Capitolo 28
Mi svegliai sentendomi stanca ed esausta, le mie palpebre pesanti. Una volta che i miei sogni si furono dispersi, realizzai di essere distesa su un letto che non era il mio, dal momento che questo era di gran lunga più comodo. Mi misi lentamente su a sedere, guardando la stanza, che tutto ad un tratto, divenne famigliare. Ero nell'ufficio di Lori. E con questo arrivò il ricordo di. . . quanto tempo era passato da quando Harry era stato portato nella stanza 204? L'elettroshock. Il pensiero mi fece star male. Sperai che fosse solo un terribile incubo, che lui fosse nella sua cella e che io fossi semplicemente svenuta per caso.
Ma no, tutto questo era vero. Ed era frustante. Voglio dire, io ed Harry non potevamo essere felici neanche per un giorno. Una cosa tirava l'altra, e il Wickendale sembrava essere più una distopia che un istituto mentale.
La nostra giornata si era trasformata in un disastro, con Harry che aveva quasi picchiato a morte James, poi che era stato sedato dalle guardie ed infine sottoposto alla 'terapia' dell'elettroshock. Quando avevo iniziato a sentire una delle tante grida soffocate, avevo battuto contro la porta, l'avevo presa a calci, l'avevo colpita con la mia spalla, qualsiasi cosa pur di farla aprire mentre urlavo loro di farmi entrare. E l'ultima cosa che ricordavo, era un ago che veniva infilato nel mio braccio mentre mi dimenavo tra le braccia della guardia.
"Oh, sei sveglia," disse Lori, sospirando e liberandomi dai miei pensieri. Tutto quello che feci, fu annuire per confermare.
Mentre si avvicinava a me, non notai nessuna sorpresa nei suoi occhi, nessuno shock del fatto che io fossi diventata una paziente del Wickendale. Dalla nostra ultima conversazione, doveva aver capito cosa fosse successo, perché non mi fece nessuna domanda, ma mi rivolse solo uno sguardo di compassione e di qualcos'altro. . . forse colpevolezza.
"Per quanto tempo sono rimasta senza sensi? Cosa hanno fatto ad Harry? Sta bene?" Domandai immediatamente.
"Rilassati, Rose, stavi solo dormendo da ieri pomeriggio. Sono circa le nove del mattino ora, quindi non così tanto."
"Ed Harry?" Incitai. L'espressione dei suoi occhi indusse un senso di pesantezza nel mio cuore già pesante. Venne lentamente verso di me e si sedette sul bordo del letto.
"Sta bene. . .in gran parte." Le rivolsi uno sguardo perplesso e lei continuò. "Lo è fisicamente ma la Signora Hellman, lei. . .lei gli ha inflitto una scarica elettrica molto alta."
"Cosa vuol dire questo?" Domandai.
"Vuol dire che la sua mente è. . . confusa. La scossa ha trasmesso onde di cariche elettriche in lui, onde davvero intense. Tante. Abbastanza da scombussolare il suo cervello. Tutto sarà un po' confuso per lui, per un po'."
"Cosa vuol dire, confuso? Ha perso la memoria?" Iniziai a preoccuparmi sempre di più, ed ero nervosa di sentire la sua risposta.
"No, non esattamente. Ha soltanto perso dei collegamenti tra la sua memoria e i suoi sentimenti, in un certo senso. Lui potrebbe essere in grado di ricordare l'immagine di James ma potrebbe non provare l'odio che provava e potrebbe non ricordarsi ciò che ha fatto James. E si ricorderà di te ma forse non ciò che prova nei tuoi confronti. E' difficile da spiegare, ma una volta che lo vedrai, capirai tu stessa. Semplicemente vacci piano con i discorsi e sii paziente con lui. Farà tante domande, sarà confuso riguardo tante cose e potrebbe non essere quello di sempre."
Chiusi i miei occhi, frustrata e sconfitta, le lacrime iniziarono ad accumularsi di nuovo. Non ebbi nemmeno il tempo di pensare prima di formulare la domanda tanto temuta. "Non più lo stesso? Riuscirà mai a riprendersi del tutto?"
"Oh, si," rispose fiduciosamente, e potei letteralmente percepire la pesantezza del mio cuore placarsi con un po' di sollievo. "Ci metterà un po', potrà impiegarci qualche giorno come anche qualche mese. Ma siccome è abbastanza intelligente, penso che non ci metterà poi così tanto. Ci penserà lui stesso a riordinare i suoi pensieri, e a riprendersi. All'inizio sarà come il resto dei pazienti, un po' perso e confuso. Ma parlandogli di più e magari anche giocando a carte, qualsiasi cosa che gli stimoli la mente, sarà in grado di riprendersi dallo shock. Sarà frustrante, ma sii paziente. Sono sicura che riuscirai a tirarlo su di morale."
Annuii, asciugandomi le poche lacrime, che erano cadute. "C'è niente che io possa fare per velocizzare il processo?"
Lori ci pensò su per un momento ma poi scosse lentamente il capo. "Forse sì, ma solo se succede qualcosa di scioccante, qualcosa di intenso. Però le possibilità che questo accada sono molto scarse. La cosa migliore che tu possa fare è parlargli, giocare a giochi da tavolo, qualsiasi cosa in grado di stimolargli l'attività celebrale."
Annuii con riluttanza, incapace di accettare questa situazione. Voglio dire, sapevo che si sarebbe ripreso, ma mi spaventava il pensiero di dover passare molti giorni senza l'Harry al quale io mi ero abituata.
Perché la Signora Hellman doveva essere così stronza? Era tutta colpa sua. Sapeva che suo figlio meritava di essere punito; ma alla fine, era sempre Harry a dover pagare le conseguenze delle azioni di James. Voleva farlo sembrare pazzo e fare qualsiasi cosa per distruggerci. E tutto questo era esasperante. Avrei voluto urlare, singhiozzare, piangere ed urlare ancora. Ma non c'era tempo per urlare o per piangere, e non avevo nemmeno le forze per farlo.
Ma ci avrei provato, avrei cercato di essere forte, perché non avrei lasciato che la Signora Hellman vincesse un'altra volta.
"Posso tornare nella mia cella, ora?" Chiesi a Lori. Non aveva alcun senso rimanere nel suo ufficio, e mi sentivo perfettamente in forma. Beh, fisicamente.
"Sì, chiamo la tua guardia per farti venire a prendere e poi puoi andare," mi disse, aggiungendo un piccolo sorriso alla fine.
"Grazie, Lori."
"Prego, tesoro," disse. Ma c'era uno strano silenzio che persisteva al posto di una conversazione, come se ci fossero più parole da dire. Io non avevo nient'altro da aggiungere, a differenza di Lori, che sembrava sul punto di dire qualcosa.
"Mi dispiace," disse alla fine. "Per tutto questo. Non dovresti stare qui."
"Va tutto bene," la riassicurai. "Non è colpa tua."
Lei annuì, e poi i suoi occhi dolci guardarono dentro i miei. "Se c'è qualcosa che io possa fare, fammelo sapere. Qualsiasi cosa. Non appartieni a questo posto e so che sono soltanto una donna anziana, ma farò del mio meglio per aiutarti."
"Grazie tante," sorrisi, appuntando le sue parole nella mia mente. Avevamo Kelsey, avevamo Lori, e stavamo accumulando pian piano la fiducia dei pazienti. Non era molto, ma pregai che una volta che Harry si fosse sentito meglio, sarebbe stato almeno sufficiente. Magari in questo modo saremmo stati in grado di scappare dal Wickendale. Qualcosa sarebbe andato a nostro favore. . .prima o poi.
O almeno ci speravo.
HARRY'S POV.
Nella mia mente c'era disordine, tanto disordine. I miei pensieri erano sfocati e confusi. Mi sentivo come quando ci togliamo, dopo tanto tempo, degli occhiali da sole, avete presente? Quando i nostri occhi devono adattarsi alla realtà per far sì che la nostra vista ritorni limpida.
Ma nel mio caso le cose non ritornavano affatto alla normalità.
Questo era tutto ciò che provai stamattina, quando mi ero svegliato; questo stato nebbioso di incertezza. Mi sentivo annegare in un mare di pensieri incompiuti e di sentimenti vuoti. E avevo cercato di collegare i puntini per individuare una possibile via d'uscita. Ma è difficile trovare una via d'uscita in un labirinto, quando non sai in quale labirinto ti trovi.
Era strano e quasi soffocante, la sensazione di dover provare a ricordare qualcosa che non era esattamente nella mia mente. Sapevo di dover ricordare, la mia mente sarebbe dovuta essere più chiara di così. Ma non lo era; tutto sembrava torbido. Mi era successo qualcosa. Sapevo soltanto che c'era qualcosa che non andasse con i miei pensieri o con i miei ricordi, o con entrambi, e sapevo che non c'era nulla che io avessi potuto fare. Ma mi lasciai cullare da una specie di conforto, poiché in qualche modo sapevo che si trattasse solo di una cosa momentanea.
E, a differenza di stamattina, ora ero già in grado di decifrare delle cose nella mia testa e di riuscire a capire tutto ciò che mi circondava. Quando mi ero svegliato, il mio cervello era come un vegetale, ma ora mi sentivo un po' più lucido. Ero a conoscenza di alcune cose, non importava quanto vagamente. Ed iniziai a provare delle sensazioni; qualcosa che aveva a che fare con l'odio e l'avidità. L'avidità di qualcosa che era mio, ma che mi era stato portato via.
Mi mancava qualcosa.
Improvvisamente, provai rabbia. Qualcuno aveva rubato qualcosa di mio. I miei occhi stanchi scansionarono la stanza, vedendo delle pareti scure in cemento ed un pavimento granuloso. C'erano tavoli e una piccola cucina sul retro dove delle persone in un'uniforme bianca cucinavano del cibo e poi lo portavano fuori per dar da mangiare a dei pazienti.
Pazienti.
E il fantasma dei ricordi ritornò da me. Ero in un istituto mentale per i criminali. Accusato di aver spellato 3 donne. L'accusa era falsa. Queste cose mi erano chiare. Pregai soltanto che il resto dei miei pensieri perduti ritornasse e che alla fine si riordinassero da soli, perché c'erano sicuramente altre cose, di vitale importanza, nascoste nella mia testa che non riuscivo a ricordare del tutto.
Improvvisamente, vidi una ragazza entrare, in quella che credevo fosse una mensa, con addosso un'uniforme blu. Aveva capelli scuri che le cadevano giù, in onde lunghe. Decisi che lei fosse reale, non un ricordo o un pensiero. Lei venne verso di me ed io abbassai lo sguardo, non volendola spaventare con i miei occhi. Aspettai qualche secondo e percepii la sua camminata di fianco a me.
"Harry?" Chiese lei dolcemente. Alzai lo sguardo al suono del mio nome, notando la ragazza seduta sulla sedia alla mia sinistra. I suoi occhi danzavano in una miscela di blu e verde, lo spettro di un sentimento e la scintilla di un ricordo si accesero nella mia mente. "Harry, ti ricordi di me?"
I suoi occhi sembravano nervosi, forse preoccupati mentre si mordeva il labbro in attesa. Aveva paura della mia risposta? Aveva paura di me? Probabilmente. Ma non la biasimavo. Cavolo, anche io avevo paura di me stesso.
Lei mi aveva fatto una domanda. Annuii, distogliendo lo sguardo da quegli occhi, così da poter pensare un po' più chiaramente. Conoscevo questa ragazza. Non riuscivo a ricordare esattamente come, in quel momento, ma quei ricordi erano da qualche parte nella mia mente. Ma l'unica cosa che riuscii ad elaborare fu il suo nome.
"Rose," mormorai. "Rose. . .Winters."
Lei mi guardò con qualcosa di simile al sollievo, ed annuì. "Sì, giusto. Come ti senti?"
Rose rimase paziente mentre meditavo la domanda. Come mi sentivo? "Uh, un po' strano," risposi onestamente. "È tutto. . . sfocato qui." Indicai la mia testa, una gabbia sfocata dove erano intrappolati tutti i miei pensieri. Non sapevo come altro descrivere il mio stato confusionario; era tutto semplicemente strano e sfocato. Era strano cercare di scovare parole da dire, non sapevo nemmeno come rispondere a semplici domande o come esprimere un determinato pensiero.
Ma il sorriso di Rose era uno di quelli divertiti, quindi pensai che la mia risposta non fosse poi così male. Tuttavia, a differenza del suo sorriso, i suoi occhi sembravano tristi. Perché era triste?
Ma non potei chiederglielo poiché mi fece subito un'altra domanda. "Vuoi parlarne? O vuoi giocare a carte?"
Ancora una volta lei rimase paziente, e gliene fui grato. In qualche modo, sembrava come se lei capisse la frustrazione e il tempo che mi serviva per elaborare i miei pensieri. E volevo riuscire a parlarle come sapevo di poter fare normalmente. Sapevo che qualcosa non andasse, e provai a combattere per ricordare. Volevo chiederle aiuto, chiederle cosa non andasse in me, invece tutto ciò che riuscii a dire fu, "Carte."
"Okay," annuì, sorridendomi ancora ed alzandosi, probabilmente per andare a prenderne un mazzo. Ma il suo sorriso non era uno di quelli genuini. In qualche modo, sapevo di aver già visto il suo vero sorriso genuino, e questo non lo era affatto. E i suoi occhi erano ancora affranti, mentre si allontanava. Era colpa mia?
Rose ritornò in pochi secondi, un mucchio di carte tra le sue mani. "Giocavamo molto a 'go-fish'," mi disse. "Ti ricordi come si gioca?"
Lei era proprio accanto a me, le nostre spalle si sfioravano, e mi piaceva il fatto che lei fosse così vicina. E poi capii: era questa la cosa che mi stava mancando. Era lei la cosa che mi apparteneva e che mi era stata portata via, l'unico conforto di cui la mia mente avesse bisogno. E mentre mi rispiegava come giocare a go-fish, non le prestai tanta attenzione. Ero troppo concentrato a fissare i suoi occhi, la sua pelle, le sue labbra, i suoi lunghi capelli, il suo viso delicato. C'era qualcosa in questa ragazza.
E fino a quando non fossi riuscito a ricordarla completamente, avrei trascorso il resto del mio tempo a ri-conoscere Rose Winters.
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