Capitolo 28

Il tetro corridoio su cui si affacciano le celle ha la malaugurata caratteristica di amplificare a dismisura qualsiasi suono, anche il più debole, trasformando in minaccia persino il gocciolare delle infiltrazioni d'acqua.

Dopo ripetuti episodi che si sono rivelati paure immotivate, vorrei poter dire di esserci ormai abituata, ma è evidente che mi ci vorrà ancora parecchio tempo prima di trovare familiari tutti gli aspetti del mio soggiorno forzato.

Non mi meraviglia, quindi, che il passo cadenzato che si avvicina alla mia cella faccia scattare sull'attenti tutti i miei sensi.
La mia razione di latte freddo e pane duro è già stata consegnata al tramonto e solitamente nessun altro si avventura fin qui.
Questo filo di pensieri si impone nella mia mente, inducendomi a raddoppiare l'attenzione e pregare che i miei riflessi siano pronti, qualunque cosa succeda.

I passi si fermano davanti alla porta della cella.
Per istanti che sembrano infiniti non succede niente.
Nessun movimento, nessun suono.
Nulla.
Per un attimo ho quasi il dubbio di essermi immaginata tutto o che non si trattasse di qualcuno che attraversava il corridoio.

Poi la sbarra che blocca la porta viene rimossa rumorosamente, facendomi schizzare indietro per lo spavento.
La figura che entra silenziosa è seminascosta da una torcia che tiene davanti a sé.
Solo una volta dentro la cella la scosta, lasciando spazio al volto che conosco sotto il solito cappuccio grigio.

Nell'altra mano tiene una ciotola di zuppa fumante che appoggia a terra con un movimento lento ma deciso.
L'odore di cibo caldo raggiunge in breve le mie narici.
E' decisamente meglio di quanto mi sia stato portato finora.
Purtroppo il mio istinto di conservazione mi suggerisce di starne lontana, almeno fino a quando le intenzioni del mio carceriere non saranno chiare.

Lui non accenna ad avvicinarsi.
Rimane lì, immobile e intento a squadrarmi, quasi stesse decidendo se io sia degna o meno di quel pasto.
Anche l'umiliazione, dopo la delusione.

E lui dovrebbe essere l'unico mezzo che ho per non finire nelle mani di Kronos.

Deglutisco a fatica, come se il boccone amaro di questa consapevolezza fosse fisicamente nella mia gola.
Non ho scelta.
Non ne avrei in ogni caso.

La cella è spoglia, fatto salvo per la panca di legno usata come letto.
Dovrò farmi bastare quella, in caso si rendesse necessario.
Mi sposto noncurante di pochi passi, quel tanto che basta da farmi sentire quell'inusuale strumento di difesa a portata di mano.

"Cé go bhfuil tú?"
Per un istante resto frastornata.
Non per la lingua a me sconosciuta, che ho ormai iniziato ad ignorare.
Ma per il suono della sua voce.

E' la prima volta che mi parla.
Ha un timbro giovane, ma mascolino e perentorio, accentuato dalla durezza del suo idioma.
"Non...non capisco la tua lingua" balbetto nonostante gli sforzi per mantenermi calma.

Lui si avvicina, camminando lentamente e girandomi intorno.
"Chi sei?"
Questa volta non riesco ad evitare che la mia bocca si spalanchi nella più totale incredulità.
Ha parlato la mia lingua.
Con un accento strano, influenzato probabilmente da quello locale, ma pur sempre la mia lingua.

"Mi chiamo Alyssa. Ma questo dovresti già saperlo, se non altro dal giorno in cui ho messo piede qui."
Impossibile mordersi la lingua in questo momento.
Troppa rabbia, troppa frustrazione, troppe conseguenze di un sogno andato in frantumi.

Ma il mio tono velenoso non sembra scalfirlo.
"Da dove vieni? Perché parli quella lingua?" incalza sprezzante.
E' una domanda alquanto anomala.
"Vengo dall'Ellade. E parlo questa lingua da sempre, perché è la mia lingua, quella della mia terra! Quello che non capisco è perché un rozzo barbaro come te la parli" ribatto sulla difensiva.

Il focolaio di collera che mi arde dentro inizia ad espandersi e pungere lievemente le mie dita.
Mi irrigidisco, spostando tutta la mia concentrazione sulla nuvola di potere che rischia di montarmi dentro senza controllo.
Non mi accorgo del braccio dello straniero che rapido mi spinge contro il muro e blocca le mie spalle.
La torcia verdognola è ora pericolosamente vicina al mio viso, eppure non ne avverto il calore.
Mi permette, però, di osservare bene il viso che ho davanti.

Dietro la corta barba bionda, disordinata come se fosse passata sotto i colpi di un coltellaccio, si svelano lineamenti di una perfezione inumana.
I suoi occhi di ghiaccio, che nelle sue apparizioni notturne mi avevano stregato, potrebbero essere quelli di un demone, spalancati e folli sotto questa luce verde.

"Non osare insultarmi in quel modo, piccola bugiarda. Questa è la lingua di mia madre, e lei non faceva certo parte del tuo popolo di sporchi straccioni, qualunque esso sia. Tu stai mentendo!"

Le sue parole vanificano i miei sforzi di autocontrollo.
Senza riflettere, afferro il suo polso per spingerlo via e nello stesso momento il lampo azzurrino si libera dalle mie dita, scaraventandolo lontano da me e lasciandomi a terra senza fiato, preda degli spasmi, in cerca d'aria.
E quando i miei polmoni tornano a respirare, è il dolore alla mano a farmi contorcere.

Basta, non voglio questa...cosa!

Non riesco a trattenere le lacrime, così come non posso evitare di pensare che se avessi ceduto a Kronos tutto questo non sarebbe successo.

Ma a che prezzo?

Il contatto con la fredda pietra del pavimento sembra lenire lentamente le bruciature.
Mi sollevo in ginocchio, attenta a non staccare la mano da terra neanche un attimo.
Lo straniero è in piedi, là dove il mio lampo lo ha spinto, ma sembra non averne subito alcuna conseguenza.
La sua espressione è, anzi, cambiata.
I suoi occhi hanno perso la luce folle che brillava poco fa e tutto il suo corpo non è più schiavo della rigidità che lo governava.

"Perché sei qui, ragazza?" chiede cautamente.
"Perché tu mi hai chiamato" sospiro, stanca.
Lui si avvicina e si siede di fronte a me a braccia conserte.
"Io non ti ho chiamato. Non ti conosco nemmeno" replica fermo.
"Eppure lo hai fatto. Hai iniziato una notte di quattro estati fa. E da allora mi sei apparso tutte le notti. Ecco perché sono qui."
"Che cosa hai visto esattamente?" indaga socchiudendo gli occhi.
Rivivere quelle immagini mi spinge a fissare lo sguardo fuori, attraverso la feritoia.
"La scogliera. Le rocce dell'isola. Il cielo coperto di nubi. Tu. Il tuo mantello e... la tua mano tesa."

Raccontarlo è allo stesso tempo doloroso e imbarazzante.
Sotto il suo sguardo ora liquido e più vicino e reale di quanto non lo sia mai stato, accompagno istintivamente i gesti alle mie parole, allungando le dita della mano sana ai bordi del suo mantello e assaporandone la morbidezza mentre scivolano giù.

Ma la sua mano mi blocca prima di raggiungere il fondo.
"Smetti di torturami, Alyssa. Il tuo posto non è questo. Devi andartene da qui" sussurra con un tono così morbido che mi spiazza.
Le sue parole stridono con la sua voce e mi confondono, senza darmi il tempo di realizzare che se n'è già andato, sbarrando nuovamente la porta della cella dietro di sé.

                               ***

Ciao a tutti!
Scusate la latitanza della settimana scorsa, ma queste settimane pre-natalizie mettono a dura prova 😁.
Ma a quanto pare anche Alyssa è messa alla prova sotto diversi punti di vista.
Cosa ne pensate delle reazioni dello straniero?
Buona domenica e buona settimana!

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