34 - CHI SEI?

Speciale. Magica. Indescrivibile.

Tre parole che racchiudevano perfettamente la notte appena passata. Mi sembrava di galleggiare su una nuvola. Ero tornata a casa a mattina inoltrata e anche se mi ero chiusa subito in camera – per permettere a Lattner di rientrare a sua volta senza destare sospetti – non avevo chiuso occhio.

Sentivo ancora le emozioni in subbuglio, una massa compatta che si contraeva nello stomaco rilasciando scariche di brividi in tutto il corpo a intermittenza. Era strano e piacevole.

Alla fine era successo. Non nelle dinamiche che volevo, non con la franchezza totale che speravo, però era successo. E ancora dovevo realizzarlo, sebbene il dolore dell'interno coscia e zona inguine me lo ricordasse a ogni spostamento. Sospirai.

Un'altra giornata era iniziata e forse non avevo coraggio di ripartire come se nulla fosse.

Quando mi alzai dal letto con un balzetto, il corpo mi restituì quell'imprudenza con una fitta. Il ventre mi si contrasse e avvampai imbarazzata.

Okay, forse con gli uomini ero un po' fuori allenamento.

Anzi, senza forse.

Dopo la faccenda di Joker, il sesso era slittato in secondo piano. Avevo ben altri pensieri per la testa. E sebbene un angolo recondito del mio cervello bramasse un corpo, della soddisfazione sessuale e quell'attimo estatico in cui tutto scompare e tu resti sola con il tuo piacere; alla fine avevo chiuso quel bisogno nello stesso scantinato dove tenevo tutti gli altri sentimenti. Mi sarei accontentata di chiunque, un tempo. Ora le cose erano un po' cambiate.

La notte prima, la notte appena trascorsa, mi aveva chiaramente fatto capire che non poteva bastarmi più un tizio qualunque, uno da una notte e via. Non ero più quella persona.

Lo avevo detto, no? O meglio, lo avevo pensato, no?

Amavo Lattner. Ne ero cosciente e consapevole. Ne avevo preso nota e sebbene il mio cervello mi dicesse che al momento non fosse la scelta migliore, il mio cuore vagava già per altri lidi.

Non pensiamoci adesso. Lasciamo che le cose vadano come devono andare.

Ottimo suggerimento. Mi guardai allo specchio e feci una smorfia. Avevo un aspetto stupendo e al tempo stesso stupendamente disastroso. I capelli erano una massa arruffata senza alcun senso, avevo le occhiaie ma la pelle del viso sembrava illuminata da una luce divina e avevo un sorrisetto stampato in faccia che proprio non riuscivo a cancellare. «Ma pensa te... guarda che fa il potere di un orgasmo!» biascicai a me stessa, imbarazzata.

Dovevo uscire dalla camera. Dovevo affrontare il mondo. Anzi, no... dovevo affrontare Lattner.

Sarei riuscita a fingere come se niente fosse? Dubitavo. Eppure dovevo farlo. Dovevo mantenere la calma e non farmi prendere dall'esasperazione, sentimento che ogni tanto affiorava dal nulla. Era una situazione strana la nostra. A metà tra un casino senza vie di scampo e l'inizio di qualcosa di interessante.

Inoltre, ancora per qualche strano motivo dovevo mantenere il segreto. Il suo segreto. Io ormai non ne avevo più. Non con lui, per lo meno.

Sarebbe sicuramente arrivato il giorno in cui avremmo entrambi giocato a carte scoperte, ma per il momento, dovevo accontentarmi di questo. Baci rubati, corse in moto, scopate pazzesche da bendata.

Sì, bendata. Il pensiero mi diede una scarica di brividi. Avvampai ancora una volta.

«Dannazione!» ringhiai., lisciandomi i capelli e sistemando i vestiti stropicciati. «Ma come posso presentarmi così, di là?» Se il solo pensiero mi faceva arrossire, non osavo immaginare cosa sarebbe successo a trovarmi direttamente di fronte alla fonte dei miei sordidi pensieri. Mi strofinai la faccia, ricacciando indietro le paranoie. Almeno ci dovevo provare.

Calma e moderazione. Calma e sangue freddo.

Ce la puoi fare, Robin!

Un respiro, e via.

Quando aprii la porta della camera, una brezza fredda mi fece accapponare la pelle. Per un istante mi sembrò di tornare indietro alla tempesta appena superata, alla pioggia sulla pelle, ai vestiti che rotolavano via, al suo corpo bollente premuto addosso, ai suoi baci, le sue mani... scrollai la testa. «Cristo! Datti un contegno.» E fortuna che non avevo un pisello, altrimenti sì che sarebbe stato un problema andare in giro in quelle condizioni.

Quel giorno, la distanza dalla mia camera alla sala, sembrò assurdamente lunga. Ogni passo calcato mi faceva venire voglia di farne il doppio indietro, chiudermi in camera e mandare a fanculo l'intero mondo.

Solo che... bé, non potevo.

E lo capii con certezza non appena misi piede in sala e notai il profilo di Lattner, in cucina.

L'aria era pregna del profumo del caffè e lui mi dava le spalle. Rimasi a fissarlo per un tempo indefinito, sperando che non si voltasse. Sarei potuta scappare in capo al mondo, rintanarmi in camera giorni interi, ma non sarei potuta più sfuggire dai miei sentimenti. No. Quelli mi avrebbero seguito ovunque.

Feci un profondo respiro. Era momento di ripartire. Stavo per salutarlo con tutta la tranquillità di cui disponevo quando notai un dettaglio che mi lasciò interdetta.

Aveva lo sguardo perso nel vuoto, sembrava strafatto o anche lui sospeso su una nuvola. Un sorrisetto gli arcuava le labbra, la sigaretta stretta tra i denti si era consumata ed era rimasto il suo spettro fatto di cenere, teneva la brocca fumante a mezz'aria e il caffè tracimava dalla tazza spargendosi su tutto il bancone e colando in terra; ma lui non sembrava accorgersene. Gli occhi erano fissi sulla finestra aperta. Era da lì che entrava l'aria.

«Ma sei cretino?» berciai. E quello fu il nostro nuovo inizio. Sì, bé... non un bel modo di partire dopo averci fatto un sesso favoloso giusto qualche ora prima ma... che diamine!

Lattner sembrò riscuotersi e tornare dal suo mondo di Fantasylandia, fece un balzo indietro imprecando in maniera colorita e la sigaretta cadde nella pozza di caffè. Quando notò la mia presenza e finalmente mi mise a fuoco si strinse al petto la brocca, avvampando; salvo ricordarsi qualche attimo dopo che era appena stata sul fuoco e probabilmente ancora scottava. La lanciò nel lavandino. «Ro – Robin!» squittì, cercando di darsi un contegno. Si passò una mano sul collo.

Lo fissai allibita. E poi qualcosa dentro di me esplose. «Ma ti ha dato di volta il cervello?» Macinai la distanza che ci separava in poche falcate e afferrando il primo strofinaccio a portata di mano iniziai a pulire il disastro che aveva appena causato. «Guarda qua! Guarda che casino! Ma cos'hai nella testa, eh?» Strofinavo a terra più del dovuto. Me la stavo prendendo con lui più del dovuto. Stavo perfino gridando, più del dovuto.

Insomma, l'idea della calma e della moderazione non erano andate a buon segno dentro di me e ora stavo accusando l'insoddisfazione di non potermi godere il post sesso come si doveva.

Non sono mai stata una da coccole e cazzate varie, ma le volevo. Cazzo, se le volevo.

Volevo tutto di quella relazione, se così la si poteva definire. Volevo le coccole, i baci, le risatine stupide, i dispetti, la complicità e gli attimi insieme. Non ne potevo più di avere solo sprazzi di tutto e poi il niente. O solo i litigi. Di quelli ne potevo fare a meno.

E ora che avevo assaggiato ciò che saremmo potuti essere anche nell'intimità, tutta quella situazione mi sembrava ancor peggiore.

«Mi sono un attimo distratto e...» Lo vidi passarsi le mani nei capelli. Aveva calze e vestiti macchiati di caffè e lo sguardo puntato lontano. Non mi guardava. «Mi dispiace.»

Era mortificato e io più di lui. Avevo sfogato su di lui quell'ammasso di frustrazione e non andava bene. Non andava affatto bene. Eravamo partiti con il piede sbagliato. Tutto era sbagliato. Ci saremmo dovuti accoccolare sul letto, divorarci di baci e carezze, riprendere più volte ciò che avevamo fatto quella notte; e invece, lui fissava il vuoto in tralice, tutto sognante e io lo riempivo di insulti. Ero una idiota. Come sempre, d'altronde. «Scusami tu... stamattina sono un po'...» Persa? Confusa? Innamorata? Sollevai gli occhi per guardarlo meglio e quando se ne accorse non poté fare a meno di guardarmi a sua volta. Restammo a fissarci per minuti interi, silenziosi, importanti anche se muti. Si passò una lingua tra le labbra e improvvisamente sentii il mio respiro farsi più pesante. Fu sbagliato quel contatto visivo. Risvegliò ricordi che entrambi cercavamo di tenere a bada. Lasciò riemergere la passione e il desiderio. Il suo viso si tinse di rosso mentre si tirava la manica della maglia e strofinava i piedi in terra. Fece alcuni passi indietro. Era in imbarazzo? A disagio?

«Io è meglio se vado a... cioè, guardami...» Si segnò i vestiti sporchi e scosse il capo, volgendo la testa verso il bagno. Ciondolava da un piede all'altro. Continuava a guardar tutto meno che me.

«S – sì, sì... certo. Vai pure.» Mi risollevai da terra e gettai lo strofinaccio nel lavello. Era intriso di caffè. Ultimamente le nostre mattine si riducevano sempre un disastro. «Penso che nel frattempo andrò a prendere qualcosa al minimarket qua vicino.» Ottimo modo per darmela a gambe. Ottima idea per lasciarci tempo di sbollire la situazione a entrambi.

Lattner si limitò ad annuire, camminò a gambero verso la sala e sparì nel bagno prima ancora che uscissi di casa. C'era tensione nell'aria. Né io né lui riuscivamo a mascherarla come avremmo dovuto. Dopo

«Complimenti, Robin!» imprecai, dando una manata al bancone.

Non potevi esordire con un semplice Buongiorno?

E invece no. Devi sempre incasinare tutto, tu.

Afferrai le scarpe e la giacca e infilandomele uscii di casa con ancora la testa imbottita di pensieri.

Lui, io, il motociclista. Sembrava una relazione a tre. Eppure eravamo solo in due.

E se glielo avessi detto? Se gli avessi detto che comunque sapevo?

Salutai rapidamente con un cenno del capo uno dei tanti vicini e scivolai sul marciapiede, tornando ai miei ragionamenti.

Ero arrivata alla conclusione che avrei potuto dirglielo, sì. E dopo? Probabilmente il motivo per cui ancora non aveva lasciato che le sue due identità combaciassero riguardava Samuel.

Samuel e il suo omicidio.

Rabbrividii. Le porte del minimarket si aprirono e una folata di vento caldo mi investii non appena misi piede dentro il locale. Afferrai un cestino della spesa e mi inoltrai tra le corsie. In realtà non sapevo nemmeno cosa dovevo prendere. Avevo solo approfittato della prima occasione per scappare di casa.

Per scappare da Lattner.

«E questi?» Biscotti ripieni di nutella. «Massì, dai.» Li lanciai dentro il cestino, arraffando altra roba.

La soluzione migliore era una sola. Non mi piaceva ma non avevo altre alternative: dovevo farmi un'altra chiacchierata con Märten. Meglio della precedente. Da quella avevo ricavato davvero poche informazioni. Inoltre, avevo la sensazione che avesse omesso alcuni particolari importanti, tipo il nome di chi aveva fatto secco Samuel. Dettaglio non da poco.

Non che lo tenesse nascosto a Lattner, eh. Sia chiaro questo. Però ero dell'idea che in qualche modo tentasse di non farmi invischiare nella faccenda. Solo che ormai c'ero dentro fino al collo e se risolverla mi avrebbe permesso finalmente di poter avere Lattner a trecentosessanta gradi, senza le solite bugie, ero disposta a correre i miei rischi.

«Sono quarantacinque dollari.»

«Che?» Strabuzzai gli occhi e fissai la cassiera di fronte a me. Masticava la gomma rumorosamente, facendola schioccare sotto i denti. La sua voglia di vivere era quasi al pari della mia.

«Sono quarantacinque dollari... precisi, precisi» ripeté.

Le rifilai la banconota aspettando il resto e fissai l'ammasso di cibo che mi ero presa. Fare spesa con la mente altrove mi aveva portato a comprare cose improponibili. Afferrai le due buste ricolme di schifezze, gelati, merendine e dolciumi e sospirai esasperata. Forse era solo il mio inconscio che chiedeva a gran voce di ingozzarmi e annegare nello zucchero le mie insoddisfazioni amorose. O magari stavo solo cercando di ammazzarmi con un picco glicemico.

Uscii dal minimarket domandandomi di cosa avrei parlato con Lattner al rientro. Il cambiamento climatico? L'importanza delle api nell'ecosistema? Lo scioglimento dei ghiacciai?

O magari di quanto era stata sorprendentemente piacevole ed erotica la nostra prima scopata?

No, questo decisamente no.

Cattiva! Cattiva, Robin!

Scrollai la testa. Bé, avrei sempre potuto proporgli un pranzo a base di biscotti alla nutella, vermi della Haribo e un gelato extrafondente con dentro annegati dei marshmallow; ma non ero sicura che avrebbe assecondato quella mia necessità di zuccheri. E in fondo, non ero nemmeno certa di voler i marshmallow nel gelato anziché abbrustoliti. Insomma, è una scelta difficile.

Spostai il peso delle borse da una mano all'altra e nel farlo colpii qualcosa, anzi, qualcuno. Il malcapitato accusò l'impatto con un gemito e subito mi voltai, allarmata, convinta di aver appena assassinato un vecchietto. «Oddio! Mi scusi!» Ci mancava solo una litigata con uno sconosciuto nel mezzo della strada e poi ero a posto quella mattina.

«Sembra che io e lei siamo destinati a scontrarci, eh?» L'uomo che era venuto più volte al Joily, il mio cliente facoltoso e magnanimo, mi regalò uno dei suoi sorrisi cordiali. Fu una sorpresa vederlo lì. E fu ancor più sorprendente vederlo in abiti normali, non vestito di tutto punto come se fosse appena uscito dallo studio di un avvocato. «Le serve una mano?» Abbassò lo sguardo verso le mie borse.

Diavolo, no! Sono Scorpion Queen, io... mica Biancaneve.

«No, no... grazie! Abito qua vicino.» Era imbarazzante. Sembrava quasi che il destino continuasse a lanciarci uno addosso all'altra. La prossima volta cosa sarebbe successo? Ci saremmo presi a testate? «Si è perso?» domandai, vedendolo leggermente spaesato mentre fissava un fogliettino stropicciato.

«Si vede, eh?» Si grattò la nuca e mi porse il biglietto da visita. C'era solo un nome e un numero, era di un'agenzia immobiliare. «Devo andare qui. Ho appuntamento con il proprietario.»

«È in cerca di una casa?» Non erano affari miei ma non potei far a meno di domandarglielo.

Lui sorrise e gli occhi di colori differenti sembrarono scintillare di due luci diverse. Era un po' come guardare metà faccia gentile e metà paurosa. La parte con l'occhio chiaro era perfetta e angelica, lo faceva assomigliare a un principe d'altri tempi; quella con l'occhio scuro e la cicatrice, invece, sembrava espandere attorno a sé delle ombre inquietanti, tanto da farlo sembrare pericoloso e oscuro. «Già. Cerco un appartamento.» Si passò una mano sul mento, pensoso, come se valutasse bene cosa dirmi e cosa no. D'altronde non lo biasimavo, non erano affari miei e io, come mio solito, ero stata un po' invadente. «A quanto pare certe volte bisogna ripartire da zero.»

Mi venne da sorridere. Era un po' ciò che avevo pensato io quando mi ero trasferita a Detroit. Nuovo posto, nuova scuola, nuova vita. Tutto nuovo. Perfino io: nuova Robin. Chiunque fosse quel cliente gentile e stravagante, con le sue ricche mance e i suo sorrisi singolari, aveva catturato la mia simpatia. «Venga, è di qua. Si trova proprio al piano terra del mio stabile.» Aumentai il passo preoccupata che il gelato si sciogliesse. Gli lanciavo occhiate veloci assicurandomi che non restasse indietro.

Non ci parlammo per tutto il tragitto. Sentivo che c'era, che mi seguiva; eppure nessuno dei due trovò un argomento per rompere il ghiaccio. Quando mi fermai davanti al mio edificio mi voltai a guardarlo. Teneva gli occhi puntati nel tornante delle scale, quasi si aspettasse di vedere scendere qualcuno. Per un attimo mi parve di averlo già visto da qualche parte, solo che... non ricordavo dove.

«Quindi è qui» disse, così piano che pensai di averlo sognato. «E anche lei abita qui.»

Mi limitai ad annuire.

«Sembra un bel posto.»

«Lo è, sì.» Sarei voluta restare a far qualche altra chiacchiera ma l'occhio continuava a cadermi sulle buste. A casa avrei dovuto usare una cannuccia per mangiare il gelato, altroché. «È un bel quartiere» aggiunsi, quasi a volergli vendere l'idea perfetta del luogo. L'agente immobiliare avrebbe dovuto darmi una quota se avesse concluso l'affare.

«Vedo.» Un balenio di denti perfettamente bianchi gli illuminò il sorriso. Era un tipo interessante. Mi incuriosiva e aveva uno strano alone di mistero attorno a sé. A vederlo così, senza i vestiti immacolati e con un lieve accenno di barba, la mia mente continuava a ripropormi la sensazione che non fosse una faccia nuova. Dove lo avevo già visto?

«Ci siamo mai visti prima?» domandai, di getto, sperando che mi desse una risposta sincera e non evasiva come tutte quelle che mi aveva dato. Invece lui si limitò a inclinare leggermente la testa, sorridere e dallo sguardo che mi rivolse sentii crescere un'insolita sensazione di disagio. L'aria innocua che aveva sembrò incresparsi, come quando si lancia un sasso in un laghetto. Era per come mi guardava e per il modo in cui sorrideva a darmi quella sensazione di inquietudine. Sentivo i brividi lungo il corpo e la pelle accapponarsi sulle braccia. Era sempre lui, sempre lo stesso; eppure, il modo in cui mi guardava ora e in cui mi stava sorridendo, era diverso.

«No, temo di no» disse. Il sorriso si allargò maggiormente fino a increspargli gli angoli del viso. «Non sono di queste parti.»

Strinsi la presa sulle borse e feci alcuni passi indietro. Il barlume di simpatia che mi aveva suscitato era svanito di colpo e ora fremevo per tornarmene a casa. «Cre – credo di dover andare» balbettai, sorpresa io stessa della tensione nella mia voce. «Ho i gelati che si stanno sciogliendo.» Alzai le buste della spesa quasi a volermi giustificare. Lui si limitò ad annuire e dopo un veloce saluto, mentre mi allontanavo, percepii il suo sguardo seguirmi fin sulla rampa delle scale.

Mi sentii meglio solo una volta chiusa in casa, barricata dietro il portone, con tanto di doppia mandata e chiavistello al suo posto. «Diavolo!» biascicai, piano. Il cuore mi pompava frenetico nel petto. Era stato... non so. Non lo riuscivo nemmeno a definire. Rimasi immobile a riprendere fiato, a lasciare che cuore e fiato tornassero regolari. Scrollai via l'ennesimo brivido e attraversai il corridoio, verso la sala.

Lattner era spaparanzato sul divano ma era in attesa. Era chiaro che mi stesse aspettando. Quando sollevò lo sguardo, incrociando il mio, mi rivolse un sorriso gentile, meno tirato, meno ardente. Un sorriso a cui potei rispondere senza il timore di rispolverare l'indecente serata appena trascorsa. «Ci hai messo parecchio. Credevo ti fossi persa.»

Scossi il capo. «No, ma va. Ho solo incrociato un mio cliente.»

«Un cliente... del Joily?» domandò, sottolineando la parola cliente come se stessi parlando di qualcosa di illegale o amorale.

«No. Un cliente del nightclub per cui lavoro.» Lo fissai come si può fissare uno stupido. «Ma certo, Thomas! Secondo te?»

Rise. «Scusa, scusa... è solo che lo hai detto con una faccia...»

Andai verso la cucina e misi in salvo i gelati. Ancora qualche minuto e addio extrafondente con i marshmallow. Poi presi a sistemare il resto della spesa. «Sì, bé... mi ha un po' inquietato.» Era una fortuna che avessimo trovato un argomento di cui parlare. Ero preoccupata del fatto che avrei fatto scena muta, e invece, ci stavamo comportando come se niente fosse. Potevamo farcela, sì. «Ultimamente viene spesso al Joily. Lascia mance così corpose che solo con quelle potrei pagarmi l'intero affitto.»

«Forse vuol far colpo su di te.» Non sembrava contento della piega che stava prendendo il discorso. Glielo leggevo nello sguardo, nel modo in cui si tirava e rigirava attorno al dito una ciocca di capelli e dal tono di voce. Era carino pensare che sotto quella finta indifferenza fosse geloso.

«Non credo. E in ogni caso non sarebbe proprio il mio tipo.» Mi spostai verso il divano, lasciandomi cadere al suo fianco. «Sarà per via dell'aria che ha.»

«È un vecchio bavoso?» Si stava divertendo a punzecchiarmi. E lo preferivo così, quando era meno tirato e si permetteva il lusso di scherzare anche su questi argomenti.

«No, in realtà no. Ma mentre ci parlavo mi ha dato l'idea di averlo già visto prima d'ora. Eppure dovrei ricordarla una faccia così... insomma, è un tipo particolare. Ha gli occhi di colore diverso, uno grigio e uno quasi nero. Com'è che si chiama? Eterocromia? Ah, e poi... ha una cicatrice che gli attraversa la faccia. Quella è davvero inquietante.»

«Co – come hai detto, scusa?» lo sentii rantolare.

«Sì, eterocromia. Non vuol dire quando si hanno gli occhi diversi l'uno dall'altro?» Mi girai verso di lui e restai sorpresa della sua reazione. Mi fissava ad occhi sgranati, il volto pallido come un lenzuolo, la fronte imperlata di sudore e le mani strette a pugno sulle ginocchia. Tremava. «Sta – stai bene?»

Quando mi afferrò per le spalle ci mancò poco che lanciassi un grido, un po' per sorpresa un po' per timore. Ero stata presa alla sprovvista. Non me lo aspettavo. «Ti ha fatto del male? Eh, Robin? Ti ha fatto del male?» Ad ogni parola il pallore sembrava accentuarsi, quasi perdesse tono, quasi sbiadisse.

«Cosa? No. No.»

«Che cosa ti ha detto?» Mi scuoteva. Mi stringeva. Le dita affondavano nei vestiti e nella carne fino a stritolarmi.

«Ni – niente.» Non capivo. Che stava succedendo? Sembrava in preda a una crisi di panico.

«Sei sicura? Che cosa ti ha detto, eh? Che cosa ti ha detto, Robin!» La voce era stridula e tremante, gli occhi sgranati.

«Niente. Dannazione! Niente» gridai, spaventata. «Mi stai facendo male, Thomas. Mi fai male.»

Quando si accorse che le sue dita si erano contratte sulle mie braccia come artigli mi mollò di colpo, alzandosi dal divano con una fretta che quasi gli costò una caduta. Poi senza aggiungere altro corse verso la porta e uscì di casa. Il contraccolpo mi fece sussultare sul posto.

Che diavolo era appena successo?

E chi era quel tipo?

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top