13.3 Sul lasciarsi (infine) andare

*

Ha le gambe e il busto ridotti a una cartina geografica di lividi e fitte, quando arrivano infine a superare l'arco della Questura.

Attraversano il cortiletto interno e, invece di imboccare l'entrata, deviano - o meglio, lo spintonano - verso un ingresso secondario sotto il porticato in travertino squadrato. Bruno non vi ha mai messo piede, ma immagina conduca all'area di detenzione.

Al loro ingresso chiassoso nell'androne, uno spaurito e allampanato agente Camarda s'alza di scatto da dietro la scrivania. Impallidisce nel trovarsi davanti le quattro camicie nere, sbarra gli occhi già prominenti nel riconoscere lui trascinato a forza e, infine, raddrizza le spalle magre quando adocchia Ricciardi in coda a quella penosa processione.

«Commissario...» Camarda porta la mano ossuta alla fronte e tiene a bada un lieve balbettio. Il caposquadra Barbagli non sembra gradire l'essere ignorato e si pianta di fronte all'agente, le mani sui fianchi, a una distanza di poco inferiore a quanto imporrebbe la buona creanza - Camarda non retrocede, seppur tremante.

Prima che il fascista possa aprir bocca, però, Ricciardi li supera in blocco con due falcate e attira l'attenzione del suo sottoposto.

«Agente, facci strada all'area detentiva.» Al suo esitare, inasprisce il tono: «Forza, non abbiamo tutta la notte.»

«Muoviti, infatti,» sbotta Barbagli, alzando la voce, «invece d'intralciare chi ti è superiore.»

Questi si riscuote e Bruno si ritrova i suoi occhi interrogativi puntati addosso, ma lui ha la prontezza di non protestare - Ricciardi è di spalle, ma ha idea che gli abbia inviato un qualche tipo di segnale e ringrazia la fiducia indefessa che hanno in lui i suoi subordinati. Camarda si limita a esibirsi in un compunto saluto fascista, con tanto di schiocco di tacchi e soddisfazione stolida di Barbagli, e a incamminarsi in testa a loro, col mazzo di chiavi agitato come un sonaglio a vento alla cintura.

Pochi minuti di spintoni e sgambetti più tardi, che Bruno subisce in silenzio, con gli stinchi doloranti e l'impressione non del tutto sgradita di essere un burattino inerte e lontano da lì, si ritrova in un corridoio monco sul quale si affacciano tre porte blindate, cieche, se non per lo spioncino ad altezza occhi. Una finestra sul lato opposto è l'unica fonte di fioca luce, sopperendo alla lampadina che pende mogia e fulminata dal soffitto.

«Ci sono trattenuti?»

«No, commissario. Tutto tranquillo, stanotte.»

A un suo cenno Camarda apre, seppur titubante, l'ultima cella, che scivola sui cardini con un ringhio di ruggine - Bruno la sente grattare nel cervello.

«Entrate, forza.»

Prima ancora che Ricciardi finisca di parlare e che possa guidarlo di mano sua nella cella, Bruno perde contatto col terreno. Para malamente i gomiti avanti ad attutire l'impatto e soffoca una bestemmia, col petto che gli brucia più delle escoriazioni per non essere riuscito a scampare la caduta. Con un titillo d'allarme ai nervi, si rigira di scatto sulla schiena per non dare le spalle al branco dietro di lui.

La sagoma di Barbagli col manganello in pugno si staglia di fronte a lui, un passo entro la cella - Bruno irrigidisce i muscoli, la bocca d'un tratto arida e il cuore che gli schizza in gola a soffocarlo - hanno solo ritardato il momento ed è questione di secondi prima che gli siano addosso tutti e quattro a spaccargli le ossa e calargli le braghe e-

«Caposquadra Barbagli.» Il richiamo di Ricciardi echeggia smorzato tra le pareti di tufo. «Vi suggerisco di non sfidare ulteriormente la mia autorità, soprattutto non in un luogo ove la esercito ufficialmente. Uscite dalla cella: qui non siamo a Poggioreale.»

L'uomo si volta verso di lui, ancora col manganello levato in mano. Bruno avverte lo stomaco contorcersi nell'acido - si rimette in piedi, gli arti bollenti per la scarica di adrenalina che gli ha appena elettrizzato il cervelletto.

Il fascista, dopo averlo fatto volteggiare su se stesso, riaggancia il manganello alla cintura, con ostentata lentezza. Dietro di lui, Ricciardi lo fissa quieto, le mani strette dietro la schiena in quella sua abituale posa composta e disincantata. Fa un cenno del capo alla sua sinistra.

«Camarda, chiudi pure.»

L'agente esegue e Bruno, nell'incrociare i suoi occhi sbarrati, vi scorge delle scuse silenziose, prima che essi vengano inghiottiti dal metallo spesso e da tre giri cigolanti di chiave. Bruno non si smuove di un millimetro, ancora ritto in piedi, con le orecchie tese e l'impressione fallace di poter sfondare la porta a mani nude al primo segnale di pericolo per Ricciardi. Attutite, gli giungono le loro voci:

«L'ordine mi pare ora ristabilito, caposquadra.»

«Parrebbe proprio di sì. Mi auguro che sia un ordine duraturo.»

«Lo sarà certamente, finché ci sarà la Regia Polizia a tutelarlo e voi a fornirci la vostra preziosa assistenza. Mi premurerò di informare il vicequestore.»

Una densa pulsazione di silenzio segue quelle parole. Bruno strizza i pugni, i denti che cigolano tra loro.

«Semper, commissario,» mastica infine Barbagli, oltre un grumo di bile - e ci manca solo che si metta a gridar pure alalà*.

Uno schiocco unisono di tacchi echeggia nell'ambiente. Poi, passi in allontanamento. Cadenzati, seguiti da alcuni più lenti. Infine, silenzio assoluto, se non per il fruscio del vento fuori e lo sgocciolio di qualche tubatura difettosa.

Attende, minuti interi che anneriscono il buio attorno a lui. Rilassa pian piano i muscoli, ma resta ritto in piedi. Serra poi con lentezza gli occhi e il proprio corpo sembra farsi più presente, più vivido - solo ora prende atto del proprio respiro accelerato e delle convulsioni aritmiche del cuore nel petto.

Gli fanno male gli stinchi e le ginocchia, costellati di fitte più o meno acute. Una manganellata gli ha beccato un testicolo e il dolore è arpionato nei gangli nervosi. Sicuro, gli verranno pure un paio di lividi sul culo. Un cerchio dolente gli cinge il braccio, là dove il fascio là ha agguantato con forza per minuti interi. E gli pulsano i gomiti per la caduta, ma non gli pare di avvertire sangue sotto la stoffa.

Si fa quell'autodiagnosi asettica con le mani piantate rigide e tese lungo i fianchi, senza bisogno di constatare con lo sguardo i danni. Sono ematomi e lievi contusioni, al limite una piccola tumefazione, ma bruciano quanto ustioni profonde. Continua ad aspettare, col cuore appeso alle arterie, ballonzolante nel petto e sul punto di precipitare.

Dopo un tempo incalcolabile, quando stanno per cedergli le gambe, ode dei passi in avvicinamento - rapidi, ma non di marcia; passi civili.

La porta della cella si apre e con essa i suoi polmoni, che riprendono ad assorbire ossigeno. Il volto teso dell'agente Camarda fa capolino dallo spiraglio e, subito dietro, la sagoma composta di Ricciardi, tradita solo dagli occhi irrequieti.

«Dottor Modo, io...» dice Camarda, contrito, ma lui scaccia via le scuse con un cenno fiacco della mano, mimando un fa niente; gli assesta un paio di pacche noncuranti sul braccio.

«Camarda, mi raccomando,» Ricciardi lo trattiene un istante, mentre lui fa per allontanarsi, «non una parola. Nemmeno a Garzo o al brigadiere Maione.»

Lui porta una mano alla fronte, un saluto privo dell'ostentazione di poco fa con le camicie nere.

«Io sono una tomba se me lo dite voi, commissario.»

«Grazie. Torna in guardiola, qui ci penso io.»

«Comandi.»

Camarda si defila svelto, portandosi appresso una nube di sollievo palpabile.

Bruno esce dalla cella con le gambe molli e si addossa contro la porta, chiudendola dietro di sé con un fragore di ferro che gli riverbera tra le costole. Il cuore gli scatta a balzelloni fuori dal petto.

«Maronna mia, Riccia',» sfiata infine, sul ciglio di una risata nervosa. «Maronna, m'hai fatto quasi paura. Tengo un cardiopalma, senti qua... mi devi soccorrere tu a me, se-»

Non capisce bene cosa stia accadendo, quando gli sfugge di colpo il fiato di bocca e si ritrova compresso in una stretta tiepida, avvolto da un tenue sentore di tiglio e mezzo premuto contro la porta.

«Scusa,» si sente dire a un soffio caldo dall'orecchio.

Bruno ricambia d'istinto la sua stretta, un braccio che va a cingergli goffo la schiena e la risatina che gli muore in gola - si schianta contro la sua spalla e il suo collo, ora accostato alle sue labbra. Non sta capendo più niente, ma affonda il naso in quella nicchia nuova e gradita.

«Scusa per cosa? Per avermi appena scampato un pestaggio?»

«Non sapevo che altro fare, non-» Ricciardi lo stringe più forte, il respiro che si fa più leggero, irregolare, a spezzettare le frasi: artiglia le mani alla sua schiena e quasi gli fa male. «Non volevo che ti- lo vedevo, cosa ti facevano, ma non- io non sono stato capace di far niente, son rimasto a guardare ma-»

«Riccia'.»

Anche se è come strapparsi di dosso una coperta calda nella bufera, fa pressione sulle sue spalle e lo scansa da lui a fatica - ha bisogno d'aria, sta annaspando, le dita ancora avvinghiate alla sua giacca. Con tutt'altro intento rispetto a poco prima, Bruno gli raccoglie la guancia nel palmo. È bollente, madida; avverte il serrarsi ritmico della mandibola sotto i polpastrelli, il refolo frenetico del suo respiro sul polso. Lascia scivolare la mano lungo il collo, a stringergli la spalla.

«Non mi è successo niente; solo qualche livido e un po' d'orgoglio ferito. Nulla d'irreparabile.»

Sorride a mezzo, ma Ricciardi è sempre più affannato, con rivoli di sudore che si rincorrono sulle tempie - sembra non ingollare abbastanza aria. Per pochi, interminabili secondi, Bruno attende, lo sguardo che scivola dai suoi occhi quasi febbricitanti, d'un colore indistinguibile, al colorito chiazzato delle sue guance. Lo sente poi oscillare sul posto - e conferma il calo di adrenalina in atto.

«Riccia',» lo sorregge per i gomiti con sforzo, frenando il suo accasciarsi, e lui sobbalza come a una scarica elettrica, «stai andando in iperventilazione. Rallenta, un respiro per volta. Dal naso, non boccheggiare.»

Gli dedica il tono gentile ma fermo che riserva di solito ai pazienti particolarmente agitati. Vede, con chiarezza anatomica, le sue pupille iperdilatate appuntarsi prima nelle proprie, poi più in basso, sulle sue labbra, e scattare orizzontalmente in quello che pare un nistagmo nevrotico e, infine, scomparire dietro le palpebre strizzate con forza. Avverte il suo peso farsi più marcato.

«Mi viene da vomitare.»

«È normale; non sulle mie scarpe, in caso.»

Sotto i palmi serrati su di lui, avverte i suoi battiti impazziti e un minuto spasmo muscolare. Adocchia la sedia del secondino lungo il muro e ve lo sospinge, un passo alla volta. Lui vi si accomoda quasi di schianto.

Gli allenta cravatta e colletto della camicia, per facilitare la respirazione e trovargli il battito giugulare - rapidissimo, quasi visibile - con le dita che sfarfallano un poco e che lo fanno sentire un medico inadatto al proprio mestiere. Così come il gesto di scostargli i capelli madidi dalla fronte - una, due, troppe volte - tanto superfluo da divenire irrinunciabile, un qualcosa che gli stampa sulla pelle al pari delle impronte digitali.

Nel giro di qualche minuto, però, Ricciardi ha ripreso una respirazione più controllata, anche se è ancora pallido come un cencio e scosso da un lieve tremito periferico. Tiene gli occhi chiusi, le dita intrecciate in grembo, la nuca premuta contro il muro di nudi mattoni.

Non rimette, almeno.

Bruno gli lascia un'ultima carezza tra le ciocche scomposte, prima di ritrarre la mano - ustionata, lorda di gesti che non dovrebbe permettersi e che, pure, non vengono rifiutati.

Il petto di Ricciardi si alza e abbassa in onde ancora troppo marcate. Bruno aspetta ancora un poco, con la mano ora adagiata sulla sua spalla. La patina di calma che permeava la sua figura è evaporata; solo ora coglie con nitidezza lo sforzo che ha compiuto nel mantenerla, mentre veniva divorato dall'interno da quel coacervo di impulsi nervosi ora in rotta.

È sollevato, nel vedere quelle reazioni: denotano una sana, rassicurante paura di ciò che potrebbe ferirlo o ucciderlo, in contrasto con qualunque velleità suicida gli avesse attribuito nel fronteggiare i fasci a quella maniera spavalda.

«Ti senti meglio?»

Ricciardi annuisce, ancora a occhi chiusi, per poi bloccarsi e scrollare il capo a contraddirsi. Le ciglia scure si contraggono contro la pelle pallida. Le schiude, fissandolo dabbasso con occhi scuriti dalla luce fioca.

«Ti potevano ammazzare.»

«Ma va', non sono così fessi.» Gli strizza la spalla con falso brio. «Arrestare, sì, magari darmi una ripassata... ma son troppo vigliacchi per accoppare per strada la gente che tiene un nome. Solo coi poveracci veri, se la prendono, quelli che non cercherebbe nessuno.»

Ricciardi scuote di nuovo la testa, con più energia.

«Bruno.» Gli afferra il polso, provocandogli un sobbalzo. «Io non ti posso difendere sempre e anche adesso non ho fatto quanto avrei dovuto, ma non mi posso permettere altre voci che mi ronzano alle spalle, o finisce che mi trasferiscono a Pianosa o a Ventotene e mi ci lasciano a vita; e pure a te, solo che tu stai dentro una cella per davvero e io fuori.»

Ha di nuovo il respiro corto per aver parlato in fretta, quasi senza pause.

«Guarda che se la sarebbero presa con noi a prescindere.» Bruno si siede sui talloni e porta gli occhi al suo livello, assecondando il filo di tensione tra loro. «Mi han dato del comunista, ma potevano inventarsi pure che non gli piaceva com'eri vestito tu o che io tengo la barba troppo lunga, pur di mazziarci. Non c'entra niente ciò che siamo davvero, e lo sai.»

Ricciardi si umetta le labbra aride, lo sguardo che svicola via come un'ombra.

«Però lo siamo.»

«Cosa, comunisti?»

«Per favore... lo sai cosa intendo.»

«E cosa vuoi che ti dica? Di sì, così mi autodenuncio?»

«Non lo so.» Serra di nuovo gli occhi, refrattario alla sua ironia. «Non so che pensare, né di te, né di me stesso, né tanto meno di quello che ci potrebbe capitare se continuiamo a essere così.»

«Veramente, non abbiamo nemmeno cominciato.»

Gli rifila un sorriso scaltro che, però, gli trema in bocca. Preme, per un istante, la mano sul suo petto, nel punto in cui lui ieri l'ha stretta a sé. Non ottenendo reazione, la fa scivolar via subito; Ricciardi non la trattiene. Bruno scrolla piano le spalle.

«E non dobbiamo per forza.»

Quell'affermazione riporta le pupille di Ricciardi nelle sue. Sembra voler spingere fuori parole affannate, per poi deglutire e tenersele nel petto - almeno, per qualche istante, prima di lasciarle scappar via in corsa come gli accade spesso con lui:

«Tu ne saresti capace?»

Bruno si trattiene a fatica dallo sbottargli a ridere in faccia, perché l'assurdità di quella situazione risulterebbe drammaticamente ironica soltanto a lui. A chi si è andato a ficcare in un bordello per far finta di essere normale, per poi calarsi nelle sue devianze pur di soddisfarle, prendendosi il meglio dagli altri e donando loro il peggio. A chi non è comunque riuscito a diventarlo, normale, scoprendo solo storpiature su storpiature dentro di sé e aggravandole a ogni passo.

Fissa il pallido quadrato lunare della finestrella proiettato sul pavimento in tufo, rigato dalle sbarre. Gli sembra un posto orrido per parlare di tutto ciò, e allo stesso tempo il più adeguato.

«Non ne sono mai stato capace, mi pare.» Soffia con rassegnazione dal naso, ancora mezzo inchinato di fronte a lui. «E la colpa è solo tua.»

Gli scappa con dolcezza involontaria, l'accusa che dovrebbe risuonare aspra quanto quelle che gli ha scagliato addosso Marisa solo quella mattina; ma non gli riesce di convertire in rabbia ciò che pulsa in controtempo col suo cuore, a fagocitarlo e storcerlo - glielo sposta invece da un'altra parte, una mesocardia anomala che lo pianta di traverso in mezzo allo sterno invece che a sinistra, dove dovrebbe stare, o a destra, a sancire la sua patologia incurabile.

Ricciardi esita, il capo che trema appena in un moto confuso.

«Io non ho fatto niente.»

Bruno sorride appena: gli tira dei fili sottili e taglienti nel petto, quel gesto un po' forzato, un po' no, forse figlio della follia che lo pervade. Non lo guarda negli occhi; tiene i propri inchiodati sulla mano di Ricciardi, ora posata inerte sul ginocchio.

«Certo che è colpa tua, se ti dico cose che non dovrei dirti o se mi scolo una bottiglia di cognac da solo con te o se canto cose idiote se o sono fatto così, adesso. Io prima ero normale.»

Odia la nota spezzata che scheggia quell'ultima parola.

«Bruno.»

«È colpa tua e io non ci sto campando più, così, a far finta di...»

«Di cosa? Di essere normale?»

Bruno serra gli occhi; e penserebbe che la terra gli si stia spaccando sotto ai piedi, o che qualcuno gli abbia tranciato le fila da marionetta che l'han tenuto diritto fino ad ora, nel suo costume anonimo da uomo come tanti che non è mai riuscito a essere.

«Normale, sì. Ma tanto normale non lo sei nemmeno tu, pure se ti rifiuti di vederlo.»

«Chi dice che mi rifiuto?» Ricciardi gli infigge le pupille addosso, con energia nuova, vibrante - quasi risentita. Un sorriso affilato gli spacca le labbra. «Non posso scegliere cosa vedere, ma almeno posso ancora scegliere cosa guardare. E, se scelgo di guardare te, non è certo per sentirmi più o meno normale di quanto sono.»

Bruno incespica in quelle parole criptiche, e poi quasi se ne dimentica nel notare come la curva della sua bocca si spenga, assottigliandosi in linea compressa, parallela alle sue sopracciglia ora aggrottate in un moto sofferto.

«Solo che non lo so lo stesso, cosa devo fare. Io non ci vado d'accordo, con la gente. Anche se tu non sei solo- Non so... non so nemmeno io cosa sto pensando adesso e non-»

Bruno, con uno scatto non frenato per tempo, lo avvolge a sé, senza nemmeno farlo finire di parlare. Il suo respiro strozzato si infrange in un'onda calda sul collo, seguito dalla mano che gli si aggrappa alla schiena - e la avverte, la stessa paura che ha divorato anche lui in quegli ultimi giorni, la avverte nelle ossa.

«Bruno, io normale non lo sono mai stato. Non lo so, cosa voglia dire fare qualcosa di-»

«Va bene tutto, Riccia'. Va bene anche solo questo. Va bene qualunque cosa vada bene a te.»

Lo stringe con più forza, annegando nel suo profumo di tiglio, di bosco, di pulito screziato dalla nota acre della paura - e non va del tutto bene: vorrebbe molto più di quello e vorrebbe tutto ciò che ha solo osato immaginare in quel teatrino storto che s'è costruito in testa. Ma, a scardinare i sentimenti fuori da qualcuno, si finisce per tagliare loro le radici.

Gli preme un palmo sulla nuca, stringendo appena:

«Te l'ho già detto: per me cambierebbe qualcosa solo se tu non ci fossi.»

Rimane lì, quasi inginocchiato accanto a lui, a premerlo a sé con troppa forza, e non ci trova nulla di osceno in quella posizione - non ora, almeno, non mentre non sa nemmeno come stringerlo - ma neanche Ricciardi lo sa, è pure lui impacciato e saldo al contempo.

Si alzano quasi in sincrono, a rafforzare quel contatto che sembra già spaventoso così, senza osare nulla di più - si fa gigantesco e incombente tra loro, ma si erge anche a scudo da tutto il resto che vorrebbero tener fuori.

La voce di Ricciardi risuona dopo quelli che sembrano essere minuti interi: è un sospiro che sembra tagliargli il timpano.

«Lo sai che altro hai fatto, quella sera?» Gli tremano le parole nel petto, ne avverte la vibrazione; lo investe il suo profumo, il calore della sua guancia appoggiata alla sua. «Anzi, cosa hai quasi fatto.»

«Non sono sicuro di volerlo sapere, visto com'è andato a finire prima questo gioco.»

Bruno ride piano nel suo orecchio e gli sfarfallano in testa i frammenti di quella notte obliata dall'alcol, inafferrabili. Sulla punta delle labbra, però, rievoca un tocco liscio e ruvido al contempo, emerso da quella nebbia viscosa. Lo ritrova a tentoni, riempie il vuoto che lo insegue da giorni: preme un bacio contro la guancia ben rasata di Ricciardi, con solo un'ombra di barba a pizzicarlo - è una sensazione bizzarra, nuova ma ricordata, che gli fa sobbalzare lo stomaco come se avesse mancato un gradino scendendo in corsa da una scala.

«Ricordo bene?»

Ricciardi si scosta di pochi millimetri da lui, il naso che lo sfiora; non sa più a chi appartenga il respiro che avverte tra loro, è una risacca calda che si infrange e ritira rapida sull'onda di un inudibile.

Bruno lo aspetta, con le mani ancorate sulle sue braccia; e non potrebbe muoversi nemmeno volendo, ché il suo corpo s'è fatto di piombo inerte e ha perso la vista in quegli occhi vicinissimi. Ne conta ogni sfumatura soffusa nella penombra falciata da una sottile stilla di luna – alcune, più tenui, non le ha mai notate.

Ha immaginato tutto, di lui; ha ricreato nella propria fantasia ogni lembo di pelle ora coperto e ogni movimento del suo corpo nudo contro il proprio, ogni tocco delle sue mani che gli ha infiammato i lombi - eppure, quel singolo tassello delle sue labbra lascia un vuoto siderale in un mosaico raffazzonato e storto. Non sa nemmeno immaginare come siano contro le sue: non gli è stato concesso di cercarle nemmeno nella finzione.

Ricciardi lo fissa negli occhi, ma forse gli cerca l'anima dietro le iridi troppo scure e l'accozzaglia di fesserie sbilenche che gli si accapiglia nel cranio; forse cerca anche il coraggio e, infine, lo trova in punta di dita, le stesse che gli preme piano sul volto per guidarlo a sé.

Non è un bacio, il suo: è più un sospiro tiepido che gli lambisce le labbra a fior di pelle, un anelito frenato a mezza via dal realizzarsi del tutto. Ne avverte il tocco morbido e fugace, la scia vibrante di un respiro che s'interseca al suo - uno scoppiettio sommesso gli rimbalza sottopelle, spegnendosi rapido come un cerino nel buio.

E rimane immobile. Pietrificato, con le pulsazioni bloccate in gola e le mani ancorate rigide alle sua braccia. Non è ciò che dovrebbe provare. Gli si divincolano i visceri, vogliosi di cambiar posizione e intrecciarsi tra loro - sente le labbra umide e bollenti al contempo, inadatte a qualunque gesto dato o ricevuto, perché è sbagliato in tutto ciò che vorrebbe dare o ricevere.

Ricciardi gli lascia aria, fremente. A quella sua assenza di reazioni, lo vede battere rapido le palpebre e risucchiare un respiro asfittico. Quando fa per scansarsi del tutto, però, Bruno serra la presa su di lui - a trattenerlo vicino, con forse troppa veemenza.

Non muove un muscolo, come se flettere una singola falange potesse sgretolare tutto - come ha fatto con Marisa, o con Gemma, a causar dolore senza nemmeno avvedersene - come se a ricambiarlo potesse sgretolarsi lui stesso quale si è sempre conosciuto e riconosciuto - non le vuole, quelle sensazioni, quelle "emozioni" estranee che si impennano nel cuore.

Eppure, vuole baciarlo. Ancora. Ancora e ancora, fino a capire come funzioni tutto quel marasma che gli si agita in petto come una fiammella dolce. Tiene gli occhi puntati più in basso del suo volto, a escludere i suoi; li fa perdere in un punto indistinto e insignificante tra la sua cravatta allentata e il taschino della giacca - il suo cervello è spento, viaggia nella melassa di sentimenti che stentano a prender forma e gli rubano i pensieri.

Per questo, sobbalza appena nell'avvertire le labbra di Ricciardi di nuovo posate sulle sue; più ferme, stavolta, accompagnate da un respiro più profondo e tremante. E poi aria, di nuovo, una boccata pungente che si solidifica tra loro - e poi di nuovo le sue labbra che lo sfiorano senza osare oltre.

Bruno, a ogni tocco, sente qualcosa sciogliersi all'altezza dello sterno - un nodo, un qualcosa di seghettato e spinoso - che si allenta un poco di più con ogni breve bacio che lui gli offre, uno dopo l'altro, con una richiesta muta a inframmezzarli, a cui Bruno prima non si oppone e che poi asseconda - e, un nodo dopo l'altro, si ritrova libero di respirare.

Quando lo sente staccarsi per l'ennesima volta, riaggancia il palmo della mano al suo volto, guidandolo di nuovo a sé - e lo ricorre, adesso, gli stampa addosso con foga incendiaria tutto l'accapigliarsi confuso a cui non sa dare un nome, o a cui vorrebbe darne troppi, ma che non riesce più a tenere imbrigliato.

E ora lo sente davvero, quel bacio a cui schiude le labbra e che gli avvinghia le dita tra i ricci; lo assaggia, lo assapora con un brivido che fa cozzare tra loro costole e cuore nel momento in cui lo spinge contro il muro - e gli piace, come e più di quanto abbia immaginato finora - è una certezza, una condanna soffice come la bocca in cui affonda.

Gli piace il suo corpo mascolino che aderisce al suo e se ne infischia dei lividi; e la ruvidezza nuova, strana, eccitante, della barba invisibile che gli pizzica le labbra; gli piace trovare ciocche di capelli troppo corte da tirare sulla nuca e pure il fatto di baciarlo così alla rinfusa, senza alcun riguardo per rossetti o trucchi che lascerebbero segni addosso; gli piace tutto e forse gli sarebbe sempre piaciuto, se solo avesse trovato lui una vita prima.

È come aver ricordato una lingua nota, da tempo dimenticata, e non riuscire più a impedirsi di capirla, nemmeno provandoci con tutto se stesso.

Ricciardi asseconda ogni suo fremito, sicuro di sé come non l'avrebbe mai immaginato - da quanto lo sta aspettando, lui? - e chiede, anche; chiede ed esige a piccoli strattoni e pressioni che gli negano ogni requie o richiesta d'aria - come se temesse il momento in cui smetteranno di annegarsi le reciproche parole in bocca, costretti infine a dar loro voce.

E stanno scomodi, lì in piedi contro il muro, relegati in quell'anfratto buio; ma è anche giusto, forse, stare scomodi, per non adagiarsi nell'illusione di normalità fittizia che sembra tentarli. È così fragile, compressa in quel cantuccio a un giro d'angolo dal mondo, che pure un respiro di troppo potrebbe spezzarla.

Quando, affannati e scomposti, si fermano infine fronte a fronte, è solo per l'umano bisogno d'ossigeno - e non fa più così paura, quel silenzio che si adagia tra loro in punta di piedi e accarezza i loro volti accaldati.

Ricciardi fa specchio, con labbra arrossate quanto le sue e una fossetta a inciderne l'angolo, del sorriso idiota e folle che gli sboccia in volto, sospinto da una risatina lieve e liberatoria, di gola - e lo vuole ancora, adesso, domani, così come lo voleva ieri - lo vuole a dispetto di tutto e lo legge anche nello sguardo ora lucido, ceruleo e limpido a un soffio da lui. Fa paura, essere felici così.

Inebriato da quella scintilla di follia che abbraccia a piene mani, così come abbraccia lui fino a far confondere i loro battiti, pensa solo che, col cuore in mezzo al petto e non del tutto a destra o a manca, si può forse campar bene lo stesso, almeno per un po'.

Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
sarò breve: HABEMUS PPP (Polli Partenopei Prediletti) ♥
È stato un percorso un po' travagliato, potevo renderlo ancor più sofferto, ma questa mano è stata piuma (oggi).

Vi lascio al brodo di giuggiole e il prossimo e ultimo capitolo proseguirà su questo tenore, non temete! PhoenixoftheParadise avrei voluto mettere questo capitolo qualche giorno fa, chissà perché, ma meglio tardi che mai 👁️👁️💙

Grazie a chi ha letto e commentato fin qui, siete preziosi.

Qui sotto, vi lascio l'ennesima meraviglia nata dalle mani di Cossiopea, che direi si adatta a pennello a questo capitolo ♥ Grazie di cuore, come sempre!

-Light-

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