressore. Morto suicida. Ora capisco la domanda di Tori, quando mi ha detto che le avevano detto che suo fratello era morto suicida e lei non ci aveva creduto. Ma di Al ci credo: è, era, cambiato. Era più triste, più solitario, più aggressivo. Mi scollo da Christina e mi allontano il più in fretta possibile dalla scena che ho davanti, anche se di fatto ce l'ho impressa a fuoco nella memoria e negli occhi.
Non so dove sto andando, ma il corridoio è più buio. Sento ancora, da lontano, le voci degli Intrepidi che sono al Pozzo.
-Tris!- mi sento chiamare. Alzo lo sguardo annebbiato dalle lacrime e, in fondo al corridoio, vedo Quattro. Non ho voglia di parlare con lui ora, non ho voglia di parlare con nessuno. Mi fermo e poi svolto in un corridoio a sinistra.
-Lasciami da sola.- mormoro.
Lui mi corre dietro e poi le sue dita si stringono delicatamente introno al mio polso, fermandomi.
-Mi dispiace per Al.- mi dice, e io non ce la faccio più e mi passo una mano nei capelli. Lui rimane lì a guardarmi.
-Lui...- comincio, ma non riesco a finire la frase.
-Non avrebbe mai superato il test finale, sarebbe diventato un escluso in ogni caso.- tenta di consolarmi, ma ormai sono completamente presa dal terrore.
-Neanche io lo supererò.- sussurro. Lui mi si avvicina un po'.
-Perché dici così?- mi sussurra in risposta.
-Sai benissimo il perché.- rispondo guardandolo, gli occhi velati di lacrime. Lo vedo annuire, -E quando gli altri lo scopriranno, mi uccideranno.-
-Non permetterò che lo scoprano, Tris. A nessuno.- mi dice, e ho così tanto bisogno di credergli che semplicemente, abbandonando ogni razionalità e controllo, chiudo gli occhi e lo abbraccio.
Dopo qualche secondo sento le sue braccia intorno alle mie spalle; inspiro il suo profumo, proprio come quello che c'era sul suo cuscino quando ho dormito da lui dopo che Al mi aveva aggredita. Al, torna sempre tutto a lui.
Ieri mattina era venuto a chiedermi di perdonarlo, ma io non l'ho fatto.
-Se lo avessi perdonato, ora sarebbe vivo?- chiedo piano.
-Non lo so.- mi risponde Quattro, ed è ovvio che non lo sappia.
-Mi sento come se fosse colpa mia.- dico ancora. Lo sento stringermi un po' di più al suo petto.
-Non lo è.- mi sussurra dolcemente posandomi una mano sulla guancia e asciugandomi una lacrima solitaria. Chiudo gli occhi e lascio che appoggi la sua fronte sopra alla mia.
-Avrei dovuto perdonarlo. Avrei dovuto fare di più.- dico.
-Forse. Forse avremmo potuto fare tutti di più. Ma i sensi di colpa devono servire solo ad aiutarci a fare meglio la prossima volta.- mi sussurra. Aggrotto le sopracciglia e mi allontano da lui.
Questa è una lezione che insegnano agli Abneganti: la colpa come strumento, anziché come arma contro se stessi. È una frase che viene direttamente dai sermoni settimanali che preparava mio padre la sera, con la mamma.
-Di che fazione eri, Quattro?- gli chiedo guardandolo.
Lo vedo stringere le labbra.
-Non importa. Ora sono qui, ed è una cosa che faresti meglio a tenere a mente anche tu.- mi risponde.
Mi guarda, sembra combattuto, poi appoggia le labbra sulla mia fronte, proprio tra le sopracciglia. Io chiudo gli occhi. Non capisco questa cosa, qualunque cosa sia, ma non voglio rovinarla, per cui non dico niente. Lui non si muove e rimaniamo così, lui con le labbra premute contro la mia pelle e io con le mani intorno alla sua vita, per molto tempo.

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