Murias
«Row, siamo arrivati».
Qualcuno mi squassò un braccio e, sollevando le palpebre a fatica, misi a fuoco Labhraidh.
«Mi hai sbavato sulla maglietta dei Nirvana» osservò poi con espressione disgustata, pulendosi la spalla con gesti plateali.
Arrossi imbarazzata: «Scusa» borbottai, per poi aggiungere: «Avresti anche potuto spostarmi, eh».
«Nah» ribadì lui, «Eri troppo beata perché ti svegliassi».
Sollevai gli occhi al cielo e lanciai un'occhiata fuori dal finestrino, notando che la carrozza stava procedendo a passo d'uomo su una via illuminata da antichi lampioni in ferro.
Procedette ancora qualche minuto e poi si arrestò con uno scossone, facendomi sbattere la testa contro il legno della parte posteriore della carrozza.
Mentre mi massaggiavo la nuca, imprecando sottovoce, qualcuno spalancò la porta della carrozza: «Bentornato, mio Principe» esclamò un soldato, sporgendosi all'interno e rivolgendo uno sfavillante sorriso a Domhnall.
L'uomo indossava una cotta di maglia leggera e alcune placche di metallo a livello dei pettorali, portava numerose armi legate alla cintura e aveva i biondissimi capelli legati in una lunga treccia e rasati sulle tempie, come volevano le tradizioni vichinghe.
Gli occhi blu ghiaccio dell'uomo diedero una rapida e disinteressata occhiata a Labhraidh, poi si posarono su di me... e si sgranarono come biglie.
«Mia...» balbettò, incredulo, «Mia Signora» mi salutò ossequioso, chinando il ginocchio a terra e portandosi la mano sul cuore.
Rimasi impietrita a fissarlo, domandandomi cosa diavolo gli fosse preso, ma ci pensò Domhnall a togliermi dall'imbarazzo: «Cathair, mi piacerebbe che tu mostrassi a me anche solo la metà della devozione che mostri nei confronti della nostra ospite» scherzò, ghignando in un modo che fece brillare sinistramente i suoi canini.
Il soldato, Cathair, distolse a fatica lo sguardo da me: «Perdonatemi, Principe» borbottò chinando la testa ma, dal modo in cui sbirciò Domhnall da sotto le lunghe ciglia bionde, si capiva che la sua apparente sottomissione fosse parte di un gioco di parti a cui sia lui che il Principe stavano giocando.
«Vi è giunto il mio messaggio?» domandò quindi Domhnall, scendendo con un agile balzo dalla carrozza.
«Sì, Principe. I nobili vi aspettano nella Sala Comune e la cena attende solo voi per essere servita» asserì Cathair, rivolgendo poi l'attenzione a me e porgendomi il braccio.
Mi alzai e posai con delicatezza la mano sul suo braccio, studiando con una smorfia la distanza fra la pedana e il terreno e rendendomi conto che, se avessi saltato, sarei atterrata direttamente in una pozzanghera fangosa.
Il soldato parve fare lo stesso ragionamento, infatti i suoi occhi azzurri incrociarono i miei per qualche istante e lui mormorò: «Permettete, mia Signora?».
«Oh, ehm, certo» balbettai, e Cathair fece scivolare le grosse mani sui miei fianchi e mi depositò al suolo senza sforzo alcuno.
Il freddo vento del nord mi soffiò i capelli lontano dal viso e mi fece venire la pelle d'oca, portando con sé profumo di terra, bosco e pioggia. Il terreno era fangoso e pieno di pozzanghere e tutt'intorno a me si estendeva un ampio prato disboscato avvolto in una leggera nebbiolina, che rendeva il paesaggio fosco e sfocato ai miei occhi curiosi. Era buio, talmente buio che i miei occhi non riuscivano a vedere nulla a più di cinque metri di distanza, e solo il chiarore delle torce della carrozza spezzavano quell'infinita notte nera che pareva soffocare tutto ciò che ci circondava.
Cathair, con le mani ancora strette alla mia vita, esitò a lasciarmi andare e lo percepii inspirare il mio odore, cosa che mi parve estremamente... inopportuna.
Il soldato, però assunse un'espressione meravigliata: «Siete davvero una mezzosangue» osservò stupito, lasciandomi andare ma continuando ad osservarmi con interesse.
«C'è... c'è qualche problema?» borbottai, incrociando le braccia al petto in un atteggiamento difensivo e abbassando lo sguardo a terra.
Domhnall scoppiò a ridere e Cathair si affrettò a dire: «Certo che no, mia Signora, è solo... insolito. Avreste avuto la mia devozione anche se foste stata un'umana».
Rimasi lievemente interdetta e mi domandai quale diavolo fosse il problema di quel soldato.
«Sono confuso» confessò Labhraidh, affiancandomi mentre camminavamo alle spalle di Domhnall, «Crede che tu sia la sposa del Principe?» domandò, aggrottando le sopracciglia.
A quelle parole raggelai e tutto ciò che riuscì ad uscirmi dalle labbra fu un secco: «Spero di no».
«Non so cosa... oh» le parole morirono in gola al mio migliore amico non appena vide ciò che stavo vedendo io.
Nel fitto buio della notte non ero riuscita a distinguerlo prima, ma in quel momento, mentre le torce si accendevano una ad una rischiarando le ombre, lo vidi: un immenso muro di pietra bianca si estendeva di fronte a noi, alto almeno una quarantina di metri e talmente lungo da scomparire nel buio. Alcune torrette svettavano alla sommità, distinguibili dal cielo notturno solo per via degli ampi bracieri che ardevano al loro interno, e soldati in armature che scintillavano alla luce del fuoco facevano la ronda fra i merli di pietra.
«Benvenuti alla fortezza di Murias» esclamò con orgoglio il Principe, e i suoi occhi neri abbracciarono con affetto ogni pietra di quell'insormontabile muro.
Il Principe ci portò quindi di fronte ad un immenso portone di ferro, che in quel momento veniva spalancato per permetterci di entrare all'interno delle mura.
Le porte erano spesse diversi metri e potevano essere bloccate dall'interno da un numero impressionante di enormi chiavistelli e serrature, e una parte molto calcolatrice di me si domandò cosa diavolo ci potesse essere in quelle terre di talmente spaventoso da richiedere una tale protezione.
Quando i portoni si spalancarono, attraversammo il ponticello eretto sopra il fossato della fortezza ed entrammo al suo interno... ed io rimasi a bocca aperta, incantata dalla bellezza del paesaggio che mi trovavo di fronte.
Alte e longilinee casette a graticcio erano disposte ordinatamente ai lati di una ciottolata via centrale che serpeggiava su per una collina, inerpicandosi verso l'alto.
Le case avevano il tetto estremamente spiovente e le colorate facciate presentavano travi in legno a vista; le persiane erano dipinte in colori sgargianti e le porte ad arco conferivano armonia alle costruzioni.
La strada era illuminata da lanterne e lampioni che diffondevano una rassicurante luce calda in ogni anfratto, e mille lucine colorate erano appese ai tetti delle case o sopra gli archi delle porte: pur essendo una città abituata a sopravvivere nelle tenebre, Murias era piena di luce.
«Wow» mormorai, estasiata.
Domhnall non mi diede il tempo di studiare troppo a fondo i particolari della città e si rimise a camminare baldanzoso, con i suoi stivali di cuoio che sciacquettavano nelle pozzanghere che si erano formate fra i ciottoli. L'odore di pioggia era ancora forte nell'aria, insieme ad un dolce sentore di terra e di foresta, e alcune goccioline ancora cadevano dal cielo, rigandomi le guance.
L'ingresso del Principe in città fu accolto calorosamente dagli abitanti: le fate indaffarate nelle loro faccende quotidiane si fermarono per salutare il loro Signore con sincero interesse, alcuni addirittura intavolarono brevi conversazioni con lui circa il suo soggiorno a Findias.
Quando i loro occhi si posavano su di me, però, le chiacchiere e i sorrisi venivano sostituiti da espressioni sbalordite e sussulti sorpresi, e vidi più di una fata posarsi la mano sul cuore come aveva fatto anche Cathair.
Cercai di ignorare tutte quelle indesiderate attenzione e mi concentrai più sulla città: la strada ciottolata si arrampicava in anse sinuose su per una collina, ramificandosi in mille viuzze strette e affollate da bancarelle e carretti di ogni tipo. Murias era caotica e viva, la gente strillava per attirare i clienti e i bambini correvano fra i portici con i volti sporchi di fango.
«Dov'è il vostro palazzo?» domandai a Domhnall correndogli dietro, e lui sollevò la mano e indicò un punto alla sommità della collina. Là, una macchia indistinta di luci brillava nella notte nera, spiccando luminosa contro l'irta parete di una montagna.
Prima di raggiungere il palazzo dovemmo attraversare una seconda cerchia di mura, leggermente meno alta di quella esterna ma altrettanto spessa, e poi ci ritrovammo finalmente nei giardini della città.
Sotto le suole dei miei piedi scricchiolò una ghiaia bioluminescente, che illuminava debolmente la strada per raggiungere la fortezza facendola apparire come una sorta di sentiero magico verso il paradiso. Tutt'intorno, fiori notturni brillavano nell'oscurità della notte: riconobbi cespugli di Bella di Notte, dai petali fluorescenti; tappeti di Fiori della Luna, campanelle dalle ampie e profumate corolle bianche e odorosi gelsomini notturni, dai minuscoli fiori bianco-verdognoli.
L'elemento più straordinario di tutto il giardino, però, erano le lucciole. Centinaia, migliaia di lucciole volteggiavano luminose nel cielo notturno, passando di fiore in fiore, posandosi sulle foglie degli alberi e nascondendosi fra i rami in una danza senza fine.
Tutto in quel luogo appariva magico, ma comunque non fui preparata per ciò che accadde non appena la voce di Domhnall si disperse nel giardino.
«Sono a casa» mormorò mellifluo il Principe, e le fatine uscirono dai loro nascondigli.
«Le vedi anche tu?» mi sussurrò Labhraidh, con la meraviglia negli occhi.
«Eccome se le vedo» asserii, non riuscendo a distogliere lo sguardo dallo spettacolo che si stava svolgendo di fronte ai miei occhi: una decina di fatine aveva iniziato a volteggiare attorno al Principe, sbattendo le ali con melodiosi trilli e spargendo polvere dorata tutt'intorno. La polvere dorata si mischiò alle gocce di pioggia nell'erba, sulle foglie e sui fiori, e il mondo luccicò d'oro.
«Siamo nel mondo delle fiabe?» rincarò Labhraidh, ed io non seppi cosa rispondergli.
«Forza, andiamo» esclamò dopo qualche secondo Domhnall e, in men che non si dica, le fatine si dileguarono nel buio.
Attraversammo quindi i giardini e, man mano che ci avvicinavamo alla fortezza, il mio cuore batteva via via più prepotentemente nel petto: per quanto i giardini fossero meravigliosi, il palazzo appariva... spietato, crudele, come se avesse vita propria.
La fortezza era incassata nella montagna, con speroni di roccia che offrivano una naturale protezione a diversi lati del castello, e un centinaio di bianche torrette si innalzava verso il cielo somigliando in modo inquietante ad aguzzi canini di una bocca scavata nella pietra. Scale e ponti di pietra univano le torrette fra di loro, creando un intricato gioco di stretti passaggi; inoltre, l'intera fortezza era illuminata dall'interno e luci bianche, gialle e aranciate riverberavano dalle ampie vetrate ai piani superiori, come occhi intenti a scrutarci dall'alto.
Rabbrividii nella camicetta che indossavo, e non a causa del vento freddo che soffiava dalla cima della montagna, coperta di nuvole.
«Benvenuti a... casa» mormorò Domhnall, facendo un cenno alle due guardie che sostavano ai lati del massiccio portone d'ingresso, ordinando loro di aprirlo per noi.
L'acciaio sibilò contro la pietra del pavimento e davanti ai nostri occhi si aprì un'ampia anticamera semicircolare, illuminata da decine di torce agganciate ai sostegni in ferro e abbellita da immensi arazzi che occupavano intere pareti.
Diversi corridoi dipartivano dall'anticamera al pian terreno, inabissandosi nelle profondità della fortezza, ma il Principe non ne imboccò nessuno: si diresse invece verso una delle due scale in pietra che abbracciavano l'anticamera, congiungendosi al piano superiore, a livello di una balconata interna, e poi salendo su, sempre più su, verso i livelli più alti della fortezza.
Salimmo al primo piano e, sbirciando in basso dalla balconata, notai come le pietre che componevano il pavimento dell'anticamera fossero disposte in modo tale da creare un triscele – nientemeno che il simbolo di Dagda – le cui tre spirali parevano risplendere di un luminescente bianco alla luce delle torce.
Il Principe camminò a passo deciso lungo il breve corridoio e, senza tante cerimonie, spalancò il portone di legno oltre il quale – mi resi conto – stava provenendo un gran baccano.
Per una manciata di secondi vi fu silenzio, poi urla di giubilo squassarono le pareti della sala da pranzo del castello. Tutte le fate presenti sollevarono il boccale e inneggiarono al proprio Principe, mentre io e Labhraidh ci guardavamo intorno spauriti.
La sala da pranzo era immensa, e occupava un intero piano della fortezza di Murias, come se il Principe fosse abituato a ricevere spesso molta gente per l'ora dei pasti. Sei lunghe tavolate occupavano la sala e le fate che vi sedevano ci osservarono entrare al seguito del Principe Domhnall in religioso silenzio. I miei occhi corsero su di loro e registrai la presenza di Leiprechaun, piccoli e tarchiati; Moruadh, dai lunghi capelli sgargianti; Dukko, e altre specie che non avevo mai visto. La maggior parte dei presenti, però, era Daoine Sidhe: bellissime fate alte e longilinee dall'aspetto umanoide, che parevano costituire la maggioranza della popolazione cittadina sia a Murias che a Falias.
Anche in questo caso, più di un commensale si mise la mano sul cuore e bisbigli sussurrati mi seguirono come moleste zanzare in una calda serata d'estate.
«Saraid» udii svariate fate mormorare, insieme a: «La portatrice del Calderone!» e anche: «La regina dei morti!».
Solo in quel momento mi resi conto che, secoli prima, la gente di Murias aveva già visto una faccia identica alla mia... e che quella faccia apparteneva a Saraid, la figlia naturale del dio Dagda e amante del Generale Lúg.
Saraid, regina dei morti, in grado di evocare legioni di morti per sbaragliare i nemici in battaglia e in grado di resuscitare i defunti... anche se questo ultimo particolare era sconosciuto ai più.
«Le vostre facce amiche mi riempiono il cuore di gioia» esordì Domhnall, cercando di abbracciare l'intera stanza con lo sguardo, «Torno da Findias con ottime notizie: l'erede di Dagda cammina di nuovo nelle terre del Nord!».
Il Principe mi afferrò per un braccio e, mostrandomi agli occhi dei suoi sudditi, mi incitò: «Il Calderone!».
Con mani tremanti infilai la mano oltre il colletto della camicetta che indossavo e ne estrassi la catenella dalla quale penzolava inerte l'anello di Dagda: gli occhi di tutti parvero essere calamitati da quel minuscolo ninnolo e un brivido mi fece vibrare la pelle nel punto il cui lo toccavo.
«Saraid, mia Signora! Ci avevano detto che eravate morta!» una fata si gettò ai miei piedi, osservandomi con l'adorazione che brillava nei suoi occhi viola ametista, «Se avessimo saputo... se avessimo saputo che eravate ancora viva avremmo raso il suolo il mondo degli umani per riavervi con noi».
Rabbrividii orripilata e balbettai: «Io non... non sono Saraid».
La mia voce fu flebile e tremante ma, siccome tutti mi prestarono la massima attenzione mentre parlai, tutti compresero le mie parole: il silenzio calò di nuovo sulla sala e l'atmosfera cambiò, facendosi confusa e sospettosa.
La fata inginocchiata ai miei piedi mi fissò il viso e, una volta inspirato il mio odore, vidi la comprensione farsi largo sul suo viso: «Mezzosangue» declamò, con la confusione che si dipinse sui suoi lineamenti.
«Rowan O'Brien è la nuova portatrice del Calderone. Nelle sue vene scorre il sangue di Saraid, il sangue di Dagda. La mezzosangue è qui per diventare nostra cittadina, per giurare fedeltà eterna alla nostra sacra città e riportare l'antico splendore del divino fra le nostre mura!» tuonò Domhnall con voce roboante, infervorato come mai lo avevo visto e con una luce battagliera negli occhi.
«Io vi accetto, mia Signora» mormorò la fata davanti a me, prendendomi con delicatezza la mano e baciandomene il dorso.
Un brusio si levò a quelle parole e, come un mantra o una preghiera, il centinaio di fate presenti ripeté le parole dell'uomo ed io mi sentii soffocare: quelle persone – quelle fate – parevano davvero riporre grandi speranze in me. Non sapevano che ero un'impostora, che non avrei mai potuto eguagliare lo splendore della defunta Saraid, che il suo imponente esercito di morti non avrebbe mai più difeso le mura della città. Il peso del calderone mi schiacciò come un macigno, ma deglutii il nodo che mi aveva stretto la gola e cercai di sorridere.
Labhraidh mi strinse la mano in una stretta confortante e, mentre una musica celtica di cornamuse e liuti iniziava a riversarsi nell'immenso salone, mi condusse al tavolo d'onore, centrale e rotondo, al quale si stava accomodando Domhnall.
Il Principe ci presentò ai suoi sette consiglieri, ma io ne scordai immediatamente nome e lignaggio, presa com'ero dal mantenere un'espressione neutrale e impedire al mio corpo di lasciar trasparire ogni sentore dell'intensa paura che mi stringeva lo stomaco. L'unica cosa di cui mi resi conto, e su cui focalizzai l'attenzione, fu la presenza di lunghi canini nelle bocche dei consiglieri: cinque non li avevano, ma due sì: questi erano un uomo e una donna, lui rosso di capelli e con l'espressione cupa, lei dai riccioli neri e con un sorriso dolce sulle labbra.
Distolsi immediatamente lo sguardo dai due, giusto in tempo per vedere i camerieri entrare nel salone portando immensi vassoi di pietanze.
Un profumo di carne arrosto e spezie – ginepro e pepe nero – mi stuzzicò le narici, facendomi brontolare lo stomaco.
Fu servito coniglio arrosto su un letto di lattuga e quelle che sembravano rape viola, poi ancora ricotta e miele, noci e pane nero, bacon croccante e splendide uova di quaglia.
Mi servii solo dopo che lo ebbe fatto Domhnall e quasi gemetti quando la carne del coniglio mi si sciolse in bocca.
«Ragazzo?» chiamò il consigliere di Domnhall, richiamando l'attenzione di uno dei tanti camerieri che giravano per la sala con vassoi, piatti e bicchieri.
Un giovinotto umano sulla ventina si avvicinò con passo svelto e si chinò sul consigliere, pronto a soddisfare le richieste della fata. Il consigliere sorrise e i canini scintillarono alla luce delle torce, affondando poi nella giugulare del ragazzo.
Emisi un gridolino di orrore e le posate mi caddero nel piatto.
Sentii gli occhi di tutti addosso, ma io non distolsi l'attenzione dal punto in cui i denti ancora affondavano nel collo del cameriere. Vidi la pelle diafana e cosparsa di efelidi del consigliere prendere colore, e l'odore del sangue mi colpì come uno schiaffo in pieno viso.
La fata si staccò dall'umano e si pulì le labbra insanguinate nel candido tovagliolo, mentre i miei occhi seguivano il modo in cui egli si leccava attentamente una goccia vermiglia dal dito.
Avrei dovuto abituarmi alle usanze di quel mondo, e avrei dovuto farlo in fretta per non incappare in spiacevoli inconvenienti. Avrei dovuto abituarmi al fatto che per le fate nobili bere sangue umano era normale, avrei dovuto ignorare quell'atto e distogliere lo sguardo... eppure, alla vista del sangue vermiglio del cameriere, ricordai quanto io stessa mi fossi avvinghiata al braccio di Donegal bramando la sua linfa vitale, desiderandone di più, sempre di più, ricordai la sua energia fluire in me e riscaldare ogni cellula del mio corpo di una meravigliosa luce dorata... e rabbrividii.
«Vuoi favorire?» la profonda voce del consigliere mi riscosse dai ricordi e, sbattendo le palpebre un paio di volte, trovai i suoi caldi occhi castani intenti a studiarmi.
«Scusi?» balbettai, arrossendo.
«Vuoi favorire? Sembri interessata» ripeté, studiandomi con la testa inclinata su un lato.
Raggelai: «Oh, no, ehm... grazie. Noi... noi non beviamo sangue» balbettai, distogliendo lo sguardo dalle labbra del consigliere e tornando a fissare il mio piatto.
«Solitamente nemmeno i nostri mezzosangue lo fanno» concordò lui, allontanando il cameriere con un annoiato cenno della mano.
Rigirai i bocconcini di agnello che avevo nel piatto e compresi che quella sera non avrei più toccato cibo. Addirittura, rischiai di rimettere tutto ciò che avevo già ingerito quando il secondo consigliere zannuto, la donna, richiamò un altro cameriere: lei non si limitò ad affondargli i denti nel collo, no, lei lo usò come una vera e propria bottiglia di vino. Gli aprì una vena sul polso e fece sgocciolare il sangue in un bicchiere, che passò di mano in mano alle altre fate sedute al tavolo, finché tutti ne ebbero un po'; poi anche lei allontanò l'umano con la sessa noncuranza con la quale si scaccia una mosca fastidiosa.
Labhraidh mi strinse la mano sotto il tavolo e io deglutii a vuoto, distogliendo a fatica gli occhi dal liquido rosso.
Il consigliere dai capelli rossi cercò di intavolare una conversazione con me ma, in seguito ad un paio di mie risposte monosillabiche e spicce, il Principe Domhnall corse in mio aiuto: «Stiofan, non tediare la nostra ospite. Ha fatto un viaggio lungo e movimentato, merita un po' di riposo. Domani le potrai fare tutte le domande che vorrai».
Un grugnito d'assenso fu tutto ciò che ottenne in risposta dal consigliere, ed io e Labhraidh fummo lasciati in pace.
Quando infine la cena si trasformò in una festa sregolata – con tanto di danze sfrenate, sottane sollevate e scazzottate fra fate ubriache – Domhnall ci fece scortare da un domestico alle nostre camere, sostenendo che la sala da pranzo non fosse il posto più sicuro per due mezzosangue.
La mia camera e quella di Labhraidh erano una di fronte all'altra, entrambe enormi e dotate di un ampio letto a baldacchino infiocchettato di fronzoli e veli. Mi infilai la camicia da notte che avevo trovato perfettamente piegata sul copriletto e raggiunsi il mio migliore amico.
«Devo imparare questa maledetta lingua» borbottò lui, «L'unica cosa che ho capito in tutta la cena è stato il nome di Saraid».
Labhraidh si tolse la maglietta dei Nirvana e, fissando il suo riflesso nello specchio, sfiorò l'impronta nera della mia mano sul suo petto: «Non ne dobbiamo fare parola con nessuno, Rowan» sussurrò, incrociando i miei occhi nello specchio.
«Lo so» asserii, «Mi domando solo come reagiranno quando scopriranno che sono inutile».
«Non sei inutile» ribatté Labhraidh, ma io spiegai: «Saraid poteva intrappolare i suoi nemici nell'anello ed evocare un esercito di morti... io non so fare nulla di tutto ciò. Ai loro occhi sembrerò un'inutile soprammobile».
«Forse ti insegneranno loro come fare queste cose. Forse, invece, non gli interessano i tuoi doni e volevano solo riavere l'anello... non lo sappiamo ancora, ma staremo a vedere» cercò di consolarmi lui.
Sbuffai e mi gettai sul materasso del suo letto, affondando fra le piume. Quando Labhraidh mi raggiunse, iniziai a insegnargli alcune parole basilari nell'Antica Lingua delle fate e in meno di dieci minuti mi ritrovai a ridere a crepapelle a causa delle evidenti difficoltà che il mio migliore aveva nel produrre il suono cantilenato di quella musicale lingua.
Mi addormentai nel suo letto, con una risata che ancora mi incurvava le labbra.
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