2. L'eredità

Pov Michele

La stavo fissando da quando era entrata nella stanza.
Non si poteva dire che fosse brutta, anzi... e di solito non mi lasciavo andare a certi pensieri, le donne erano così terribilmente stupide che avevo imparato a controllare certi istinti.

A me bastava Ilaria, con qualche borsetta stava in silenzio e non avevo troppe preoccupazioni.
Ero consapevole che davano solo problemi, non mi piaceva averci a che fare. Avevo fatto un'accurata selezione per trovare Ilaria ma questa ragazza era diversa.
Aveva tutta l'aria di essere una di quelle che pretendevano tanto. Sicudamente era troppo indipendente per i miei gusti, però era un bel vedere.

Mi stupii ancora una volta di me stesso, non riuscivo a distogliere gli occhi da lei.
La squadrai da capo a piedi: i pantaloni neri a palazzo lasciavano immaginare delle gambe da capogiro e un bel sedere alto e rotondo, il punto vita era ben segnato dalla camicia sotto i pantaloni e anche il seno era alto, sodo e decisamente della taglia giusta, il collo era lungo e flessuoso, i capelli color miele le arrivavano a metà schiena, erano ondulati e dovevano essere decisamente troppo morbidi.
Ma un bel fisico potevano avercelo tutte. Bastavano un po' di palestra e una dieta adeguata.
Il viso, invece, mi lasciava senza parole: le labbra carnose, il nasino piccolo e dritto, due occhioni da gatta verdi smeraldo con ciglia chilometriche. Sembrava disegnato, ed era probabilmente uno dei visi più belli che io avessi mai visto.
Si avvicinò per sedersi al tavolo e il suo profumo mi colpì come uno schiaffo in faccia.
Non era un profumo costoso, e di profumi ne avevo sentiti tanti nel corso di tutte le feste che organizzava mia madre.

Era ammaliante, dolce, con una nota speziata che mi ricordava un viaggio che avevo fatto nel deserto.

Mi sembrava di riconoscere un tocco di fragola, un po' di vaniglia, e quella dannata spezia che non riuscivo a ricondurre a niente.

La fissai per tutto il tempo e probabilmente se ne accorse visto che mi piantò i suoi occhioni in faccia e mi fulminò letteralmente, se avesse potuto probabilmente mi avrebbe fatto prendere fuoco.
Quegli smeraldi erano talmente verdi che le pietre preziose nella cassaforte di mia madre erano opache se messe a confronto con lei.

Ascoltai tutta la lettura del testamento, e come avevamo previsto, le divisioni dell'intero patrimonio erano affidate a noi, solo che quando sentii la cifra che mi sarebbe arrivata ebbi un capogiro: trenta milioni erano tantissimi, e se sommati alle quote della società elettrica, che avrebbero fruttato due milioni l'anno almeno e, aggiungendoci i soldi che già avevo nel mio conto corrente e il mio lavoro, che non avevo intenzione di lasciare, realizzai che potevo stare bene per questa vita e altre due vite successive.

Quando l'avvocato lesse la restante busta mi sentii tradito, letteralmente fregato dal mio stesso sangue, incastrato, intrappolato, ricattato.

Tutti quei soldi facevano gola, li avrei voluti, già pensavo a come spenderli e a quale macchina comprare, ma per averli avrei dovuto sposare quella lì. L'ultima donna che avrei voluto sposare sulla faccia della terra perché probabilmente non l'avrei zittita con una borsetta firmata.

Ascoltai, sotto shock, il discorso che fece all'avvocato, e no, non l'avrei decisamente zittita con i regali costosi e, diamine, non volevo sposarla nemmeno morto ma me la sarei fatta andare bene pur di prendere quei dannati soldi che mi spettavano di diritto ma lei era irremovibile. Voleva rinunciare, non ne voleva proprio sapere.

Poi quel genio del male di mio padre ebbe la brillante idea di darle dell'arrampicatrice sociale e lei, con un'audacia che non avevano nemmeno i suoi pari, gli disse che aveva poca logica e scappò via senza neanche salutare. 

Che caratterino.

Se non fosse stato per quella bellezza soprannaturale che mi attirava nonostante di solito non mi lasciassi andare a simili pensieri con nessuna, probabilmente l'avrei presa a male parole.

Mi venne automatico andarle dietro, volevo dirle che neanche io avrei voluto sposarla ma che ci poteva pensare, si sarebbe sistemata a vita e avremmo semplicemente fatto finta di essere marito e moglie senza nessun tipo di obbligo.

Volevo quei maledetti soldi che erano miei.

Iniziò letteralmente a correre per le scale e io aumentai il passo finché la vidi fare una manovra da formula uno, uscì dal parcheggio in una sola mossa sgommando e corse via con l'acceleratore a tavoletta.

Aveva le palle per fare una cosa simile, questo glielo dovevo riconoscere, con una macchina vecchissima aveva avuto una precisione e una ripresa eccellente nel ripartire. Non avrei osato pensare come avesse guidato con una sportiva come la mia.

Subito dopo mi diedi mentalmente del coglione, non avevo mai contemplato l'idea che una donna che potesse piacermi avrebbe guidato in mia presenza, quello lo avrei fatto io o l'autista, figuriamoci immaginarla alla guida di una macchina da 280mila euro.

Pov Sara

Guidai per tutto il tempo con la musica a palla e l'acceleratore premuto sperando che la mia macchinina reggesse i miei nervi.
Ero cresciuta con un solo principio: mai dipendere da nessuno, specialmente da un uomo.
Dipendere da qualcuno significava dargli potere e mia nonna mi aveva insegnato che dare potere a un uomo spesso era sinonimo di una relazione abusante.
Mi aveva spiegato che non tutti gli uomini fanno del male, ma per evitare situazioni spiacevoli non dovevano essere mai sopra di noi.

"Fai in modo di saper fare tutto da sola, non chiedere mai a nessuno di aprirti il tappo di un barattolo, metterti un chiodo a casa, cambiarti una lampadina, guidare per te.
Non credere a quelli che ti chiederanno di non lavorare per stare in casa a mettere a posto le loro mutande o a crescere figli che magari neanche volevi, i soldi sono la cosa più importante che avrai per essere libera.
Trovati un lavoro, studia, realizzati e non scendere mai a compromessi su questo.
Stai alla larga dagli uomini che chiamano puttane le altre donne e che le giudicano per come si rapportano con gli uomini."

Questa era stata la mia bibbia, fin da quando avevo sei anni. Più tardi scoprii che mia nonna era femminista senza sapere di esserlo, e io, in suo onore, lo diventai consapevolmente.
Mai e poi mai mi sarei prestata a essere una chiave per dare dei soldi a una famiglia già ampiamente ricca.

Inoltre, prendere i loro soldi significava dargli potere di decidere cosa avrei fatto nella mia vita. Se lo avessi sposato, ogni giorno sarei dovuta essere grata a lui per avermi dato la possibilità di comprare tutto ciò che volevo. Era la negazione di tutto ciò in cui avevo sempre creduto.

E poi, a maggior ragione, non mi interessavano le borse, le scarpe o i gioielli, un giorno me li sarei comprati da sola.
Una borsetta firmata non ne valeva la pena.
Non sarei scesa a compromessi.

E poi mi sembravano decisamente arroganti e non volevo averci niente a che fare.

Stavo studiando all'università e nel mentre lavoravo in un negozio di intimo per pagare l'affitto, il mio percorso era eccellente, gli esami andavano molto bene e l'anno prossimo mi sarei laureata, poi mi sarei specializzata e avrei trovato un lavoro. Era la prova che non avevo bisogno di loro.

Tornai a casa e mi sfogai con le mie amiche, e loro, dopo un momento di esitazione in cui mi dissero che un'amica milionaria gli avrebbe fatto comodo, mi diedero ragione... anche loro non avrebbero mai rinunciato all'indipendenza per dei dannati soldi, anche se si trattava di milioni.

"Beh, sai cosa ci vuole ora per riprendersi da quest'avventura?" disse Francesca, "una bella serata fuori! C'è l'ultima notte estiva in centro! Sarà pieno di ragazzi".
Scoppiammo a ridere e annuimmo divertite.
La nostra tradizione era che, una volta a settimana, uscivamo a rimorchiare e facevamo a gara a chi trovava il ragazzo più carino.
Legarci a qualcuno al momento non ci interessava, non avevamo tempo da dedicare a una relazione e l'università era più importante, ma non avevamo intenzione di rinunciare ai piaceri dei  vent'anni.

"Io non guido, stasera voglio bere" chiarii subito.
Prendemmo l'autobus e alle nove eravamo in centro. Ci dirigemmo in piazza dove c'era un po' di musica e Francesca, la più festaiola, ci portò tutte in pista.
Dopo la prima vodka lemon iniziai a sciogliermi e a non pensare a quella giornata.

Iniziai a ballare senza pensare a niente, la musica mi piaceva, ero in compagnia delle mie amiche e iniziai a muovermi a mio agio finché Giulia mi disse:
"Guarda quel ricciolino là in fondo! Non ti toglie gli occhi di dosso da prima, mi sa che hai rimorchiato".
Mi girai a guardalo senza preoccuparmi di essere vista e lo beccai a fissarmi. Non era male, gli lanciai un sorriso radioso che doveva essere un invito e mi girai di nuovo a ballare. In meno di tre secondi me lo ritrovai dietro, era sveglio il ragazzo.
"Ciao" mi salutò.
"Hey! Mi chiedevo quando saresti venuto a salutarmi, mi fissavi da un quarto d'ora" esclamai sorniona, abbassando le ciglia. Mi piaceva flirtare.
"Non ti stavo fissando".
"Ah no? Mi sentivo un po' osservata, ma mi piaceva, eh".
"Beh, forse potrei averti guardata un po'".
"E ti piaceva quello che vedevi?".
"Sei sempre così diretta tu?".
"Non si risponde a una domanda con un'altra domanda".
Scoppiò a ridere, "sì mi piaceva quello che vedevo".
"Allora credo dovresti offrirmi un drink se ti è piaciuto lo spettacolo" flirtai.
"Prego, signorina". 

Ci dirigemmo verso il bar e ordinammo di nuovo da bere, subito dopo iniziai a ballare a bordo pista vicino a lui che mi mise le mani sui fianchi. Parlammo un po' della musica finché avvicinai il mio viso al suo e ci baciammo.
Dovevo capire se ne valeva pena e di solito se sapevano baciare bene, sapevano anche fare altro. Era passionale, mi piaceva.
Mi staccai e gli sussurrai sulle labbra: "Sai, potrei anche farti il bis dello spettacolo, ma stavolta privato".
Non se lo fece ripetere due volte e ci appartammo in un vicoletto nascosto.

Verso l'una di notte tornai dalle mie amiche, doveva essere una cosa più veloce e invece Matteo ci sapeva fare e dal vicoletto passammo al suo appartamento per stare più comodi, mi ero divertita.

"Dall'ora in cui sei tornata mi sa che ti sei divertita, eh" commentò Francesca mentre tornavamo a casa a piedi.
"Mhmh è stata una bellissima serata" risposi, "e voi?".
"Ci siamo divertite anche noi ma tu di più mi sa" disse Giulia.
"Oggi me lo meritavo" risposi mettendo il broncio.
Scoppiammo a ridere e ci abbracciammo.

Stavo davvero bene con loro, ci eravamo trovate subito, fin dal primo giorno di università. Era come se avessi trovato due sorelle con cui condividere tutto, dalle ansie dello studio, alle preoccupazioni per il futuro, le cose belle che ci succedevano, le confidenze e anche qualche ragazzo. Se mi avessero chiesto cosa fosse l'amicizia, avrei risposto che loro due incarnavano esattamente ciò che per me era l'amicizia.
Mi piaceva pensare che me le avesse mandate mia nonna per non lasciarmi del tutto sola.

Pov Michele

"Bella merda" commentai appena risalii in casa.

E mio padre mi fece eco dietro, "Già, bella merda".

"E adesso?" chiesi frastornato.

"E adesso la convinci a sposarti".

"Ah, beh, dopo che tu le hai dato dell'arrampicatrice sociale non so quanto possa essere facile l'impresa".

Sbuffò: "Sono donne, niente che qualche regalo costoso e un po' di corteggiamento non possa risolvere". Mia madre annuì.

Di solito era vero, mi comportavo sempre così e funzionava, ma avevo la netta impressione che quella lì non fosse propriamente il tipo di donna che descrivevano e che io avevo sempre apprezzato.

"È scappata via come una gazzella" notai.

"Magari le piace essere rincorsa, alle donne piace sentirsi pregiate e fanno le difficili prima di rivelarsi per come sono, cioè tutte facili quando ci sono di mezzo i soldi".

Sapevo che mio padre aveva ragione, ma inconsciamente sentivo che qualcosa in tutto ciò mi stonava.

"E come la dovrei corteggiare?".

"E che ne so? Fiori, collane, borsette, scarpe".

"Nemmeno so dove abita". Stavo tirando fuori mille scuse perché non sapevo se avessi voluto rivederla. Ovvio che sapevo come si corteggiasse una donna.

"Questo te lo fornisco io, domani sento lo studio dell'avvocato Ranieri".

L'indomani trovai sul vassoio della colazione l'indirizzo come se fosse stato anche quello qualcosa di commestibile da mandare giù per sopravvivere.

Presi subito in mano il telefono per vedere dove abitasse; era un palazzone vecchio, con un parcheggio condominiale e un po' di giardinetto sotto.
Guardai l'orologio.
Alle nove dovevo stare a Roma per incontrare Ilaria e in serata avrei preso l'aereo verso Amsterdam, non avevo voglia di farmi duemila chilometri in macchina questa volta.

Mi preparai e uscii, appena salii in macchina non potei fare a meno di notare il segno della sgommata sulla ghiaia di casa, ieri la sua macchina era parcheggiata proprio qua di fianco.

Che caratterino, pensai per la seconda volta.

Mi passai una mano tra i capelli e avviai la macchina.

★······★······★

A Roma passai in via del corso, da Luis Vuitton, con tutta l'intenzione di prendere qualcosa a Ilaria. Non mi ero fatto sentire questo mese, un po' perché ero impegnato con il lavoro, un po' perché non avevo voglia di parlare di stronzate al telefono e un po' perché Aby si era fatta pesante.
Nessuna delle due sapeva dell'altra, ma la mia vita era in due posti: in Italia e ad Amsterdam, e non potevo di certo stare tutto quel tempo senza una donna.

Non che fosse una cosa così importante per me, non mi piaceva quando a letto erano troppo disinibite, in camera da letto volevo la luce spenta senza troppe acrobazie, però stare un mese o più senza fare niente non era contemplato.

Erano così carine entrambe, mi assecondavano, non parlavano troppo e non pretendevano troppe spiegazioni. Con Ilaria andava avanti dall'ultimo anno di università e quindi erano almeno quattro anni, anche se di fatto non le avevo mai chiesto di essere la mia fidanzata. Ma a lei andava bene così a quanto pare; sapeva che sarei tornato scusandomi con qualche oggettino che la faceva felice.

Entrai in negozio, c'era sempre la stessa commessa... di solito le indicavo un budget e le dicevo di fare lei, stranamente ricordava tutte le cose precedentemente prese. Forse se le segnava da qualche parte, a quanto pare non ero l'unico ad adottare questo sistema.

Questa volta, però, mi cadde l'occhio su un manichino vicino ai camerini, in vita aveva una cintura bianca con il logo Luis Vuitton marrone e la chiusura LV dorata. Me la immaginai subito sull'outfit che aveva ieri Sara, sarebbe stata un gioiellino sul suo punto vita. "Prendo quella" ordinai alla commessa.

Mi guardò stranita, "certo signore, faccio un pacchettino?".
Ero stranito anche io. Avevo proprio agito d'istinto.

"Sì, ma la passo a prendere stasera in chiusura".

"Come preferisce, gliela metto via allora".
Pagai e uscii dal negozio.

Beh.. avevo speso mille euro e non avevo il regalo per Ilaria in mano, però avevo la scusa per andarla a trovare, scusa che serviva più che altro al mio cervello, vederla mi metteva a disagio.

Entrai da Gucci e meccanicamente, senza pensarci, presi il regalo che mi serviva.
Non sapevo nemmeno cosa diavolo fosse.

Mi diressi a casa sua, con un'ora di ritardo. Suonai il campanello e la trovai perfettamente sistemata, i capelli neri di media lunghezza perfettamente lisci, un vestitino a maniche lunghe, poco trucco esattamente come piaceva a me.
Mi salutò in maniera pacata dicendomi: "Sei stato impegnato questo mese, vero?". 

"Sì, molto" risposi sovrappensiero.

"Mi sei mancato" esternò lei con voce dolce.
"Anche tu" dissi meccanicamente.

Stava adocchiando la busta da quando ero entrato ma non accennava a parlarmene.
"Per farmi perdonare ti ho preso un pensierino" e allungai la busta.

"Non dovevi! Grazie".
Scartò il pacchetto, solo lì scoprii che era l'ultimo modello delle pochette di Gucci e che a quanto pare la faceva impazzire. Mi ringraziò più del dovuto e io risposi per cortesia, era così quasi tutti i mesi da quattro anni, conoscevo a memoria le battute.

"Che ti preparo per pranzo?"
"Non so, adesso ho voglia di fare altro" mi stupii da solo per come mi uscirono le parole di bocca.
"Sei impaziente oggi" mi rispose lei stupita.
"Oggi sì" mi limitai a dire.
La presi di peso e la portai di là spegnendo la luce.

Era stato divertente.
Mi ero accomodato sul divano mentre lei stava preparando la pasta e vederle addosso quel vestitino aderente mi faceva pensare solo a una cosa: alla cintura che avevo appena comprato, cintura che non era per Ilaria, cintura che mi ricordava un punto vita così avvitato da farmi girare la testa.

Ma mio nonno dove diamine l'aveva conosciuta quella ragazza?

Come faceva a sapere della sua esistenza se lei, a detta sua, non ci conosceva?

E perché voleva che diventasse mia moglie?

Se un giorno mi fossi dovuto sposare, probabilmente avrei sposato Ilaria: piccola, servizievole, silenziosa, non invadente, pronta a soddisfarmi... non di certo una con la faccia tosta di insultare mio padre e sgommare sul vialetto di casa mia senza neanche salutare.

La giornata passò tranquilla finché alle sei del pomeriggio ripresi la mia macchina, passai a prendere il pacchetto e, senza pensarci troppo, lo infilai in valigia per portarlo ad Amsterdam.

Pov Sara

Le giornate passarono tranquille, avevo la mia routine: se avevo le lezioni di mattina, lavoravo il pomeriggio e studiavo la sera; se avevo lezioni il pomeriggio, invece, lavoravo la mattina.
Qualche volta ripensavo a quell'incontro, ma avevo deciso di liquidarlo come una parentesi strana della mia vita.

Loro non si erano fatti sentire, per fortuna, e io non avevo intenzione di averci niente a che fare.
Magari avevano trovato lo stratagemma per escludermi dal testamento e sperai fosse davvero così.

★······★······★

Ogni sabato sera uscivamo e avevamo la nostra dose di divertimento.
Oggi avrei fatto richiesta al professore per la tesi ed ero arrivata un po' nervosa in università; richiederla significava ammettere a me stessa che il mio percorso universitario stava finendo, mi mancavano solo tre esami: due a gennaio e uno a giugno, a luglio mi sarei laureata.
Era, di nuovo, la prova schiacciante che ce l'avrei fatta da sola e che non avevo mai avuto bisogno di aiuto.
Ero sicura che la mia nonna sarebbe stata fiera di me, il mio percorso di studi era la cosa che la rendeva più felice al mondo... non aveva fatto in tempo a vedermi iscritta all'università, ma sapeva che lo avrei fatto.
Avevo sempre fatto qualche lavoretto extra per aiutare in casa, lei aveva una piccola pensione e prestava lavoro sui campi, io d'estate lavoravo con lei quando c'era il grosso del lavoro e d'inverno servivo in un piccolo bar. E lei mi diceva sempre:

"Lo so che è dura! Purtroppo nessuno ci regalerà mai niente, Sara, ma tu hai un buon cervello e non sprecarlo mai solo perché ti mancano i mezzi. Hai una grande forza di volontà e sei ambiziosa, non arrenderti mai! Un giorno sarai realizzata, io probabilmente non ci sarò, ma da lassù sarò contenta per te, perché te lo sei sempre meritata".

Quando la fatica, lo stress, i brutti pensieri prendevano il sopravvento pensavo a lei, a quella donna minuta con la forza di un carro armato che mi spronava così quando la sera, finito di lavorare al bar e dopo una mattinata di lezioni, mi mettevo a studiare vicino al camino per stare più calda e avere più luce.
Ripensare alla sua forza mi faceva commuovere.
Aveva superato a suo tempo una gravidanza da sola in nome di un amore che non l'aveva voluta più vedere dopo che era rimasta incinta.
E a quei tempi essere ragazza madre era un bello scandalo.
Aveva sopportato le stesse voci che giravano su sua figlia, i paesani attribuivano il comportamento di mia madre a quello errato insegnatole da mia nonna.
Aveva mandato giù un lutto, mia madre, di cui sapevo solo che si chiamasse Agnese. Era morta di parto dopo due giorni di agonia.
Poi aveva avuto il coraggio di crescermi da sola, quando aveva sessantasei anni ma ne dimostrava il doppio a causa delle fatiche nei campi.
Quando pensavo a lei, la fatica che stavo facendo io mi sembrava ridicola ed ero spronata a continuare. Mi aveva sempre detto che lo studio, e di conseguenza l'ascensore sociale che mi avrebbe portato ad avere abbastanza soldi, mi avrebbero resa libera.
E io volevo essere libera.
Per me.
Per lei.

Mi sedetti al banco aspettando le altre due che si erano fermate a fumare fuori. Mentre ero distratta sentii qualcuno appoggiarmi qualcosa sul tavolo, mi girai e vidi Leonardo che mi aveva appena appoggiato un cappuccino fumante di fronte.
"Scusa, non ti volevo spaventare... lo prendi tutte le mattine, oggi non ce l'avevi e ho pensato di prendertelo io... ho osato troppo?" si giustificò lui.

"Heyy! No, figurati! Anzi, grazie mille, è stato un pensiero carinissimo" risposi, prendendo il bicchiere caldo in mano e sorseggiando la bevanda.
Ci fu un attimo di silenzio, lo vedevo che voleva chiedermi qualcosa ma non aveva il coraggio.

Era un mio compagno di corso dal primo anno, uno dei pochi maschi a lettere. Probabilmente gli piacevo dall'inizio, ma non si era mai avvicinato e io non avevo colto l'occasione perché, di fatto, non mi interessava avere una relazione. 

"Saresti libera per pranzo?" mi chiese a bruciapelo.
Io lo guardai per qualche secondo, dopotutto non era brutto... certo, non era il ragazzo più attraente del mondo ma non stava male. I capelli neri mi piacevano, anche se a volte si vestiva un po' a caso.

"Mi dispiace, finite le lezioni devo scappare a lavoro" risposi sincera.

"Ah... e domani?".

"Il pranzo è un po' scomodo... ma possiamo fare colazione insieme venerdì, può andare bene?".

Non sapevo che cosa mi fosse preso ma dare un due di picche subito a così tanta gentilezza mi era rimasto difficile.
"Sì, ottimo!" si affrettò a dire, probabilmente incredulo di avere una specie di appuntamento in mano.

Nel mentre arrivarono le mie amiche e in contemporanea il prof.
Seguii le quattro ore di lezioni e mi diressi velocemente dal prof di archivistica per chiedergli di essere il mio relatore, rispose di sì e concordammo l'argomento: avrei corretto e commentato un manoscritto inedito.
Mi diede il materiale per la trascrizione, un malloppo di duecento pagine, con l'accordo di consegnare le prime cento dopo Natale.

Mi diedi una sistemata in bagno e corsi al lavoro.

"E quindi venerdì avresti una colazione con Leonardo" mi fece eco sorniona Giulia, a cena.
"È solo una colazione" risposi, alzando gli occhi al cielo.
"Hai un po' troppi pretendenti tu, mi sa" rincarò la dose Francesca.
"Ma quali pretendenti?" commentai.
"Prima il milionario che ti vuole sposare, adesso la colazione con Leonardo... vuoi abbandonare la nostra tradizione del sabato sera?" fece il broncio Francesca.
"Non me lo nominare" bofonchiai io mangiando l'insalata, "e Leonardo è solo stato gentile, non ho la testa per una relazione, mi devo laureare prima".

★······★······★

Venerdì mattina optai per un paio di jeans chiari e una magliettina bianca a costine da infilare sotto i jeans, mi truccai come al solito e spruzzai il profumo.
"Come siamo carine oggi" mi disse Giulia.
"Sono sempre carina io" sibilai.
"Aia, ci siamo piccate".
Le feci il terzo dito e uscii di casa sentendo le loro risate dietro.

★······★······★

La colazione passò abbastanza velocemente, non ero abituata ad avere appuntamenti, ma fu divertente. Parlammo del più e del meno, soprattutto dell'università. Io non avevo voglia di affrontare altri argomenti e probabilmente lui era troppo timido per lanciarsi da solo.
Camminammo insieme fino alla facoltà e risi davvero un sacco delle battute che faceva sui prof, avrei potuto anche uscirci altre volte, forse.

"Come è andata?" mi si affiancò Francesca.
"Ma mi stavate spiando da dentro?" risposi allibita.
"Forse" ammisero loro.
Alzai gli occhi al cielo. "Molto bene, è stato divertente".
"Divertente?" sottolineò Francesca.
"Divertente" confermai.
"Sotto quale punto di vista?" chiese maliziosa Giulia.
"Giuliaaaa, ma ti pare! Abbiamo parlato dell'università" risposi, fintamente scioccata.
"Ah" reagirono tutte e due deluse.

Finite le lezioni corsi di nuovo al lavoro.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top