CAPITOLO 17 - MI HAI SENTITA, NONNA?

«Dobbiamo partire a breve, Meghan arriverà in stazione tra circa mezz'ora.»

"Era Matt che aveva parlato? Aveva un tono di voce così serio che stentavo a riconoscerlo."

«Ok, ma io non so se sia il caso di svegliarla, è ancora distrutta. Si è calmata sì e no due ore fa, forse è meglio prenderla in braccio e metterla in auto.»

"Henry?!? Aveva la voce incrinata, forse aveva pianto anche lui, il mio dolce e sensibile amico."

«Concordo, anche secondo me è meglio lasciarla riposare ancora un po'. Ry tanto conosce la strada, se la sta facendo spiegare proprio adesso dal padre di Ollie per telefono.»

"C'era anche Andrew lì con me? Perché parlavano di partire?!? Io non volevo andare da nessuna parte, volevo rimanere lì e non aprire mai più gli occhi, sapevo che una volta aperti avrei trovato una realtà che non mi sarebbe piaciuta affatto."

«No, è una pessima idea! Deve iniziare a stare sveglia per capire cosa sta succedendo, altrimenti non riuscirà ad affrontare la giornata. Non ve ne preoccupate, me ne occupo io!»

Iniziai pian piano a far mente locale ed a ricollegare le parole dei miei amici con i fatti della notte precedente. Dovevo essere crollata dopo quell'urlo lanciato dalla sommità del tetto, perché francamente non ricordavo assolutamente nulla di ciò che era accaduto in seguito, sapevo solo di trovarmi in quel momento sul divano della casa dei ragazzi con le guance ancora rigate dalle lacrime.

"Luke si sbagliava, io non volevo affrontare proprio un bel niente! Sapevo in cuor mio che quello era un mio dovere, ma in tutta non sincerità, non sapevo se ce l'avrei fatta, non sapevo se sarei riuscita a sopravvivere a quel giorno."

Dei passi si fecero sempre più vicini, una mano calda e leggermente ruvida al tatto si adagiò delicata sul mio viso, scostandomi alcune ciocche di capelli, e l'odore della persona che meglio conoscevo, saturò l'aria intorno a me.

«Topino, svegliati! Ti prego Ollie, apri gli occhi!»

Luke aveva sempre delle richieste irragionevoli per me, in quel momento mi stava chiedendo uno sforzo disumano. Avevo le palpebre che pesavano come due macigni, e come provai a sollevarle, un dolore acuto fece pressione sui miei bulbi oculari.

Cercai di mettere a fuoco ciò che mi si presentava davanti, sbattendo ripetutamente le ciglia con notevole difficoltà, ma pian piano il suo viso si fece più nitido e cominciai a distinguere i suoi ricci inarrestabili e i suoi occhi più cupi del consueto. Aveva il volto stravolto dalla stanchezza, le occhiaie erano più marcate, ma nonostante ciò, mi rivolse un tenue sorriso.

«Buon giorno, lo so che non hai voglia di svegliarti, ma dobbiamo andare. I tuoi genitori ti stanno aspettando, tua nonna ti sta aspettando, Ollie! Non puoi mancare al suo funerale», disse con tono carezzevole come il tocco delle sue dita affusolate sul mio volto.

«Luke, cazzo! Dalle tregua!» Henry lo aveva afferrato con forza per una spalla, ma lui si era limitato a scrollarselo di dosso, incenerendolo sul posto con una semplice occhiata di traverso.

«Henry, piantala! Lei è forte a sufficienza per affrontare questa cosa, e tutto vorrebbe tranne che non dimostrarsi tale in questo giorno per sua nonna, quindi vedi di darti una calmata e di non proteggerla sempre come al tuo solito! Piuttosto stiamole vicino e diamole il nostro sostegno, non possiamo fare altro, né tantomeno capire neppure lontanamente il dolore che sta provando!»

Il mio coinquilino ammutolì a quelle parole, ed io stessa fui sorpresa dalla calma, dalla forza e dal sostegno, che il ragazzo accovacciato vicino a me mi stava rivolgendo.

Luke tornò a concentrarsi su di me, escludendo tutti gli altri da quella nostra conversazione, anche se io non ero ancora riuscita ad aprir bocca, ma sembrava che per lui le mie parole fossero futili. Gli bastavano i miei silenzi, i miei sguardi pieni di disperazione, per capirmi.

«Ollie, coraggio piccola, lo so che lo vuoi fare, lo so che ce la puoi fare! Alzati e andiamo da lei!»

Mi bastarono quelle parole, quella sicurezza che leggevo nei suoi occhi, per trovare quel briciolo di forza di cui avevo bisogno per muovere i primi ed estenuanti passi, in quella che sarebbe stata la giornata più lunga della mia vita. Ma lo avrei fatto, solo per lei, solo ed esclusivamente per la donna a cui io dovevo tutto: mia nonna.

Con non poche difficoltà, facendo leva sui gomiti per tirarmi su ed arrancando con le gambe per poggiare i piedi sul pavimento in cotto, mi alzai, ma appena mi trovai in piedi la stanza ed i volti dei miei amici cominciarono prima girare e poi a diventare sempre meno definiti, come le loro voci che vennero sostituite da un ronzio di sottofondo: stavo per svenire. Probabilmente la causa era la carenza di cibo, acqua e sonno da non sapevo neppure io quante ore.

Luke, comprendendo ciò che stava per accadere, mi afferrò al volo, e senza che nessuno gli dicesse nulla, mi prese in braccio. Mi coprì con il suo giubbotto di pelle nero, e tenendomi stretta a sé, con passi lenti e cadenzati, mi portò in auto nel più assoluto silenzio.

Io lo lasciai fare, in quel momento non avevo le forze necessarie per camminare, né tantomeno per compiere qualunque altro gesto vitale che non fosse respirare, e già quello sembrava risucchiarmi le poche energie di cui disponevo.

Ci dividemmo in due auto: Io, Luke e Henry in quella di Matt, ed Andrew in quella di Ry che faceva strada.

Ci accomodammo sul sedile posteriore, ma io non mi staccai da lui, rimasi seduta sulle sue gambe, affondando la testa nell'incavo del suo collo, stringendo con veemenza tra le mani la sua maglietta nera, come per sincerarmi che lui fosse davvero lì e che non sarebbe svanito nel nulla anche lui abbandonandomi. Mi lasciai cullare tra le sue braccia, dalle sue lievi ed impercettibili carezze sulla mia schiena, dai quei suoi quasi inconsistenti baci che lasciava di tanto in tanto sulla mia nuca e dal suo caldo respiro tra i miei capelli.

Ne avevo davvero bisogno, avevo bisogno di sentirlo vicino. Forse ero un'egoista ad agire così, visto il modo in cui mi ero comportata nei suoi confronti nei mesi precedenti, quando lui cercava di avvicinarsi ed io lo trattavo in malo modo, ma in quell'istante la razionalità era ben lontana. Io stavo letteralmente affogando, ed avevo bisogno di chi sapevo mi sarebbe riuscito a tenere a galla, e non era una mia scelta quella, era il mio corpo, era il mio istinto a dirmi che lui era la mia ancora di salvezza.

Henry mi passò una bottiglietta d'acqua e qualche biscotto, ed anche se avevo lo stomaco chiuso in una morsa, mi sforzai di mangiare più per necessità che per vera e propria fame. I miei movimenti erano meccanici: aprivo, chiudevo la bocca e deglutivo come un robot, senza distinguere i sapori che invece avrei dovuto percepire sulle mie papille gustative.

Passammo a prendere Meghan in stazione. Aveva il volto devastato anche lei: gli occhi arrossati e le guance ancora umide dal dolore versato come me in quella notte. Appena entrò nell'abitacolo mi sciolsi dalle braccia di Luke per catapultarmi in quelle della mia amica, ed a quel punto i singulti e le lacrime si impadronirono nuovamente di me, ricominciando a scendere copiose come un fiume in piena inarginabile. Il nostro dolore si unì in quell'abbraccio, divenendone uno solo.

Meg era l'unica che poteva comprendere ciò che stavo provando. Voleva bene a mia nonna tanto quanto me, per lei era davvero stata un membro della sua famiglia a tutti gli effetti, e quella donna l'aveva considerata e trattata come un'altra sua nipote. Per lei Meghan era sempre stata sangue del suo sangue, non le servivano certificati o cognomi per non amarla in egual misura. Ci aveva cresciute lei durante gli anni del liceo, ci aveva dato consigli sul mondo maschile, era venuta a tutte le esibizioni di danza della mia amica e ai miei concorsi fotografici, ci spronava a fare sempre di più, lei più di tutti credeva in noi.

Per tutto il viaggio in auto non facemmo altro che piangere strette l'una all'altra, in un abitacolo che rimase in religioso e rispettoso silenzio per noi due. Ci ricomponemmo soltanto una volta giunte a destinazione.

Scesi dall'auto e non appena iniziai ad avanzare sui ciottoli di quel piccolo vialetto che conduceva alla casa della mia infanzia, cominciai a tremare da capo a piedi. Mi resi conto solo in quel momento che non l'avrei mai più trovata ad attendermi a braccia aperte al di là di quel vecchio portone di legno scuro, che non avrei mai più inalato l'odore di solventi per la stampa delle foto nello stringerla tra le mie braccia, che non mi avrebbe mai più dato uno dei suoi assurdi consigli che tanto mi facevano ridere... semplicemente mi resi conto che non l'avrei mai più rivista in vita mia.

Mi bloccai a metà strada, sotto gli occhi vigili di tutti i miei amici, e a quel punto, per non crollare, feci l'unica cosa che era in mio potere: spensi l'interruttore.

Avete presente quando ci sono momenti nelle vostre vite in cui fate delle cose ma è come se non ne foste coscienti? Ecco, quello è ciò che feci io in quell'istante. Spensi tutto, e lasciai che fosse il mio corpo a muoversi, mentre la mia mente rimaneva altrove, rifugiandosi in un posto sicuro, un posto fatto dei miei ricordi più preziosi con lei.

Dopo quell'ennesimo attimo di tentennamento, la giornata divenne un susseguirsi di eventi indistinti. Ricordo di essere entrata in casa, di aver abbracciato la mia famiglia, di essere andata al piano di sopra nella mia vecchia stanza con Meghan ed Henry, che mi avevano aiutato a cambiarmi per la cerimonia, facendomi indossare un semplice vestito a tubino nero, lungo fin sopra il ginocchio, abbinato a degli stivali bassi del medesimo colore.

Mi ero lasciata vestire come una dannata bambola, ed ironia della sorte, fu solo in quella particolare circostanza che compresi il motivo per cui quello che doveva essere uno tra giochi preferiti delle bambine, a me invece sin da piccola aveva sempre trasmesso una profonda inquietudine: erano vuote.

Mi sentivo proprio così in quel momento, mi era stato strappato di dosso il mio passato ed il mio presente e ciò che ingenuamente avevo sempre dato per scontato esserci anche nel mio futuro. Ma io avevo anche un aggravante in tutto ciò: oltre ad essere vuota, ero anche rotta.

Ero spezzata, incrinata, incapace di rialzarmi per la prima volta nella mia vita. Avevo sempre saputo come tirarmi su dopo una brutta caduta, a non dar peso al dolore ad un paio di ginocchia sbucciate, ad un cuore tradito e ferito, ma non sapevo come ci si facesse rialzare quando si aveva la consapevolezza che ad attenderti non ci sarebbe più stato chi ti aveva sempre guidato ed accolto dopo una lunga battaglia. No, non lo sapevo... non lo sapevo proprio come si faceva. Era una di quelle cose che nessuno ti insegnava e che potevi imparare solo una volta che la vita avesse deciso di sbattertela in faccia.

Ero scesa poi al piano di sotto nella sala che era stata allestita per la veglia funebre. Tutto era molto austero: solo la bara al centro davanti al camino e qualche sedia disposta intorno ad essa, nessun tipo di fiore o corona ad addobbare la stanza. Sicuramente quella era stata una disposizione di mia nonna. Lei non amava lo spreco, e conoscendola avrebbe detto: "I soldi per i fiori li si spendono per i vivi, che ci dovrebbe fare con un fiore un cavolo di morto?"

Quasi mi venne da ridere nell'immaginare una delle sue frasi pungenti. Peccato che non ne fossi in grado, perché io, il mio primo sorriso, quello che avevo rivolto ancora in fasce quando avevo aperto gli occhi su questo mondo, lo avevo donato a lei, ed in quel momento mi sembrava che se ne fosse andato per sempre anche lui la sera precedente insieme al suo ultimo respiro.

Rimasi in contemplazione della bara aperta per ore, mentre un fiume di persone mi passò davanti per porgermi le loro condoglianze. Io non so cosa gli abbia risposto a quella massa per me indistinta, continuavo a fissare il volto della donna che avevo amato con tutta me stessa per 23 anni, cercando di fare un fermo immagine nella mia mente e catturare così ogni dettaglio del suo volto per paura di poterlo dimenticare.

Quella decisamente era la mia paura più grande: di non ricordare più ogni singolo tratto del suo viso, come corrugava la fronte quando rifletteva su qualcosa, l'angolo destro della bocca che alzava quando stava per dirne una delle sue, la luce nei suoi occhi che si accendeva quando mi vedeva arrivare, il modo in cui le sue mani stringevano la sua amata macchina fotografica ed il sorriso sincero che le rivolgeva. Non volevo perdere tutto questo, non volevo che svanisse con il tempo dalla mia mente.

Henry mi afferrò per un braccio, riportandomi per un attimo alla realtà, spronandomi in silenzio a seguire gli altri all'esterno e lasciare che gli addetti alle pompe funebri chiudessero la bara, per poi dirigerci verso la chiesa. Volsi lo sguardo un'ultima volta in direzione di mia nonna, mentre venivo sospinta delicatamente fuori. Vidi il coperchio della cassa adagiarsi sopra la sua salma, e portare via così il suo volto per sempre dai miei occhi, ma mai dal mio cuore.

Come misi piede oltre la soglia, delle gocce di pioggia piccoli e sottili cominciarono a cadere, tramutandosi pian piano in un vero acquazzone. Meg mi incitò a ripararmi sotto il suo ombrello, per poi correre in auto ed avviarci direttamente verso la chiesa. Anche il cielo quel giorno, come era già accaduto qualche mese prima con la neve, aveva deciso di palesare le mie emozioni, anche quando io non le lasciavo esternare. Feci quanto indicatomi dalla mia amica e con l'auto dei miei genitori raggiungemmo la nostra ultima destinazione, anzi, la penultima.

Durante la messa non seguii neppure una parola di quello che il prete disse, ero del tutto immersa nei miei pensieri, come d'altronde lo ero stata per la maggior parte del tempo quel giorno non proferendo parola, ma questa volta iniziai ad essere più lucida.

In parte ero arrabbiata. Arrabbiata con mia nonna e mia madre per non avermi detto nulla della sua malattia, di quel cancro al seno che da più di un anno la stava consumando. Si era anche operata, ma a causa delle metastasi si era dovuta sottoporre ad un ciclo di radioterapia e cura ormonale annessa. Il problema fu tutt'altro però: il suo cuore, il suo grande e generoso cuore, forse indebolito da quel male contro cui stava ancora lottando, quella notte non aveva retto, portandomela via nel sonno. Tuttavia conoscevo mia nonna, lei era una guerriera e voleva combattere le sue battaglia da sola, ma soprattutto, sapevo che non me ne aveva parlato per lasciarmi partire serena. La conoscevo troppo bene per avere dubbi in merito, e a quel punto subentrò il senso di colpa.

Mi incolpai per non essere stata più attenta e non aver colto alcuni segnali del suo malessere, per non averla chiamata di più quando ero stata via, per non averle fatto più spesso visita. Mi sentivo in colpa per tutto, sentivo di aver sprecato tantissimo tempo che avrei potuto dedicare a lei e con cui creare qualche altro splendido ricordo in sua compagnia.

La mano di Meghan strinse forte la mia, distogliendomi da quei miei pensieri in costante tumulto. Mi fece un cenno verso l'altare e notai che tutti erano in attesa.

"Ah giusto, quando ero entrata in chiesa mi avevano chiesto se al termine della liturgia avessi voluto dire qualche parola per commemorare mia nonna, ed ora era giunto il momento."

Con estrema fatica mi alzai dal mio posto e mi diressi con passi incerti verso l'altare in un silenzio quasi assordante, in cui solo l'incedere delle mie scarpe sui gradini del presbiterio, sembrava riempire il vuoto che portavo dentro.

Giunta davanti a quella platea riunita per quella spiacevole occasione, mi resi conto di non essermi preparata un discorso e per un attimo andai nel panico. Non volevo non dire nulla, né tantomeno fare un discorso banale per mia nonna. Lei si meritava il meglio, ma in quel momento non riuscivo a comporre nella mia testa una frase di senso compiuto.

Poi però, tra la folla, scorsi due occhi scuri che mi incitavano silenziosamente da lontano ad andare avanti, a non vacillare, a stare in piedi per la donna a cui stavo per dare il mio ultimo addio. Luke era poggiato al muro in fondo alla chiesa, lontano da tutti, con gli altri ragazzi, ma per me era come se fosse al mio fianco a tenermi la mano, e a quel punto compresi: non dovevo dire qualcosa di sensato, dovevo essere semplicemente me stessa, come mia nonna mia aveva insegnato ad essere, e come lui mi aveva rammentato quando ci eravamo incontrati più di due anni fa. Cercai gli occhi di Meg, di Henry, e di tutte le altre persone che sapevo volermi bene, per trarne la forza necessaria. Volsi lo sguardo verso la bara, e con un mesto sorriso, cominciai a parlare:

«Mia nonna era una persona unica, molti lo diranno per tutti i loro cari, ma lei lo era davvero. Credo che nessuno mi abbia dato consigli dalla dubbia moralità come lei in vita mia.»

Una piccola risata collettiva si sollevò dall'assemblea dei presenti, e ne fui soddisfatta, perché conoscendola avrebbe voluto proprio questo: che tutti sorridessero. Così, forte del piccolo sorriso strappato, proseguii.

«Era una donna forte, sincera, senza peli sulla lingua. Era una fotografa di grande talento, che mi ha insegnato a guardare le cose in una prospettiva diversa e a non basarmi mai su una singola visuale. Una volta, ero piccola, e per spiegarmi questo concetto così complesso, prese una fotografia in bianco e nero che ritraevano un sole che si nascondeva dietro le onde del mare, e mi chiese: "Ollie, secondo te è un' alba o un tramonto?". Io ero una bambina e per me il fatto che buona parte di quel sole fosse coperto era un motivo più che sufficiente per ritenerlo un tramonto. Lei mi sorrise gentilmente e mi disse : "Invece per me è un alba, ma in realtà non c'è una risposta esatta, forse solo per colui che ha scattato questa foto, ma non ha importanza, la cosa fondamentale è che tu capisca che non c'è un solo modo di vedere le cose e che qualunque idea e prospettiva altrui, è comunque giusta e ti darà modo di riflettere quando sarai più grande." Io le dissi che parlava in modo troppo complicato e lei si mise a ridere, affermando che non avevo poi tutti i torti e che sicuramente io, che ero una bambina, avrei saputo esplicitare più semplicemente quel concetto. Sapete, per me nel mondo non esistono solo due categorie di eroi, come ritengono i più, bensì tre: i primi sono quelli che conosciamo tutti, per intenderci quelli dei film e dei fumetti con i loro super poteri decisamente poco realistici; i secondi sono quelli della vita reale, gli uomini che si prodigano ogni giorno mettendo a repentaglio le loro stesse vite per salvarne delle altre; ed infine c'è la mia categoria personale di eroi, quelli che riescono a donarti un sorriso ogni volta che incrociano il tuo sguardo. Sì, perché a mio avviso, amare incondizionatamente e riuscire a far sorridere sempre qualcuno, nonostante le avversità che la vita gli ha posto davanti, è un superpoter molto più straordinario di quello di saper volare, e mia nonna, per me, faceva decisamente parte di quest'ultima categoria. Lei era il mio eroe.

Era una donna che aveva il dono di amare, e quando lo faceva ti donava tutta se stessa, senza remore e senza esitazione. Mi ha insegnato grandi verità sull'amore, mi ha dato grandi lezioni sull'argomento e io le custodirò sempre gelosamente nel mio cuore. Non si faceva alcun problema a dirti come la pensava su di te, non le interessava mostrarsi per quella che era, sia nelle sue qualità, che nelle sue debolezze. Lei si accettava, lei amava le fragilità delle persone e non le giudicava, ammirava chi sapeva soffrire, e dava peso a piccoli gesti che invece per i più erano insignificanti. Ed è per tutto questo che io non posso fare altro che dirle grazie. Grazie per avermi vista crescere, grazie per avermi insegnato a rialzarmi quando ho mosso i miei primi passi in questo folle mondo, grazie per avermi ascoltata, grazie per avermi sempre supportata, grazie per essere sempre stata il mio punto fermo nella vita, semplicemente grazie nonna per avermi accettata. Ora, io non sono molto brava ad esprimere concetti teologici sulla vita dopo la morte, il paradiso o quant'altro, anche perché non ho le nozioni necessarie per farlo, ma una cosa la so per certo: le persone che amiamo non se ne vanno mai davvero dalle nostre vite una volta che il loro corpo si spegne. Io vi invito a guardare chi è al vostro fianco, quella persona avrà sicuramente un ricordo di questa bellissima ed indomabile donna, ed è per questo motivo che lei non morirà mai, ma vivrà nella memoria e nei racconti di ognuno di noi.» Mi voltai un ultima volta in direzione del feretro e con un sorriso triste, ma pieno d'amore in volto, completai quel mio discorso. «Io sicuramente non ti dimenticherò mai. Ti voglio bene, nonna.»

Su quelle ultime tre parole la voce iniziò ad incrinarsi, ma tenni duro, e nel piccolo applauso rispettoso che seguii tornai al mio posto.

Rimasi per un attimo lì, con i gomiti poggiati sulle ginocchia, leggermente protesa in avanti, e la mano di Meg ad accarezzarmi la schiena per farmi sentire la sua vicinanza. Abbassai le palpebre, escludendo così tutto il mondo esterno, e stringendo forte le mie mani giunte tra di loro, come in preghiera, rivolsi un'ultima domanda alla figura di mia nonna nella mia mente, immaginandola rivolgermi uno dei suoi classici caldi sorrisi che mi attendevano ogni qualvolta andavo a trovarla, una domanda, che sapevo sarebbe rimasta senza risposta ormai per sempre.

«Mi hai sentita, nonna? Ti voglio bene!»

E' stato un capitolo molto complesso per me da scrivere, spero che le emozioni siano state il più verosimili possibile, io per lo meno c'ho provato. Ho immaginato una Ollie estraniarsi dal mondo, perché ripensando a vari funerali a cui sono stata, mi sono resa conto che alla fine ricordavo solo le emozioni di quei giorno e non i fatti. Vi chiedo di tenere duro per un altro capitolo, poi torniamo a respirare un po', ve lo prometto. Ci vediamo tutti Giovedì!

Ed ora i saluti... oggi tocca al Catanese...

NNI VIREMU A U PROSSIMU PIGIAMI!

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top