(19)
Cora socchiuse a fatica gli occhi; venne investita da una luce accecante, attorno a lei c’erano strani rumori che non riusciva ad identificare, in bocca sentiva un gusto sgradevole e la testa faceva così male che sembrava essere sul punto di esplodere.
La giovane richiuse le palpebre con un gemito e scivolò subito, e di nuovo, nell’incoscienza; si risvegliò solamente diverse ore più tardi, quand’era giorno, e questa volta spalancò subito gli occhi. Nella mente aveva un unico pensiero, che continuava a ripetersi all’infinito. Rich.
“Rich?” provò a dire ad alta voce, ma aveva la bocca così impastata e la gola così secca che dalle labbra non le uscì altro che un rantolo indistinto e sentì ancora uno strano gusto sgradevole; provò a mandare giù della saliva e si guardò attorno, dopo aver sbattuto le palpebre, muovendo solo il collo perché era così debole da non riuscire a tirarsi su col busto. Le forme confuse attorno a lei presero piano piano una forma sempre più reale e definita, fino a trasformarsi nella stanza di un ospedale. Bianca, spoglia, che puzzava di prodotti sterilizzanti; il rumore di sottofondo di alcuni macchinari non aiutava affatto a migliorare la situazione.
Girando il viso verso sinistra, Cora vide una finestra. Al di là del vetro era chiaro, e ciò significava che era giorno; ma al di là di quello non sapeva che giorno fosse, da quando tempo si trovava lì dentro e soprattutto come ci era finita nella stanza di un ospedale. Non aveva alcun ricordo in merito, e se provava sforzarsi, la sua mente non andava oltre al litigio con Rich in appartamento.
“Rich?” la ragazza provò a chiamare di nuovo per nome il suo coinquilino e girò la testa dall’altra parte. Si aspettava di vederlo seduto, magari addormentato, certa che fosse stato lui a portarla lì e che le avrebbe raccontato tutto quello che era successo, riempiendo i buchi vuoti che aveva nella memoria, ma l’unica sedia presente nella stanza era vuota. Non c’era nessuno lì dentro con lei. Ma Cora non voleva scendere subito a conclusioni affrettate, e pensò che il giovane fosse uscito per qualche istante per prendere qualcosa da bere o da mangiare, e che a breve sarebbe rientrato.
Difatti, poco dopo la porta della stanza venne aperta.
“Rich?”.
Non era Rich quello che aveva aperto la porta, ma bensì un’infermiera che rivolse a Cora uno sguardo profondamente sorpreso.
“Ohh, tesoro, ti sei svegliata. Nessuno di noi si aspettava che sarebbe accaduto così presto” disse la donna, avvicinandosi al letto, e per tutta risposta Cora le rivolse un’occhiata confusa “come stai?”
“Io… Io non lo so…” mormorò la ragazza, sempre più confusa “non so nemmeno perché sono qui”
“Non ricordi niente?”
“No… No, niente di niente. Siamo in un ospedale, vero? Da quanto tempo sono qui?”
“Stai tranquilla, con quello che è successo è normale che non ricordi nulla. La memoria ti ritornerà poco alla volta. Più tardi passerà chi di dovere a raccontarti tutto quanto, adesso pensa solo a riposare e non fare alcuno sforzo” disse l’infermiera, e la ragazza distorse la bocca in una smorfia. Non aveva alcuna intenzione di restare lì e di riposare, era certa di avere riposato fin troppo, ma non aveva alcuna scelta perché non riusciva quasi a muovere un muscolo. Anche il semplice movimento di girare la testa costava uno sforzo enorme. Pensò di essere stata investita da una vettura, ma non sentiva alcun dolore e non aveva nessuna fasciatura lungo il corpo “te la senti di mangiare qualcosa?”
“No, non me la sento. Penso che se provassi a mettere nello stomaco qualcosa, finirei per vomitarlo subito. Ho la nausea”
“Anche questo è normale e passerà graduatamente. Posso fare qualcosa per te?”
“No, voglio essere lasciata da sola”
mormorò Cora, salvo poi ripensarci quando la donna stava per uscire dalla stanza “aspetti un momento! In effetti c’è una cosa che può fare per me, se non è troppo un disturbo. Potrebbe cercare Rich e dirgli di tornare qui?”
“Rich?” chiese l’altra con un’espressione perplessa “chi è Rich, tesoro?”
“È… Lui è… Il mio amico e coinquilino. Deve averlo visto per forza se è già entrata qui mentre ero incosciente, perché sarà stato qui per tutto il tempo. Credo che si sia assentato un momento per andare a prendere qualcosa da bere o da mangiate. Lui… Lo riconosce subito se lo vede, è impossibile confondersi. È alto e magro, veste completamente di nero ed è latino come me… Per caso lo ha visto in un corridoio?”
“Ohh, tesoro!” esclamò l’infermiera con un’espressione infranta, dopo aver ascoltato le parole della ragazza “mi dispiace tantissimo, ma qui dentro non c’è mai stato un ragazzo che corrisponda a questa descrizione”.
Cora riuscì a tirarsi su col busto nel primo pomeriggio, dopo aver recuperato un po’ di forze sforzandosi di mangiare qualcosa dal vassoio col pranzo che un’altra infermiera le aveva portato senza dire una sola parola; sistemò il cuscino contro il muro in verticale e vi appoggiò la schiena. Allungò la mano destra verso il comodino, prese in mano il telecomando ed accese, con curiosità, la tv. Per tutto il tempo della sua convivenza con Rich non aveva mai guardato la tv perché nell’appartamento mancava.
Lo schermo si accese su un canale che stava per trasmettere un’edizione di un telegiornale, ma la ragazza non ebbe nemmeno il tempo di ascoltare i titoli delle notizie principali perché la porta della stanza si aprì di nuovo e questa volta entrò una dottoressa. Così come l’aveva accesa, spense immediatamente la tv e posò il telecomando nel punto esatto in cui l’aveva trovato.
Guardò la donna che era appena entrata e si ritrovò a provare una punta d’invidia nei suoi confronti: era giovane, bella, aveva una carriera che di sicuro le faceva guadagnare soldi ed altrettanto sicuramente aveva una bella casa con una bella famiglia pronta ad aspettarla ogni sera; lei invece non aveva nulla: né un futuro certo, né un tetto sopra la testa e quasi sicuramente aveva perso anche Rich. Non riusciva ancora a ricordare cos’era successo dopo la sua fuga, ma in compenso ricordava molto bene il litigio ed il barattolo dello zucchero che gli aveva rotto in testa ed i soldi che aveva portato via con sé.
Di certo lui non era così ansioso di vederla, e lei di rimando non trovava il senso di tornare da una persona che l’aveva presa in giro per tutto il tempo e l’aveva tenuta affianco a sé come piano di riserva. Però faceva male, voleva vederlo e voleva vederlo aprire quella maledetta porta. Se fosse entrato in camera in quello stesso momento, al di là di tutto quanto si sarebbe sentita subito meglio e più tranquilla.
La giovane dottoressa aveva con sé una cartella che sfogliò e richiuse prima di rivolgere un sorriso gentile a Cora; quest’ultima ricambiò con un sorriso molto meno accennato, poco abituata com’era ad essere trattata con gentilezza da qualcuno.
“Come ti chiami?”
“Cora” mormorò la giovane dopo un attimo di esitazione, perplessa perché non si aspettava di ricevere una domanda del genere.
“Cora” ripetè la donna annuendo, guardandola intensamente negli occhi. Cora si chiese subito il perché di quello sguardo così intenso “non sai che sollievo che è stato quando mi hanno detto che hai riaperto gli occhi. Abbiamo tanto sperato che accadesse. Come ti senti?”
“Bene, credo” mormorò ancora lei, diffidente “ma non ho alcuna voglia di parlare. Vorrei che mi dicesse subito tutto quanto. Questa mattina un’infermiera mi ha detto che più tardi qualcuno di dovere mi avrebbe detto cosa mi è successo, e non ho ancora ricevuto nessuna risposta. Può dirmi lei che cosa è successo? Perché sono qui? Da quanto tempo sono qui?”
“Sono qui proprio per questo, Cora. Ma a volte, in casi come questo, è meglio andare con calma per non destabilizzare troppo una persona. Che cosa pensi che sia successo? Ricordi qualcosa?”
“No” rispose la giovane scuotendo la chioma nera ad occhi sgranati, iniziando a preoccuparsi seriamente “non ho nessun ricordo. Ci ho provato, ma niente. La nebbia assoluta. Che cosa mi è successo? Sono… Sono stata aggredita? Sono stata investita da una macchina? Quanto… Quanto è grave la situazione?”
“Ora non lo è più, ma nei giorni scorsi sei stata in pericolo di vita”
“In pericolo di vita?” chiese Cora con voce strozzata “sta dicendo che ho rischiato di morire?”.
La dottoressa annuì con la testa e la giovane socchiuse le labbra. Sentì il sangue scorrere via dal viso.
“Ci sei andata molto più vicina di quello che puoi immaginare, Cora. Il tuo cuore ha smesso di battere per ben due volte, ed abbiamo dovuto rianimarti. Ti abbiamo preso per le punte dei capelli”
“Il mio cuore… Ha smesso di battere per due volte?” mormorò la ragazza con un filo di voce, ripensando subito al giorno in cui Rich aveva ironizzato su tutte le volte in cui aveva già sfiorato la morte con le dita e su quanto sembrava che si divertisse a farlo “e come… Come è successo?”
“Ti hanno trovata nel bagno di una stazione dei bus. Incosciente. Quasi senza battito” spiegò la dottoressa prima di andare, finalmente, dritta al punto della questione, a quello che Cora stava aspettando di sentirsi dire da quando aveva riaperto gli occhi e si era ritrovata nella stanza di un ospedale “eri in overdose da cocaina”.
La giovane spalancò di nuovo gli occhi scuri. Tutti i ricordi le tornarono in mente all’improvviso. Adesso ricordava perfettamente cos’era successo dopo aver abbandonato una volta per tutte l’appartamento che divideva con Rich: rivide sé stessa correre per le strade fino a quando aveva avuto fiato in corpo, per poi nascondersi e sfogarsi all’interno di un vicolo cieco. Poi si era rialzata per cercare una nuova sistemazione per la notte ed i suoi piedi l’avevano portata in automatico al parco vicino alla stazione dei bus per acquistare una dose di cocaina. Il tipo che di solito vendeva la roba a lei e Rich ci aveva provato e lo aveva ripagato a calci e pugni, per poi rubargli lo zainetto che aveva con sé. Con quel bottino si era riparata in uno dei bagni delle donne della stazione con l’intenzione di spararsi una dose in vena per dimenticare la delusione per Rich, ed alla fine aveva deciso di optare per una doppia dose.
Ricordava di avere premuto lo stantuffo della siringa, di avere visto il liquido biancastro sparire sottopelle e poi più niente. A quel punto sopraggiungeva il buio più assoluto fino al risveglio.
No, non era del tutto esatto.
Ricordava di aver sognato ricordi del passato. Lei insieme ad un ragazzo. Ma era tutto così confuso, e con quello che la dottoressa le aveva rivelato si sentiva ancora più confusa.
“So che cosa sta pensando. Anche se non lo dice ad alta voce glielo leggo comunque negli occhi. Io non… Non sono una drogata e non ho tentato in alcun modo di farla finita. È stato solo un incidente, la colpa è mia perché sono terribilmente stupida, me lo ripetono in continuazione. Avevo bisogno di dimenticare ed ho pensato che una doppia dose fosse quello che ci voleva”
“Quando le tue condizioni si sono stabilizzate e non sei stata più in pericolo di vita, abbiamo fatto tutte le analisi necessarie. Quella non era la prima volta che assumevi cocaina”
“No”
“Da quanto tempo l’assumi?”
“Un paio di mesi, ma non sono una drogata. Non ne faccio uso tutti i giorni, ma ci sono momenti in cui… In cui il bisogno di staccare la spina è così forte che se non lo assecondi ti sembra di uscire di testa, di impazzire completamente… Lei… Lei capisce quello che le sto dicendo?”
“Sì, lo capisco” rispose la donna, annuendo con comprensione “oltre le analisi abbiamo fatto anche tutti i test necessari per accertarci di quali fossero le tue condizioni fisiche. Cora, la domanda che sto per farti non è né semplice né facile, ma purtroppo sono costretta: hai subìto violenze sessuali di recente?”
“Cosa?” chiese confusa la ragazza.
“Il test per lo stupro è risultato positivo, Cora”.
Cora si strinse nelle spalle. Lei e Rich avevano consumato un rapporto sessuale lo stesso giorno in cui le loro strade si erano divise in modo definitivo, ma non aveva alcuna intenzione di parlare di quello. Anche se era arrabbiata, delusa e distrutta, non voleva che pagasse le conseguenze di una risposta che poteva essere travisata.
“I soldi non crescono sugli alberi” disse infine, alludendo in modo indiretto alla libera professione che si era scelta da quando era scappata di casa; la dottoressa non le chiese nessuna spiegazione a riguardo, ma dal suo sguardo capì che aveva perfettamente compreso a che cosa si stava riferendo.
“Hai un posto dove andare quando verrai dimessa da qui, Cora?”
“Mi fa male la testa, voglio riposare. Possiamo continuare questa conversazione in un altro momento?” chiese la giovane con un sospiro, portandosi la mano destra alla corrispettiva tempia e distorcendo la bocca in una smorfia di dolore.
“Naturalmente”.
Cora non incontrò nessun ostacolo od insistenza da parte della giovane dottoressa, che se ne andò subito dalla stanza con la promessa, però, di ritornare in un momento più opportuno per continuare il discorso; una volta rimasta sola, dopo aver ascoltato con attenzione i passi allontanarsi, la ragazza diede un calcio alle coperte, strappò dalla pelle l’ago della flebo che le avevano messo, senza preoccuparsi del rivolo di sangue che uscì dal polso destro, e si alzò di scatto. Sapeva cosa stava per accadere dal momento che era in ospedale senza Rich a coprirle le spalle. Sapeva che le domande della dottoressa erano state troppo mirate per non nascondere qualcosa, e c’era stato anche lo sguardo che le aveva lanciato dopo averle chiesto qual’era il suo nome. Non aveva alcuna intenzione di tornare indietro dai suoi genitori, piuttosto era pronta a spararsi volontariamente in vena una dose letale di cocaina, e si cambiò in fretta con l’intenzione di scappare dall’ospedale come aveva già fatto tre anni prima e di far perdere di nuovo le proprie tracce.
L’unico problema era che per essere sicura di far perdere le proprie tracce doveva allontanarsi il più possibile dalla città, ed allontanarsi il più possibile dalla città equivaleva a fare lo stesso anche con Rich. Ma non aveva alcuna intenzione di essere rispedita all’inferno da cui era scappata. Se fosse accaduto, non sarebbe riuscita ad uscirne viva per la seconda volta.
Cora spalancò la porta della stanza ed iniziò a correre, correre, correre senza neppure guardare dove stava andando; tutto ciò che le importava era di riuscire a trovare una porta che dava all’esterno e di mettere più distanza possibile tra lei e l’ospedale in cui si trovava. Quello di cui non si rendeva conto era la debolezza fisica che aveva ancora addosso dopo aver passato un’overdose da cocaina e due arresti cardiaci, ed era già stato un enorme sforzo riuscire a tirarsi su col busto a letto; riuscì a percorrere solo che pochi metri prima di ritrovarsi con il fiato corto, le gambe pesanti e la vista appannata, e riuscì appena ad appoggiarsi al muro alla sua destra prima di scivolare a terra e perdere conoscenza. Almeno in quel modo era riuscita ad attutire la caduta.
Quando riaprì gli occhi, era di nuovo nella stanza in cui si era svegliata la prima volta, aveva di nuovo l’ago di una flebo conficcato nel polso destro ed era di nuovo in compagnia della dottoressa che le aveva illustrato il suo quadro clinico. Le lanciò uno sguardo di puro odio, certa ormai che il suo intento fosse quello di riconsegnarla nelle mani dei suoi aguzzini.
“Sei ancora troppo debole per andartene, Cora, ti consiglio di non fare un altro tentativo. Non te ne rendi ancora conto, ma il tuo corpo avrà bisogno di un bel po’ di tempo per ritornare in forma con quello che ha passato solo negli ultimi giorni”
“Sto benissimo, voglio andarmene”
“Hai perso conoscenza mentre cercavi di scappare, non stai bene. Hai bisogno di cure… Sia fisiche che mentali. Hai bisogno di parlare con qualcuno che possa aiutarti”
“Io non ho bisogno di niente del genere, forse al massimo di riposarmi ancora un po’. Voglio restare sola… E questa volta non scappo. Non provi nemmeno ad insistere con le domande, tanto non risponderò a nessuna. Né ora né nei prossimi giorni”
“Come preferisci, io non voglio costringerti ora. E non potresti comunque uscire, perché abbiamo messo una persona a controllare fuori dalla porta”.
Cora spalancò gli occhi scuri. Merda, era fottura. Per colpa della propria impulsività e stupidaggine aveva sprecato l’unica possibilità di scappare ed ora era bloccata lì dentro, sorvegliata a vista, come in un carcere di massima sicurezza. E non l’avrebbero fatta uscire fino all’arrivo dei suoi genitori; ed anche se non aveva fornito il proprio cognome, sarebbero comunque riusciti ad identificarla in breve tempo.
Ripensò a tutte le numerose volte in cui Rich le aveva ripetuto quant’era stupida e sciocca. Quanto aveva sempre avuto ragione; quello che era appena successo ne era la conferma. E questa volta, per la prima volta, lui non sarebbe arrivato al momento giusto per sistemare la situazione.
“Mi scusi” la ragazza richiamò di getto l’attenzione della dottoressa, e quest’ultima si voltò, sicura che avesse cambiato idea riguardo al silenzio in cui voleva rinchiudersi. Cora strinse un lembo del lenzuolo nella mano destra; immaginava già quale sarebbe stata la risposta a ciò che stava per chiedere, ma doveva comunque provare un’altra volta “prima ho chiesto ad un’infermiera se qui dentro ha mai visto un ragazzo. Si… Si tratta di un mio amico. Si chiama Rich e… Ed è altro e magro, e veste sempre di nero. È facile riconoscerlo. Mi ha detto che non ha mai visto nessuno di simile qui dentro, ma mi stavo chiedendo se forse non si sia sbagliata. Lei lo ha mai visto? Ricorda di avere mai visto un ragazzo che corrisponde a questa descrizione?”
“Mi dispiace, no. Mai”
“Ne è proprio sicura?” insistette Cora “magari ha chiesto informazioni al pronto soccorso, ma non lo hanno fatto passare. Non… Non è possibile chiedere, così da sciogliere ogni dubbio?”
“Mi dispiace, Cora” ripeté una seconda volta la dottoressa “ma da quando sei stata portata d’urgenza qui, nessuno è mai venuto a chiedere nulla su di te. Tantomeno un ragazzo di nome Rich”
“D’accordo” mormorò lei, deglutendo “la ringrazio comunque”
“Mi dispiace” ripeté una terza volta la donna, prima di chiudere la porta della stanza.
Una volta rimasta sola non aveva più alcun senso trattenersi.
Cora avvolse le braccia attorno alle ginocchia, che strinse contro il petto. Vi posò sopra la fronte e scoppiò in un pianto disperato. Adesso non aveva più alcun dubbio che la strada sua e quella di Rich si erano divise per sempre, in modo definitivo, e che non si sarebbero rivisti mai più.
Cora pensava che non potesse esistere nulla di peggio al mondo dell’essere trattenuta contro la propria volontà in un ospedale e della consapevolezza che tra lei e Rich, qualunque fosse stato il loro rapporto, era tutto definitivamente finito, ma si sbagliava; scoprì che la sua vita poteva andare ancora di male in peggio due giorni dopo il suo risveglio, quando la dottoressa con cui aveva parlato, e che si stava occupando di lei, entrò nella stanza per comunicarle che c’era qualcuno che era venuto a farle visita.
Negli occhi della giovane si accese subito uno sguardo carico di speranza, che però si spense altrettanto in fretta quando al posto del suo ormai ex coinquilino vide entrare un uomo sconosciuto; irrigidì i muscoli della schiena e si strinse contro la tastiera del lettino. I tre anni in strada l’avevano temprata, ed anche se lui non indossava alcuna divisa capì subito che si trattava di un poliziotto. Lo guardò con occhi colmi di terrore mentre si accomodava sulla sedia per i visitatori.
“Io non torno indietro, no” prese a dire, scuotendo la testa, prima che l’uomo avesse il tempo di aprire bocca per presentarsi o per dire altro “no, ascolti, so benissimo che cosa è venuto a fare qui, ma io non ci torno indietro da loro. No. Non mi costringa, la prego. E non creda a quello che le hanno detto”
“Può lasciarci soli?” domandò l’uomo, rivolgendosi alla dottoressa che era ancora vicina alla porta aperta; lei, mentre Cora le rivolgeva uno sguardo poco amichevole, annuì e se ne andò richiudendo la porta “calmati adesso, non c’è motivo per cui devi agitarti. Sono qui solo per parlare… Qual è il tuo nome?”
“Mi chiamo Cora” rispose la giovane perplessa “Cora Cruz”
“Cora, io sono il detective Andrew Brown” si presentò a sua volta lui “e sono anni che sto seguendo il tuo caso”.
Cora spalancò gli occhi e deglutì. Sentiva di essere prossima alla fine della partita e di avere perso. Immaginava che i suoi genitori (suo padre) la stessero cercando, ma non al punto da rivolgersi alla polizia stessa.
“Posso immaginarlo. Mi sta cercando da quando sono scappata da un ospedale tre anni fa, vero?”
“No, Cora. In realtà ti sto cercando da molto più tempo”
“Che cosa?” mormorò la giovane dopo essere rimasta in silenzio, corrucciando le sopracciglia “che cosa significa quello che ha appena detto? In che senso mi sta cercando da molto più tempo?”
“Che cosa sai della tua famiglia?”
“Che significa che cosa so della mia famiglia?” ripeté la ragazza sempre più confusa dalle domande del detective “so… So che mio padre è un reduce della guerra, e mia madre… Lei… Non l’ho mai vista lavorare. Noi… Siamo costretti a trasferirci in continuazione perché per mio padre non è semplice trovare un lavoro e gli affitti sono alti… Ma… Ma io non capisco… Che cosa… Perché mi ha fatto questa domanda?”
“Sono questi i tuoi genitori?” l’uomo anziché rispondere aprì la cartellina che aveva con sé e posizionò sopra le coperte due foto segnaletiche che ritraevano un uomo ed una donna. Cora li riconobbe subito ed annuì, dando così una risposta affermativa.
“Sì, sono loro” mormorò, per poi aggiungere con uno sguardo speranzoso “li avete arrestati?”
“No. Sono stati loro a ridurti in quelle condizioni tre anni fa?”.
La ragazza si ammutolì all’istante. Non aveva alcuna intenzione di rispondere alle domande del detective se prima non le veniva data la certezza di essere al sicuro. Lanciò un’occhiata in direzione della porta chiusa e l’uomo se ne accorse.
“Cora, non hai nulla da temere. Nessuno può più farti nulla, sei al sicuro. Non li abbiamo arrestati perché non siamo arrivati in tempo. Quando abbiamo trovato la loro macchina non c’era più nulla da fare”
“Che intende dire?”
“Quando hanno capito di essere ormai braccati, hanno optato per una soluzione estrema pur di non essere arrestati. Dai rilievi eseguiti sul posto è stato appurato che tuo padre ha prima sparato a tua madre e poi ha rivolto l’arma verso di sé. Entrambi sono morti sul colpo”
“Ne è sicuro? Non… Non è che hanno fatto confusione con i corpi di qualcun altro e… E loro in realtà sono ancora vivi, ma vogliono farmi credere che non sia così?”
“Qui dentro ho le foto che testimoniano tutto quello che ho appena detto”
“Me le faccia vedere”
“Questo non posso farlo. Non è consentito e non è nemmeno un bello spettacolo”
“Ed io non aprirò più bocca fino a quando non avrò visto coi miei stessi occhi la prova tangibile di quello che dice… La prego. Ho bisogno di esserne sicura e la sua parola non mi basta”.
Cora ed il detective Brown si guardarono in silenzio, ed alla fine il primo a cedere fu l’uomo; andando contro alle regole, porse alla giovane le foto di cui le aveva appena parlato. Lei gliele strappò letteralmente di mano e le guardò senza la minima esitazione. Come l’aveva avvertita, non erano affatto un bello spettacolo: l’uomo nelle foto aveva prima rivolto la canna di un fucile verso la donna e le aveva sparato un colpo in faccia che l’aveva sfigurata ed uccisa all’istante, poi aveva rivolto l’arma verso di sé e si era sparato in bocca. Gli mancava un pezzo di cranio nel punto in cui il proiettile era uscito, ed all’interno dell’abitacolo oltre al sangue c’era della materia cerebrale. Nonostante le condizioni in cui versavano i due corpi, la ragazza riconobbe all’istante entrambi i genitori.
Lasciò andare le fotografie sul letto, gli occhi le si riempirono di lacrime, nascose il viso tra le mani e scoppiò a piangere. Ma le sue non erano lacrime di dolore, bensì di sollievo. Il terrore profondo ed incontrollato che provava era scivolato via in un istante perché non c’era più nulla di cui avere paura. Per i suoi genitori e per la fine violenta che avevano fatto non sentiva assolutamente niente, solo il vuoto più totale.
“Sì, sì, è stato mio padre a ridurmi in quelle condizioni. È l’unica cosa che mi ricordo dell’aggressione, i miei ricordi partono da quando mi sono svegliata in ospedale. Ricordo che qualcuno mi ha detto che la mia ripresa è stata qualcosa d’inspiegabile perché ormai ero vicina alla morte cerebrale”
“Perché l’ha fatto?”
“Non lo so, gliel’ho detto: i miei ricordi partono da quando mi sono miracolosamente svegliata in ospedale.
Tutto quello che è successo prima non sono ancora riuscita a ricordarmelo e potrei anche non ricordarmelo mai visto il trauma che ho subìto… Ma quell’aggressione è stata solo la punta dell’iceberg” Cora ricominciò a piangere, e com’erano un fiume in piena le sue lacrime, allo stesso modo furono anche le parole che le uscirono dalla bocca: adesso che sapeva di essere al sicuro e che non poteva più finire di nuovo tra le mani dei suoi aguzzini, raccontò l’inferno che era stata la sua vita fino al momento in cui era scappata dall’ospedale a soli sedici anni. Raccontò delle vessazioni della madre, della sua gelosia distorta, dell’attaccamento all’alcol e delle torture fisiche e psicologiche che era stata costretta a sopportare. Raccontò delle botte che riceveva anche da parte del padre e, dopo un attimo di esitazione dovuto alla vergogna ed all’imbarazzo, raccontò anche delle attenzioni inopportune che riceveva da lui. Delle violenze sessuali che era stata costretta a subìre dacché ne avesse memoria.
Il detective l’ascoltò in silenzio, e rimase in silenzio anche quando ebbe finito di parlare.
“Non so se quello che sto per dirti ti farà sentire meglio o peggio, e non so nemmeno quale può essere il modo migliore per dirtelo, ma quelli non erano i tuoi veri genitori”
“Che cosa?” mormorò la giovane con un filo di voce, allibita “sta dicendo che sono stata adottata?”
“No, non sei stata adottata. Sei stata rapita dall’ospedale in cui sei nata dalla donna che credevi fosse tua madre. Non sappiamo come, ma è riuscita a prendere una delle divise da infermiera ed è riuscita ad agire indisturbata. Non sappiamo nemmeno perché lo abbia fatto, e non lo scopriremo mai dato che si è fatta sparare un colpo in faccia pur di non essere arrestata”
“Tutto questo non è possibile” commentò la ragazza dopo essere riuscita a riacquistare l’uso della parola. Sentiva la testa girare “no. No, non è possibile, questa è la trama di un film. Cose simili non possono accadere nella realtà”.
Per tutta risposta, il detective Brown le allungò un’altra fotografia che non aveva nulla a che fare con le precedenti: questa ritraeva una giovane coppia sconosciuta. Cora spalancò gli occhi, impressionata dalla forte somiglianza fisica che c’era tra lei e la donna che non conosceva. Adesso il racconto dell’uomo iniziava a non essere più così assurdo come poco prima.
“Questi sono…” la giovane si ritrovò costretta a deglutire prima di terminare la domanda, anche se dentro di sé ne conosceva già la risposta “sono i miei veri genitori?”
“Sì, sono loro”
“E… E dove sono ora? Sanno… Sanno già che sono qui?” chiese con uno sguardo ansioso; il detective non rispose, apparentemente troppo impegnato a rimettere tutte le foto dentro la cartellina per farlo. Non era un buon segno “è successo loro qualcosa di brutto?”
“Non hanno mai smesso di cercarti da quando sei stata rapita. Per tutto questo tempo, nonostante tutto, non hanno mai perso la speranza di ritrovarti viva e di poterti finalmente abbracciare” rispose alla fine l’uomo “purtroppo sono rimasti vittime di un brutto incidente stradale. Non ce l’hanno fatta. Anche loro sono morti sul colpo”.
A Cora sembrò di essere colpita allo stomaco da un pugno invisibile e terribilmente doloroso. E la testa continuava a girare senza alcuna pietà, a causa di tutto quello che stava cercando di metabolizzare in una sola volta. Non aveva nemmeno avuto occasione di conoscere i suoi veri genitori che già era costretta ad affrontare il lutto per la loro perdita.
“Quando?” chiese semplicemente “quando è successo? Quanto tempo fa?”
“Il mese scorso”.
Un altro doloroso pugno allo stomaco.
Credeva che l’incidente stradale menzionato dal poliziotto risalisse ad anni prima, e non al mese precedente. Al mese precedente. Se fosse finita in ospedale appena che qualche settimana prima avrebbe potuto conoscere i suoi veri genitori, e magari perfino evitare che andassero incontro all’incidente che li aveva uccisi.
La giovane venne colpita da un’altra dura verità mentre aveva ancora in mano la fotografia dei genitori biologici: loro non c’erano più. Lo stesso valeva per le persone che fino a quel momento aveva creduto essere la sua famiglia. Ed anche Rich se ne era andato nello stesso modo in cui era apparso.
Non doveva più scappare, ma ora era completamente sola al mondo. Non aveva nessuno. Nessuno.
“C’è altro che mi deve dire o posso restare un po’ da sola per fare un po’ di chiarezza?” chiese, per poi spalancare gli occhi dinanzi al silenzio del detective “vuole davvero farmi credere che c’è altro che non mi ha ancora detto?”
“Solo un’ultima cosa che devi sapere”
“E quanto è destabilizzante?” chiese ancora lei, preoccupata per quello che ancora non conosceva.
“Quelle persone non ti hanno solo portata via dalla tua vera famiglia, ti hanno fatto credere di essere una persona che non sei” rispose l’uomo alzandosi dalla sedia “tu non sei Cora Cruz. Non è mai esistito nessuno con questo nome. La tua vera identità è Rosa De La Torre. È così che i tuoi veri genitori hanno deciso di chiamarti quando sei nata”.
“Buongiorno, tesoro. Ho una splendida notizia per te: domani ti dimetteranno, sei contenta?”.
Cora sorrise all’infermiera che si era dimostrata particolarmente gentile nei suoi confronti fin dall’inizio, ma non c’era alcuna gioia nella sua espressione e nei suoi occhi; e forse quella stessa infermiera la trattava con così tanto tatto e delicatezza perché la sua storia e le sue condizioni le suscitavano una forte pena.
Da quando aveva iniziato a riacquistare le forze aveva iniziato ad uscire dalla stanza per fare delle brevi passeggiate per i corridoi, nelle zone in cui le era consentito, ed ogni volta che lo faceva aveva l’impressione di sentirsi gli occhi addosso di tutte le persone che lavoravano lì dentro. Addirittura, in alcuni casi le era sembrato di vedere qualcuno smettere di parlare nel momento in cui lei appariva. Non aveva prove, ma aveva la certezza quasi assoluta di essere l’argomento sulla bocca di tutti dentro quell’ospedale. La ragazza con la storia degna della trama di un film che scopriva di non essere la persona che credeva di essere stata fino a quel momento.
Il detective che aveva parlato con lei era tornato una seconda volta per consegnare tutti i documenti di cui aveva bisogno, inclusa la carta d’identità, ed ancora non riusciva ad abituarsi al nome che vi era scritto nero su bianco su tutti quei fogli. Non si sentiva Rosa De La Torre, ma Cora Cruz. Lo era stata per diciannove anni.
“Lo sarei di più se sapessi dove andare e cosa fare della mia vita” sospirò Cora, girando la testa verso la finestra. Era una giornata bella e calda, e lei non avrebbe potuto sentirsi più depressa “non ho una famiglia. Non ho una casa. Non ho niente. Ho solo dei fogli di carta, ed i vestiti e lo zaino che avevo con me quando mi hanno portata qui. Quindi no, non sono molto contenta”
“Non hai quel tuo amico di cui chiedi in continuazione?”.
Alla domanda dell’infermiera, la ragazza distorse la bocca in una smorfia. Nonostante per lui provasse delle sensazioni contrastanti, non c’era giorno in cui si dimenticava di domandare a chi entrava nella sua stanza se c’era un ragazzo di nome Rich che chiedeva di lei. Continuava ancora a sperare di vederlo entrare da un momento all’altro, ma ancora non era accaduto.
“Non è mai venuto a trovarmi da quando sono qui, direi che questo la dice lunga”
“Lui sa almeno che ti trovi in ospedale?”
“No, non credo. E non credo nemmeno che abbia così tanta voglia di rivedermi” rispose la giovane con un profondo sospiro di sconforto “il giorno in cui ho avuto l’overdose, io e lui abbiamo avuto un litigio piuttosto violento, al termine del quale gli ho rotto in testa un barattolo dello zucchero e sono scappata dall’appartamento che condividavamo. Me ne sono subito pentita, ma mi ha fatta così arrabbiare che in quel momento non ci ho più visto. Non volevo fargli del male, non volevo colpirlo con più forza del necessario”
“Da come ne parli sembra tutto tranne che un semplice amico” disse l’infermiera senza battere ciglio; se anche era perplessa dalla storia del barattolo dello zucchero, non lo lasciava minimamente vedere. Cora si strinse nelle spalle.
“Non abbiamo mai dato una definizione al nostro rapporto. Lui mi ha sempre ripetuto di non essere in cerca di una relazione ed io l’ho sempre rispettato. Quella non è stata l’unica volta in cui abbiamo litigato, e non è stato nemmeno il litigio più violento che abbiamo avuto, ma poi tutto si è sempre sistemato in un modo o nell’altro. Questa vola sento che non è così”
“Perché?”.
La giovane scrollò le spalle. Anche se la donna le stava simpatica, a differenza dell’infermiera, non aveva alcuna voglia di raccontare tutta la storia della fotografia che ritraeva la ragazza bionda. Era già abbastanza triste e confusa senza che ci fosse bisogno di mettere di mezzo anche quella sofferenza.
“Perché lo sento e basta”
“Come puoi essere così sicura senza aver fatto prima un tentativo? Hai mai provato a chiamarlo?”
“No, sarebbe inutile”
“Magari potresti fare un tentativo e restarne sorpresa” l’infermiera lasciò un vassoio con sopra la colazione sul comodino vicino al letto di Cora, e poi se ne uscì dalla stanza per seguire altri pazienti. La giovane non guardò nemmeno il vassoio, i suoi occhi rimasero fissi nel punto indefinito che aveva guardato per tutto il tempo della conversazione. Dopo qualche minuto si alzò, prese qualcosa dallo zaino nero ed uscì a sua volta in corridoio.
Lungo una parete c’erano dei telefoni a muro a disposizione dei pazienti, dei visitatori e di coloro che lavoravano all’interno della struttura. Funzionava a monetine, ed erano proprio alcune monetine che Cora aveva preso dallo zaino. Da quando era tornata libera di uscire perché non c’era più nessuno a sorvegliarla a vista aveva pensato più e più volte di usare uno di quei telefoni per chiamare Rich, ma fino a quel momento non ci aveva mai provato.
Ogni volta che pensava a lui avvertiva sensazioni contrastanti. Lo odiava per essere stata presa in giro fin dall’inizio, ma al tempo stesso non riusciva a lasciarlo andare. Ed ora che era rimasta completamente sola al mondo sentiva di avere bisogno di lui perché non sapeva come fare per andare avanti senza una casa, una famiglia, un lavoro e con un’ identità che non le apparteneva. Aveva bisogno di lui perché negli ultimi mesi aveva sempre trovato una soluzione ad ogni suo problema. Perché ormai era diventato la sua realtà. Perché ne era dipendente, nonostante tutto.
Inserì una delle monete in uno dei telefoni pubblici a muro, portò la cornetta all’orecchio destro e digitò il numero dell’hotel in cui risiedevano lei e Rich; quando ricevette una riposta dalla reception, chiese d’inoltrare la chiamata all’appartamento che corrispondeva al numero 1419 ed attese. Ascoltò in silenzio gli squilli susseguirsi uno ad uno, che sembravano rimbombare nel silenzio del corridoio, chiedendosi quale sarebbe mai stata la loro conversazione se Rich avesse risposto e quante probabilità c’erano che le sbattesse la cornetta del telefono in faccia subito dopo aver sentito e riconosciuto la sua voce. Ma Rich non rispose, e Cora non ne rimase affatto sorpresa. Poteva anche non essere presente nell’appartamento, ma qualcosa le diceva che lui c’era, che aveva capito chi c’era dall’altra parte e non aveva risposto intenzionalmente.
Avrebbe potuto anche fare un altro tentativo, ma sapeva già che il risultato non sarebbe cambiato: non avrebbe ricevuto alcuna risposta, né quel giorno né se avesse continuato a provare nei successivi. O magari alla fine lui avrebbe risposto, ma solo per dire di smetterla di fare squillare il telefono in continuazione.
Cora lasciò perdere quella battaglia già persa in partenza ed appoggiò la fronte contro il supporto del telefono, emettendo un sospiro ad occhi chiusi. Si trovava nella stessa situazione di poco prima, con l’unica eccezione che era svanito anche il solo appiglio a cui poteva aggrapparsi: il giorno seguente, dopo aver eseguito tutti i controlli necessari, le porte dell’ospedale si sarebbero spalancate davanti ai suoi occhi e si sarebbe ritrovata sul marciapiede di una strada da sola come mai prima d’ora era stata, con delle carte in mano ed uno zaino sulle spalle. I soldi dentro lo zaino rubato ben presto sarebbero finiti, e si sarebbe ritrovata al punto di partenza: senza nulla e con l’esigenza di ricominciare a vendere il proprio corpo per denaro, per sopravvivere, con la speranza di non incappare mai nella persona sbagliata e continuando a passare da un hotel all’altro.
Non ne poteva più di continuare in quel modo, perché quella non era vita. E non voleva più saperne nemmeno della droga dato che l’aveva quasi portata alla morte, e aveva paura delle dosi che ancora c’erano all’interno dello zainetto, che stranamente non erano state scoperte. Temeva di ricascare in quel circolo vizioso in un momento di debolezza.
Ma come poteva fare, come poteva sperare di non commettere un passo falso se a proprio fianco non aveva nessuno pronto ad aiutarla?
La giovane riaprì gli occhi all’improvviso e socchiuse le labbra. Rich non era l’unica persona a cui poteva rivolgersi in cerca di un aiuto. C’era anche qualcun altro, ma anche in questo caso poteva non rispondere o sbattere la cornetta in faccia dopo aver riconosciuto la sua voce, ed avrebbe avuto tutte le ragioni dalla propria parte per farlo. Cora non lo avrebbe biasimato in quel caso; era molto probabile che andasse in quel modo, ma decise comunque di fare un tentativo dal momento che non aveva più nulla da perdere. Infilò nel supporto un’altra monetina ed iniziò a digitare un altro numero di telefono.
Non sapeva che fine avesse fatto il pezzo di carta su cui lui lo aveva scritto tempo prima, ma lo ricordava ancora a memoria.
Cora non si aspettava alcuna risposta da parte di Austin; era certa che il ragazzo avrebbe inveito contro di lei per come si era comportata nei suoi confronti per poi chiudere la chiamata, ed invece non solo rispose, ma dopo aver appreso che si trovava in ospedale le chiese subito quale fosse per poterla raggiungere.
Circa un’ora dopo la breve telefonata, lui era già là: quando l’infermiera che Cora trovava gentile e simpatica aprì la porta della stanza per dirle che aveva una visita, Austin si precipitò subito dentro e corse ad abbracciarla come se tra loro due non ci fosse stata nessuna rottura brusca e dolorosa. La giovane ricambiò subito l’abbraccio e da sopra la spalla destra del ragazzo vide l’infermiera chiudere la porta con una strana espressione di cui capì subito il perché.
Lei le aveva sempre descritto Rich come un ragazzo latino con i capelli e gli occhi neri, mentre quello che aveva appena accompagnato alla sua stanza era biondo e con gli occhi azzurri. Quei due non avrebbero potuto essere più diversi l’uno dall’altro, sia dal punto di vista fisico che da quello caratteriale.
“Santo cielo, Cora” mormorò Austin, sciogliendo l’abbraccio per primo “non sai lo spavento che mi hai fatto prendere quando mi hai detto di essere in ospedale. Che cosa è successo?”.
Cora socchiuse le labbra per rispondere, ma le richiuse subito. Gli angoli della bocca tremarono, gli occhi si riempirono all’istante di lacrime e scoppiò a piangere disperata, sfogando tutto quello che aveva trattenuto con forza negli ultimi giorni. Austin le accarezzò la schiena in un tentativo di consolazione.
“Ehi, va tutto bene, d’accordo?” le mormorò all’orecchio destro, mentre lei continuava a singhiozzare e piangere “qualunque cosa sia successa, adesso è tutto passato ed io sono qui. Non hai più nulla da temere”.
La giovane annuì e riuscì a calmarsi; asciugò le lacrime con il dorso della mano destra ed iniziò a raccontare tutto quello che era successo, evitando però accuratamente la parte che riguardava il litigio tra lei e Rich: disse ad Austin dell’overdose, dei due arresti cardiaci che aveva avuto e della visita inaspettata di un detective della polizia di cui non ricordava più il nome. Raccontò anche tutto quello che l’uomo le aveva detto, stravolgendo completamente le convinzioni che aveva avuto fino a quel momento nella propria vita, e si sfogò anche riguardo a quelli che erano stati i suoi primi sedici anni di vita, fino al momento in cui l’aggressione di quello che aveva creduto essere suo padre l’aveva quasi portata a perdere la vita per la prima volta e spinta a scappare dall’ospedale in cui era stata ricoverata.
Lui ascoltò tutto in silenzio, con gli occhi azzurri spalancati in un’espressione di totale incredulità.
“Solo adesso mi rendo conto che se tre anni fa non fossi scappata dall’ospedale, tante cose non sarebbero accadute e questa storia si sarebbe conclusa da tempo, ma allora ero convinta che nessuno avrebbe mai creduto al mio racconto e sarei finita di nuovo tra le loro mani” concluse la ragazza, stringendo le ginocchia al petto, per poi spalancare gli occhi “ohh, mio dio… Se non fossi stata così stupida da scappare, non solo quel detective sarebbe venuto a parlarmi prima, ma avrei conosciuto i miei veri genitori e magari non sarebbero mai morti in un incidente stradale”
“O sarebbero morti lo stesso o avresti potuto esserci anche tu in quella macchina ed oggi non saremo qui a parlare. Non darti colpe che non hai, Cora, tre anni fa non potevi nemmeno lontanamente immaginare tutto questo. Sei scappata perché eri convinta che la tua vita sarebbe stata in pericolo se fossi rimasta in ospedale”.
La giovane non lo disse, ma pensò che in quel caso non avrebbe mai conosciuto nemmeno Rich.
“Ma avrei potuto conoscere i miei veri genitori. Magari avrei potuto avere una vera famiglia anche solo per tre anni, ed invece… Niente. Non solo non potrò mai conoscerli e loro non sapranno mai che sono ancora viva, ma adesso sono qui e non ho niente. Domani mi dimetteranno e non so cosa fare. Sono stanca della vita che ho fatto finora, non voglio continuare a vivere alla giornata con la paura di incontrare la persona sbagliata che possa farmi fare una brutta fine. E non voglio continuare a farmi di cocaina, Austin, ma ho paura di non essere abbastanza forte. Ho paura di ricascarci in un attimo di debolezza e di andare incontro ad una dose che mi spedirà all’altro mondo. Non voglio che le mie giornate ruotino attorno ai soldi da guadagnare ed alla prossima dose da spararsi in vena. Sono stanca di questa vita, non so per quanto ancora riuscirò a sopportarla”
“E lui dov’è?”.
Austin non aveva fatto alcun nome, ma Cora aveva capito benissimo che si stava riferendo a Rich e si aspettava quella domanda.
“Lui non c’è. Non è qui e non è mai venuto perché non sa che mi trovo in ospedale da un bel po’ di giorni” rispose lei con un sospiro “abbiamo chiuso ogni rapporto. Quando ho avuto l’overdose, me n’ero già andata dall’appartamento”
“Come mai?”
“Avevamo punti di vista diversi… Troppo diversi. Ormai la convivenza era diventata impossibile, sono stata io a decidere di andarmene” spiegò Cora, evitando l’inutile sofferenza di spiegare ad Austin che lei e Rich da un certo punto in poi non erano più stati solo semplici coinquilini, ma le cose non erano affatto andate nella direzione in cui lei avrebbe voluto.
“Mi dispiace” commentò il ragazzo, ma il suo tono di voce lasciava intendere esattamente il contrario “ma sarei un’ipocrita se ti dicessi che non sono contento. Quel tipo non mi piaceva affatto, Cora, e in più credo che avesse una brutta influenza su di te”
“Puoi dire quello che vuoi, tanto non ha più alcuna importanza. Io e lui non ci rivedremo mai più, ed al momento le mie priorità sono altre” disse la giovane sforzandosi di sorridere. In realtà aveva pianto tanto per Rich, ed era certa che avrebbe pianto tanto ancora per un bel po’ di tempo. L’astinenza da lui sarebbe stata peggio di quella dalla cocaina “per esempio che da domani mi ritroverò per strada, senza un tetto sopra la testa e la minima idea di cosa fare per dare una svolta alla mia vita”.
Austin rimase in silenzio, abbassò gli occhi e poi li rialzò. Guardò dritta in faccia Cora con un’espressione estremamente seria.
“Vieni a stare da me”.
La ragazza sgranò gli occhi scuri.
“Che… Cosa?”
“Mi rendo conto che si tratta di una follia, ma vivo in una cosa così grande che c’è spazio a sufficienza per un’altra persona” disse il ragazzo, scrollando le spalle con un sorriso imbarazzato “e dopo quello che mi hai raccontato, non posso sopportare l’idea che tu possa finire nuovamente per strada”
“Stai dicendo sul serio, Austin? Lo sai che non hai alcun obbligo nei miei confronti, soprattutto…” Cora avrebbe voluto dire soprattutto dopo quello che è successo tra noi due, ma non ci riuscì; abbassò lo sguardo e sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro.
“Certo che lo so, infatti si tratta di una mia libera scelta e sto dicendo sul serio. Hai detto che hai bisogno di qualcuno al tuo fianco che ti aiuti nei momenti di debolezza, ed è esattamente quello che voglio essere io per te, Cora. Non sarà facile, e proprio per questo voglio esserci. Vieni a stare da me, e penserò a tutto quanto io. Tu non dovrai preoccuparti di niente” Austin sorrise, e Cora sorrise a sua volta, limitandosi ad annuire con la testa perché non riusciva a parlare.
Era certa che se Rich avesse potuto ascoltare la loro conversazione avrebbe rovinato il momento senza pensarci due volte. Riusciva quasi a vederlo scoppiare in una risata sarcastica per poi commentare il tutto dicendo che quando voleva sapeva essere molto meno innocente ed ingenua di quello che lasciava credere, e che era il suo piano fin dall’inizio quello di spingere Austin a compassione, affinchè le offrisse di stare da lui. Conoscendo lui e la sua visione di ciò che gli stava attorno, avrebbe sicuramente detto qualcosa di simile.
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