29. Finalmente ho capito

Prendo l'autobus e, mentre cerco di non diventare la reincarnazione di uno zombie, penso alle parole di Genny e a quanto a volte sia sufficiente il parere di uno sconosciuto qualsiasi per aprirti gli occhi e farti capire che le persone disposte ad ascoltarci nella nostra vita le abbiamo già.

Ho passato gli ultimi undici anni della mia vita a odiare mia madre e il suo carattere di merda, convinta che fosse esclusivamente colpa sua se papà ci avesse lasciate così, da un giorno all'altro. Invece lei non ha nessuna colpa e non si merita il mio odio. Dovrei solo ringraziarla del fatto che mi abbia tenuta, anche se era giovane e avrebbe potuto essere egoista almeno quanto lo sarei stata io al suo posto. Aveva un futuro, ma ha deciso di farmi entrare nella sua vita, forse andando contro tutti quei parenti che non ho mai conosciuto o semplicemente contro i suoi genitori, come ho letto in quella lettera che le ha scritto papà. Già avere un figlio a 19 anni è pesante, se poi devi lottare contro il mondo per partorire tua figlia e ritrovarti vedova a 24 anni forse ti chiedi che cazzo di male hai fatto nella vita per dover sopportare tutto questo.

Non ci avevo mai pensato, troppo presa dall'odio per rifletterci. Io, che mi faccio mille film mentali e che ragiono su tutto, sono stata così idiota da non arrivarci prima di sentirmelo dire da una sconosciuta in un ospedale la mattina in cui mi ritrovo a piangere la morte del mio primo ragazzo.

Che quella donna avesse le palle avrei dovuto capirlo tempo fa. Mi ha cresciuta senza mai farmi mancare nulla di materiale, anche se l'unica cosa che le rimprovero è di avermi fatto mancare la cosa più importante di tutte: l'affetto. Sarebbe bastato un abbraccio in più per fidarmi di lei, per abbandonarmi completamente senza ogni difesa, per accoccolarmi fra le sue braccia in cerca di protezione. Invece ogni singola volta che le parlo sento questa fottuta distanza a separarci, a farci odiare mentalmente o verbalmente, a lasciarci senza fiato dopo esserci urlate addosso le peggio cose.

Non capirò mai veramente me stessa se non le parlo, se non accetto di farlo, se non arrivo a capire che ho bisogno di lei come mai ne abbia veramente avuto bisogno prima. Lei deve esserci, deve starmi vicino, deve sapermi consolare, deve imparare a farlo perché sarò io a chiederglielo, ad abbattere quel muro che ci divide. Non me lo merito perché sono stata un'ingrata, una stronza, una deficiente, ma adesso finalmente ho capito. Saremo in due a condividere lo stesso dolore, solo lei può dirmi come si fa a saltarci fuori, a fare andare tutto bene, perché ora come ora vedo tutto nero e non so ancora se sarà in grado di riaccendere in me la luce.

Scendo alla fermata di casa, prendo l'ascensore e apro la porta. Sento di nuovo la nausea salire alla bocca dello stomaco, ma deglutisco perché non voglio rimettere di nuovo. È seduta in sala, sul divano, penso stia facendo le parole crociate, come fa sempre la domenica mattina. Entro in sala, con un'espressione che racconta tutto quello che non riesco a dire a voce.

- Gabriella, dove sei stata? Ero preoccupata... Sei uscita così presto stamattina... tutto bene?

- No, non va tutto bene - rispondo, iniziando a singhiozzare.

Lascia le parole crociate sul divano, si alza in piedi e viene verso di me.

- Gabriella, per favore, parlami. Mi devo preoccupare?

Mi fa una carezza sul viso. Non le do neanche il tempo di aggiungere altro. Cerco rifugio tra le sue braccia, scoppiando in un pianto disperato. La stringo per evitare che mi allontani, come ha fatto più volte ripetendomi quanto odiasse il contatto fisico.

Impacciata, appoggia una mano sulla mia schiena e l'altra fra i capelli e rimaniamo così per un sacco di tempo. Non riesco di nuovo a calmarmi, non ce la faccio. Mi sento morire dentro a ogni respiro che faccio per cercare di interrompere lo sfogo.

- Tesoro, che è successo? Così mi preoccupo... - riprende, iniziando ad accarezzarmi la testa.

- Valerio non c'è più - rispondo, fra le lacrime e i singhiozzi.

A quel punto mi prende il viso fra le mani e mi dà un bacio in fronte.

- Vieni - mi prende per mano, mentre con l'altra mi asciugo le lacrime.

Mi porta in camera sua e si siede sul letto, appoggiando la schiena alla testiera. La raggiungo, togliendomi le scarpe e mettendo la testa sulla sua spalla. Mi abbraccia, per la prima volta di sua iniziativa, riprendendo ad accarezzarmi i capelli.

- La mamma è qui - ripete, come un mantra - non permettiamo più al rancore di separarci. Ti voglio bene, Gabri, sei stata per tanto tempo la mia ragione di vita.

- Te ne voglio anch'io, mamma - ammetto, dopo undici anni di odio - scusami, sono stata una stronza, io ho bisogno di te, perdonami. Perdonami...

Singhiozzo e cerco di ricambiare l'abbraccio avvolgendole la pancia con il mio braccio sinistro, ma lei lo rimette al suo posto.

- Attenta - commenta.

La fisso negli occhi senza capire e vedo il suo sguardo posarsi sulla sua pancia. Prende la mia mano e gliela appoggia sopra.

- Il dolore della morte non vincerà mai sul potere della vita.

Continuo a guardarla in modo interrogativo senza rendermi davvero conto di cosa stia succedendo.

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