/40/ Crescita

Mi posso affidare a te, che sia la nostra danza o il nostro riposo, ho sempre voluto muovere i miei passi sui tuoi palmi ruvidi di cicatrici. Il tuo è un nido di pelle e molli aghi di piracanta, debole difesa d'anima. Ed in primavera le tue spine hanno preso fuoco nei colori della fioritura, hanno divorato ogni minaccia e consumato velocemente le proprie radici. Sei tornato a me, all'origine del tuo terrore e al fulcro dei tuoi peccati. Hai ricondotto il tuo sentiero in cima al monte ed il prato non era più quello della tua giovinezza, ma spoglio ed inaridito, duro manto di sterpaglia e resti di quell'unico arbusto che tanto ti angosciava per la sua presenza solitaria. Ero io, ricordi? Quel mucchio di artigli legnosi sempre in fiore, ero io.
Ho dato i miei ultimi frutti alle tue mani nel giorno della prima neve e ho seppellito i semi dei tuoi amati e candidi petali, quei così precoci sussurri di vita che si destano nella loro ristretta bellezza al sorgere del nuovo anno. Lo faccio da sempre, li conservo e li pianto all'avvicinarsi dell'inverno, li curo e do loro attenzioni che un tempo non avresti riconosciuto come mie. Mi sono disteso nel corso degli anni e del groviglio che ero non è rimasto che un lungo, lunghissimo filo a tendersi fra i nostri cuori. È una via troppo facile, non credi? Basta scivolarvi sopra, lasciare che la gravità faccia il suo corso e giungere con il respiro corto alla fine della caduta, che si tratti di morbida terra o aguzzi canini di pietra io vorrò sempre camminarvi con la leggerezza che mi hai conferito.
Il sentiero si è fatto meno impervio, tu sei diventato sottile, sottile come il più semplice dei manoscritti, composto da quei vaghi termini inchiostrati a fatica sulla dura carta che si assottiglia ai lati, ove il mare delle lacrime del mondo ne lambisce le ali.
Sei quel bucaneve che cresce al limitare del parco, custode di muti giuramenti e ingannatore, esperto mentitore e freddo rifugio. Vorrei estirpare ogni tua diramazione dal terreno, farlo per permettere all'erba di prenderne il posto e coprire le tracce del tuo passaggio. Quando i suoi fili si solleveranno all'inizio della primavera di quella maschera che portavi non sarà rimasto altro se non la foto che tengo sulla scrivania, bianca come fiori di cotone e portavoce di dolci istanti. Portavi un completo color della schiuma del mare ed eri così tangibile, quasi che un salato sapore non stesse lambendo i nostri palati e le nostre menti avessero dimenticato l'epilogo della favola. L'Amore era mutato nell'oceano stesso, nelle onde che battono le rosee spiaggie dei corpi e negli abissi ove le sfumature più pallide si disperdono. La storia sembrava aver preso una strada differente e non saremmo finiti come l'ingenua figlia del mare, né avremmo riconosciuto i suoi lucenti fili rossi al di sotto dell'acqua. Niente ci avrebbe più tormentato e non saremmo stati trasformati in aspra schiuma.
All'inizio di dicembre Tokyo si era cristallizzata, ricoperta totalmente dalle felici previsioni in cui speravamo. E avevamo freddo, tanto e ci tenevamo stretti trattenendo il fiato. Ci separammo all'alba per ricongiungerci nel primo pomeriggio, l'attesa fu straziante.
Fummo tirati da una parte all'altra della mia agenzia, nella sala grande riuscimmo scorgere il maniacale ordine preteso non solo da Mina, ma persino da Kirishima. File interminabili di sedie e lunghi steli di rose dai petali di panna, dettagli che non potevano fare altro che ammagliare lo sguardo e farci sospirare. Un chiaro cammino ci avrebbe portato sotto l'attenzione degli invitati e ricorda il giorno, poiché la macchina ha battuto una virgola e non un punto alla fine del capitolo.
Comparimmo con un'aria imbambolata, stordita quasi, io distendevo le dita e sfregavo sull'anulare che già sentiva la mancanza della promessa che avevamo indossato per mesi prima di quel momento e che quella mattina ci era stata sottratta.
A tratti ciondolavo, incredulo di star muovendo i passi in quella grande stanza ormai irriconoscibile e stritolavo il braccio di mia madre stampandomi un sorriso teso che piano divenne sincero. Sorridevo per schernire le menzogne verso cui mi dirigevo e per sminuire il valore dell'atto, sapevo che le nostre promesse erano state scritte molto tempo addietro e ci eravamo detti di scambiarci le lettere, ma di non aprirle e di riporre fiducia nella mente e non nelle azioni. E mentre Eijiro mi sistemava il papillon di seta al collo pensavo al vicino istante in cui avremmo lasciato a bocca asciutta gli spettatori. Non pronunciammo alcuna parola, prendemmo un gran respiro e con la tensione nei muscoli porgemmo l'uno all'altro una fine busta di carta pregiata. Quella, così io affermo, fu la nostra virgola.
Chi mai potrebbe immaginare quali intime confessioni ci dedicammo?
Ma io sapevo che la tua era stata lasciata in bianco ed il motivo lo fraintesi più e più volte.
Dapprima fui trasportato dalla speranza e dal sollievo e al tocco delle nostre labbra lo scrosciante fiume di applausi mi assordò a tal punto che non riuscii a prestare orecchio alla risata che ti sfuggì. Vidi solo la curva felice sul tuo viso e non stetti a domandarmi se fosse per l'imbarazzo o per altro, vi risposi e più nulla mi impedì di cadere e precipitare sempre più giù, in quella profonda discesa che avevo risalito. Non sentii alcun dolore e non capii di esser rotolato nella tana del coniglio fin quando non ne toccai il fondo.
Ma quello era il giorno delle illusioni e pertanto ogni fatica era stata messa da parte e qualsiasi amaro sapore si era vestito di zucchero ed invitanti fragranze. Mi ero consegnato alla velleità del tuo dono e allo spergiuro che si era elegantemente adornato delle tue giade, fingendo e sottraendo la verità alla mia presa. Ho accolto le tue mani e con esse sono stato legato. E le tue azioni non sono mai state subdole come allora e mai tanto gentili, con questo ho strappato la copertina e ho svelato il volto pallido ed intonso del tuo affetto. Così bianco e così puro all'apparenza che da sciocco ne ho lasciato affiorare le più orribili menzogne.
Sciogliermi al suo cospetto fu il più felice dei miei sbagli. Ma di questo cuore che di tanta bellezza si nutre cosa è rimasto? Molto tempo fa era un fiore avvizzito ed è mutato incessantemente consumandosi, ormai l'ultima sottil foglia si è scurita e accartocciata. Mi hai donato un foglio privo di significato poiché non avevi più nulla da darmi. Ho creduto che fosse la più alta dimostrazione d'amore, poiché di meraviglia gli occhi si nutrono e tu eri i petali che avevo perso, la linfa che a stento scorreva in me e che in te fluiva veloce. Ma d'altronde è sempre stato mio il compito di narrare e in quelle poche volte in cui mi hai sottratto la penna sono stato dipinto come tuo affettuoso rimorso e tesoro. Vai talmente fiero della mia dedizione, non è vero? Per la tua sola vista, così ti avevo già confessato, avrei rinunciato alla vita.

Ma quale sacrificio può definirsi giusto quando si agisce nella cecità? Nessuna mappa mi è stata offerta, nessuna ha mai sfiorato le mie dita, né per esser ricevuta, né per esser donata. Mura di pietra e polverosi sentieri, il nostro labirinto celava qualcosa di più pericoloso di un mostro. Vagarvi e aver la certezza di esser braccati dalla creatura che vi si annida sarebbe stato un fato troppo semplice per noi ed ecco che è giunta l'incertezza ed il filo dell'anima si è disperso nel dedalo. Abbiamo capito che l'uscita, per noi, non è mai esistita.
Camminare e null'altro, questo il nostro compito, questa la nostra danza, questa la condanna e l'espiazione.
Nonostante le crepe del pavimento desidero andare avanti, amo e per questo motivo devo procedere, perché amare è la via, l'unica concessione che mi resta. Ma non è te che devo amare, né l'uomo consunto che sono, devo amare tutto e niente di quel che ancora mi appartiene e di quel che ho avuto.
Eri un tale miraggio quel giorno, al matrimonio, una fine concretizzazione della mia cupidigia che si sottraeva alla mia presa. All'inizio di dicembre hai finalmente conquistato la libertà che da troppo tempo inseguivi ed ero così felice che l'avessi trovata in me, così sollevato che un giuramento pomposo e di vaga solennità, spettacolo di sola apparenza, potesse disfarsi delle convenzioni ed esser l'angelo liberatore per noi, corpi e menti, semplici sorrisi d'amore.
Quel manto di cupi pensieri che ti portavi appresso si era dissolto al mio ultimo, ma non primo, bacio da amante. Sono diventato tuo marito, mi sono spogliato del beffardo viso che portavo e ho cercato di sentirmi diverso per scoprire di esser mutato nel profondo. Mi sono ritrovato molto distante dal punto di partenza e guardando indietro ho sentito la fatica della strada percorsa salire lungo le gambe.
Crescere, diventare completi è difficile, difficile per il peso che dobbiamo portare, per le memorie, per il cuore che batte in un posto talmente oscuro ed irraggiungibile, per il fatto di sentirlo sussurrare alla mente e l'indecisione della giovinezza, per i capitoli che si susseguono e si stratificano, per le pagine bianche che conserviamo e per quelle sbiadite, preziose memorie incomprese.

"Tlack", battito di vetro contro la ringhiera, vibrano le dita che reggono il bicchiere, vibra la mano, vibra il corpo. Il metallo si zittisce velocemente e la sua musica è una nota stonata nella melodia del traffico che giunge fin quassù.
Il ghiaccio si è dissolto nel brandy, assorbito completamente dall'alcol, un'umida patina è la traccia che ha lasciato e di tanto in tanto la presa sembra scivolare e stringo. Quanta inutile apprensione: il drink resta saldo nella mia mano e non lo lascio cadere, questo è il mio appiglio per la notte e per il ballo che mi sto preparando ad iniziare. Lo farò con solennità, è una promessa che ho pronunciato molto tempo fa, talmente indietro nei giorni che non ne rammento il gusto sulla punta della lingua. Ma io so che è stata pronunciata e mi atterrò ad essa e a nient'altro. Sorreggo il liquido ambrato con sicurezza, lo faccio roteare ed il gioco mi diverte, il polso non trema e poco più su, con le sue maniche arrotolate malamente, la camicia chiara si confonde con la pelle diafana che porto sotto allo stesso cielo che qualche settimana fa illuminava costellazioni di diversa fattezza, ma di simile bellezza. Quasi ti vedo nella sfocatura della vista, segno di stanchezza: volgi lo sguardo in alto, ad annusare l'aria della sera e raccogliere le avventure del giorno, solo tu riesci a rendere quel modo di arricciare il naso tanto meraviglioso. Le tue lentiggini riflettono i raggi della luna, sono geloso di questo spettacolo.
Sono come sempre e al contempo sono diverso, proprio come tu mi vorresti.
Il colletto è storto ed i primi bottoni slacciati, le bretelle pendono molli come rampicanti dai pantaloni ancora memori di una decente stiratura ed il nero delle scarpe è lucido, specchio imperfetto del mio corpo abbandonato sulla sedia fuori in balcone. Indosso le membra sfatte di un ordine a cui ho dedicato eccessiva attenzione. Datti un contegno. Me lo dico da solo, so che tutti quei confortanti sorrisi che conosco farebbero la fila per rimproverarmi e sono contento di essermi guadagnato il diritto di esser lasciato nella pace più totale e, tuttavia, meno gratificante di molte sue imitazioni. Eppure so che sarei amato in questo stato, che le mie sembianze lasciano intendere il contrario di quel che tengo sotto allo strato di vestiti umidi e sudore freddo, che sono desiderabile agli occhi del mondo che per me son verdi d'invidia, verdi come schegge di bottiglia e verdi come la foresta in cui il vento ha deciso di tacere prima della tempesta.
Non ti vedo da poco meno di un mese, mi chiedo quando avrai il coraggio di palesarti con quel tuo modo di fare frettoloso, i piedi scalzi e viso sfatto, stanco di tutto, persino di me.
Siamo di nuovo qui a girarci i pollici, non abbiamo di meglio da fare? La nostra è una vecchia abitudine e ne avverto le rigide morse risalire le caviglie. Le scaccio, so quanto sarebbe sbagliato cedervi. Cercarti o evitarti, cosa scelgo? Il dubbio è ormai pietra nel morbido letto del fiume dei pensieri.
Sono tornato intorpidito da notti insonni e viaggi tormentati ed il pavimento di casa non era solido come lo ricordavo, l'odore di stantio strisciava fino alle narici, c'era un brusio di sottofondo che sapevo provenire dalla televisione lasciata accesa e con un volume troppo basso per essere ascoltato.
Ho buttato la borsa sul divano e con una certa svogliatezza mi sono guardato attorno impaziente di vederti. Ci eravamo messi d'accordo e la tua voce, mentre la ricordavo uscire dal cellulare insieme a qualche interferenza, mi sembrava un giuramento che non avresti mai potuto infrangere.
"Avremo il weekend libero finalmente, torna a casa, io ti aspetto", eri stanco, ma felice di presentarmi una di quelle banali proposte tanto intrise di aspettative ed intenzioni non dette. Ti ho detto che ci sarei stato, proprio quella sera, prima del tramonto, e marzo si sarebbe aperto sul nostro boulevard di nostalgia e baci di bentornato.
Non eri in sala, né in cucina, in bagno ho trovato il rubinetto aperto e profumo di lavanda fresco, ma esageratamente forte, come se avessi fatto il bagno nel bagnoschiuma. Per qualche ragione sono tornato sui miei passi e non ho controllato in camera, mi ero ricordato della televisione e mi sono affrettato a frugare fra i cuscini del divano per cercare il telecomando. Non l'ho trovato, più cercavo e più mi perdevo nelle pieghe della stoffa, poi sollevai la testa e mi diedi dello stupido per non aver guardato nel posto più ovvio: il tavolino, dove un bicchiere d'acqua stava lì mezzo vuoto e sulla pila di libri e giornali troneggiava l'oggetto che cercavo.
Quello che stavo per compiere era un gesto naturale, eppure premere un tasto non mi era mai sembrato tanto difficile come allora. Ho allungato il braccio, il pollice già pronto a schiacciare il pulsante per zittire l'apparecchio elettronico, ed il mio corpo ha sussultato e si è immobilizzato di fronte allo schermo.
Il giornale, replica di quello del pomeriggio, stava andando in onda, la ragazza che stava leggendo le notizie aveva un'espressione tesa e un tailleur beije orribile. I suoi capelli poi...erano troppo ordinati, troppo curati, troppo neri, troppo lucenti e piacevoli alla vista, facevano a pugni con il viso pallido che le davano un aspetto cadaverico. Guardando in basso ho notato che la replica non risaliva alla giornata appena trascorsa, ma alla sera prima e che in verità si trattava di una registrazione. Eri stato tu a farla -chi altro se no?- ed il video era in loop da chissà quanto.
I titoli riportavano, con il loro anonimo font, notizie capaci di farmi raggelare il sangue nelle vene. Ricordo il tremore della mano mentre lasciavo cadere il telecomando e sentivo i sensi acuirsi, i brividi salire lungo le spalle nel voltarmi nuovamente verso il corridoio.
I pasti saltati mi risalivano in gola come a volermi far credere di aver qualcosa da poter rigettare, mi sono sentito male e mi sono preso infiniti secondi per obbligarmi a muovere un passo verso l'ultima porta sulla destra. Solo in quel momento ho notato il raschio nervoso di Ami vicino allo stipite e la sua folta coda che si dibatteva a destra e a sinistra lungo il pavimento. Miagolava piano e puntava le zampe sul parquet e pur riconoscendo la sua agitazione non mi sono affrettato a venirle incontro. Dal fondo di quel vicolo cieco alternava lo sguardo fra me e la maniglia della porta, quasi mi spronava a farmi avanti e quei suoi tondi ambrati non erano mai stati così pieni e ansiosi. Volevo e non volevo proseguire, ma ero diventato un automa in grado di pensare solo al fatto di aver una sola meta raggiungibile, perciò mi sono imposto di gettare un piede dietro l'altro e di non fermarmi. Passata la metà del corridoio, però, la nausea era diventata insopportabile e del silenzio e della calma che mi ero imposto non era rimasta che qualche briciola. Così mi buttai e corsi, abbassai la maniglia già preparato al trovarla bloccata ed iniziai a battere sul legno senza alcun pensiero preciso in testa. Non avevo nessuna certezza che ciò mi avrebbe garantito l'ingresso alla stanza, volevo solo aver la possibilità di sperare che mi sentissi.
<Deku! Apri la porta, aprila ti prego!> Quando non ho sentito risposta non mi sono scoraggiato, al contrario, ho preso a dare colpi sempre più forti, fin quando la mano non ha preso a dolermi ho insistito nel chiamarti. A questo modo ho potuto rilassarmi quel che bastava per trovare il come venirti in contro. Ho appoggiato il palmo sulla porta, vi ho schiacciato la fronte e ho inspirato, poi sospirato. Lasciarsi prendere dall'ansia non era la migliore delle idee.
<Non puoi restare solo anche oggi, non puoi farlo di nuovo> ho dato un ultimo colpetto e ho atteso, non so per quanto. Ad un certo punto i minuti sembravano secondi e quando mi sono ritrovato seduto, con la schiena contro la porta ed Ami ormai addormentata al mio fianco che si beava delle mie carezze, il sole era tramontato ed il mio cuore aveva capito che avrei dovuto rispettare il tuo volere. Essere tuo marito mi da dei privilegi, ma quello di invadere il tuo spazio o anche solo pensare di farlo non rientra tra questi. Potevo credere di aver ragione nel dirti di non ignorarmi, tuttavia non mi sono permesso di andare oltre al semplice pensiero e questo mi ha permesso di avvicinarmi.
<Deku, vado a far qualcosa per cena, te lo lascio qui davanti su un vassoio. Vedrai, sarà uno dei piatti migliori che abbia cucinato. Preparo anche quel tè che ti piace tanto e ti lascerò un biglietto con scritto di aprire ad Ami. Se non me, lascia entrare lei> avevo riconquistato il mio solito tono, ma per qualche strano motivo mentre mi stavo preparando ad alzarmi un fruscio oltre la superficie che ci divideva mi fece intuire che tu fossi più vicino di quanto pensassi.
<Va bene così?> infine avevo ritrovato persino la gentilezza e l'apprensione giuste per parlarti. Ho chinato la testa e sorriso. Vedevo la tua ombra tremare oltre la porta. Anche la mia si stava dimenando, anima incauta, e premeva affinché mi rifugiassi come te nell'intimità del dolore. Eppure l'idea non mi sfiorava abbastanza perché vi cedessi e ho capito che per la prima volta, anche se avevi bisogno del tuo spazio, potevo condividere con te il peso che piano stava salendo fino al cuore.
<Sì> la tua risposta era concisa, tremante, racchiudeva molto di quel che volevi dirmi e che trattenevi in gola. Mi stavo sollevando con fare stanco e sapevo che al di là di quel banale divisorio stava un uomo tornato ragazzo, che come me fissava il nulla e sentiva le guance umide perché il simbolo della pace, il nostro, si era spento.
Il tono piatto di quella donna echeggiava nell'appartamento, ripeteva il servizio e più si perpetrava la sua cantilena, più le frasi perdevano di significato e poche erano le parole che riuscivano ad esser comprese.

-È un'infelice notizia quella che sto per comunicarvi. Questa sera, alle ore dieci, l'ex-hero Allmight, ormai noto come Toshinori Yagi, è stato trasportato d'urgenza in ospedale in seguito ad un malessere. Gli anni di servizio lo hanno segnato e svariati medici avevano esposto le proprie preoccupazioni riguardo alle sue condizioni. Non dimentichiamo il suo grande sostenitore Nighteye, primo fra tutti ad aver spronato l'hero a ravvedersi riguardo alla propria salute. Noi tutti sappiamo con quanto impegno e dedizione Allmight non abbia mai esitato a difendere non solo Tokyo, ma innumerevoli altre città, e molte sono le persone a lui grate.
Come stavo dicendo, alle ore dieci Toshinori Yagi è arrivato in ospedale e nonostante l'impegno e i tesi minuti di rianimazione, alle ore undici è stata dichiarata l'ora del decesso.
La rete nazionale, a fine servizio, interromperà ogni trasmissione per osservare un minuto di silenzio-

Sono andato solo io al funerale e se mi domandassi di raccontartelo non saprei che dirti. Era triste, scuro, polveroso. Non ti dovevi preoccupare, come non devi farlo ora che siamo quasi alla fine di marzo. Io sono con te, resto, aspetto e rispetto il tuo modo di affrontare la notizia. Ho continuato a portarti caldi e saporiti pasti per settimane e non ho mai avuto occasione di constatare quanto male potessi stare. Viviamo nella stessa casa, ma è esageratamente semplice evitarsi e tu lo sai fare davvero bene.
Ho svuotato il bicchiere, ho acceso una sigaretta e mi chiedo ancora tra quanto noterai le mie braccia aperte e pronte ad accoglierti e non più chiuse come un tempo. Forse le vedi, quelle candide ali che ti offro, ma temi di rovinarle con il solo sfiorarle. Te l'ho detto più e più volte: non ho paura di questo.
Il tabacco si consuma velocemente, l'agitazione ed il nervosismo sono due cose che non sono riuscito a scollarmi di dosso e sono già alla seconda sigaretta, incapace di trovare distrazione migliore. Mi osservo i piedi e la pelle nera delle scarpe mi inizia a fare fastidio, con non poco sforzo riesco a sfilarmele senza dovermi chinare e le spingo via. Dove andranno, andranno e mi preoccuperò più tardi di raccoglierle.
Mi rimetto comodo e con la testa ormai svuotata mi appresto ad accostare le labbra al filtro.
Accidenti a te e accidenti alla vita che non può fare altro che proseguire. Avrei tanto voluto vederti felice al mio ritorno, invece sono qui a pregare di non restare solo ancora per molto, di non dover piangere vicino, ma lontano da te.
Siamo forti, Deku, ma non così forti per stare come stiamo.
<K-Kacchan?> la mia schiena si raddrizza all'istante, per poco penso di aver sentito male, ma quando vedo la tua figura spuntare dalla porta finestra mi convinco del contrario. Che dire? Ecco il tuo viso sfatto, proprio come da previsioni. Ma non ho voglia di scherzare, come non ho voglia di alzarmi da quanto mi sento stanco e di questo do la colpa alle notti passate sul divano, troppo scomodo per dormirci.
Ti fai avanti, scalzo e con il pigiama stropicciato, i capelli aggrovigliati, viso magro e occhiaie ben segnate. Sei pallido alla luce delle stelle ed io non ho discorsi confortanti da rivolgerti. Devo farti capire che pur restando seduto ti sono accanto, che non è importante avermi nel corpo, ma nella mente che corre verso di te e che ti chiama nella calma che ha investito la città.
Mi allungo per afferrare la bottiglia che ho posato a terra e riempio il bicchiere. Te lo porgo come a dire "Non ne ho un altro, ma ho già fatto troppi brindisi. Tocca a te". Lo accetti e ti trascini fino alla ringhiera. Ti appoggi e osservi il mio misero dono. Non credo che ti chieda che tipo di alcolico sia mentre lo mandi giù ed io non sto a dirti di andarci piano. Il tuo stomaco sarà sotto sopra, così mi dico anche se spero che i miei sforzi per nutrirti non siano stati vani.
<Non mi ha detto nulla, sai? Credo che non volesse darmi brutte notizie ed ogni volta che l'ho visto, persino al matrimonio, mi sorrideva>.
<Sorrideva?> chiedo e se me lo domandassi non saprei dirti il motivo, ma al momento non riesco a ricordare l'ultima volta che ho scambiato due parole con lui, né tantomeno mi riesce facile raffigurarmi il suo volto felice e non serioso.
<Sì, sorrideva>.

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