/32/ Fili d'argento, fili di ricordi
È entrata nella stanza a passo svelto, saltellante quasi, ha gettato la giacca sulla sedia e si è buttata sul divano dell'ufficio lanciando le gambe in aria prima di ricadere molle sull'imbottitura in pelle. Una bufera, come al solito.
Non ho alzato la testa, mi è bastato sentire il suo passo leggero, poi pesante e seguirla con la coda dell'occhio per rassicurarmi che fosse lei e che fosse arrivata straordinariamente in anticipo rispetto all'orario pattuito. Non ha detto nulla, non un saluto, credo che aspetti sia io a parlare e sarei tentato di partecipare a questo gioco del silenzio se non fosse che quel ticchettio delle suole delle sue scarpe, che non smette di muovere,sta diventando insopportabile.
Finisco di segnare un paio di cose in agenda, rigiro un'ultima volta i fogli pinzati che ho fra le mani e mentre sto ancora scrivendo mi decido ad aprir bocca.
<Bentornata> né felice, né scocciato, un semplice tono serioso. Chissà, magari riesco ad infastidirla così.
Mi raddrizzo e la schiena mi ringrazia e duole per esser stata curvata tutta la mattina.
<Com'è andato il tirocinio?> azzardo a chiedere aspettandomi nulla più che uno sbuffo. Invece mi stupisce, per quanto i suoi modi di fare siano scocciati. Le sue braccia vengono slanciate verso il soffitto in un esaustivo segno di esasperazione, poi le ricadono addosso e le dita prendono a rigirare un laccio del costume color turchese.
<Noioso, ancora mi chiedo perché tu non mi abbia accettato alla tua agenzia> si lamenta rivangando offese che io avevo sepolto ormai più di tre anni fa.
<Non te l'ho detto?>.
Scuote la testa senza guardarmi, ora i lacci li tira e li tende. Sospiro pentendomi già di quel che sto per dire.
Mi do una spinta allontanando la sedia dalla scrivania, mi alzo e mi sistemo la giacca del completo sulle spalle prima di avvicinarmi al divanetto e alzare un sopracciglio nel fissarla dall'alto al basso. Non è cambiata, anzi,ha sempre quell'aria infantile e matura al contempo.
<Come mai tanto elegante? Oggi niente ronda?> ricambia lo sguardo interrogativo e sorride scherzosamente.
<No, oggi solo riunioni e fastidiose visite> mi limito a spiegarle e lei fa finta di non cogliere l'allusione.
Si fa seria tutto d'un tratto, quel suo viso roseo si distende, abbandonata l'espressione allegra, e le iridi vermiglie indagano sulla mia figura.
A che pensi? Avanti, so che hai miriadi di domande da pormi.
<Allora non me lo dici il motivo?>. Eccola, subdola ragazza, ha una lingua tagliente che mi ricorda qualcuno, una persona tanto gentile e premurosa quanto schietta e determinata. Ha preso da te, che ci posso fare? Ed in fondo rivedo in lei anche un po' del mio carattere, sia negli aspetti positivi che negativi.
Mi passo il palmo sul volto e mi allontano per accostarmi alle vetrate e gettare un'occhiata alla città in piena ora di punta, permeata da un via vai ininterrotto di macchine e persone frettolose nella loro pausa pranzo. Odio quest'orario, è il peggiore per uscire e controllare la situazione; non nego, infatti, di cercare sempre di evitare che il mio turno sia segnato oltre il mezzodì. Preferisco la notte, lo sai, è più intrigante, ma allo stesso tempo non sopporto il dover rinunciare alla tua stretta; a causa di questo pago le conseguenze del mio maniacale impegno lavorativo nei giorni di pausa e chi mai potrebbe riuscire a fuggirti una volta messo piede oltre l'uscio e annunciato l'inizio del mio breve time out?
Rumore di tessuto, di frizione e strano fruscio acuto: si è alzata.
Questa volta quasi non la sento avvicinarsi, ma avverto la sua presenza al mio fianco e come mi giro, giusto un poco, per guardarla, ogni traccia di fanciullezza che credevo di aver visto scompare.
Quelle labbra sottili sono mai state tanto pressate? E quella chioma, splendente come perle al sole e dai dispersi riflessi argentati, quando ha deciso di tagliarla e rinunciare all'ammagliante e seducente bellezza che le conferiva? Non più docile, ora potrebbe fare cadere ai suoi piedi chiunque, non un uomo potrebbe restare indifferente a quei suoi occhi taglienti e a quel taglio che arriva a sfiorar le spalle mettendo perfettamente in mostra il collo sottile ed il mento affusolato.
Se la potessi vedere in questo preciso momento, oh, quanto ne saresti fiero. Ha un portamento talmente dignitoso e talmente enigmatico in quei piccoli gesti con cui si scosta una ciocca color delle stelle dietro al corno che adorna la fronte liscia che fatico ad immaginare che qualche ragazzo non si sia invaghito di lei e che lei lo abbia rifiutato con fare sbrigativo e falsamente pudico.
<Non ti avrei potuto dare ciò di cui avevi bisogno. Dovevo tenerti lontana, perdonami per questo, ma dovevo. Non avevo il diritto di trattenerti e farti restare, dirti di non accettare l'offerta di Toshinori e consigliarti di non andare in America, sarebbe stato egoista. Sarebbe stato solo un modo per tarparti le ali e proibirti di maturare autonomamente. La verità è che me lo ricordi tanto, troppo a dirla tutta e averti accanto mi avrebbe ferito più che lasciarti andare>. Basterà? Sarà sufficiente come spiegazione? Sono stato davvero onesto con lei?
<Eri>. La chiamo, non accenna a distogliere lo sguardo dal panorama cittadino. Lo sapevo: vuole di più.
<Mirio aveva ragione a dirlo: non sono io a doverti spianare la strada, questa è una cosa che devi fare tu e sono stato felice dei successi che hai ottenuto all'estero>.
<Potevo essere più utile qui, a casa> dice e calca la voce sull'ultimo termine; deglutisco a vuoto.
Ti prego, non dirlo. Lo penso con insistenza, ma non seguo il mio stesso consiglio.
<E perché? Credi che un'altra faccia triste sarebbe stata d'aiuto a me o addirittura a Deku? No, mi dispiace dirtelo, ma quello che noi tutti abbiamo dovuto passare, che io ho affrontato nei modi più sbagliati o più giusti...chi può dirlo ormai? - prendo una pausa ed infilo le mani nei pantaloni - Quel che è stato, Eri, non avresti potuto sopportarlo. Sei giovane e già la tua vita è tormentata, è un bene che ti sia presa del tempo per maturare. E poi, che sia impazzito per ammetterlo, io e lui ti abbiamo amato e ti avremmo amato troppo se fossi rimasta>.
Finalmente riesco a voltarmi verso di lei, per un confronto, non lo so, o per carpire appieno la sua reazione. È scontata, ma devo dire che la attendevo da tanto.
Arriva con un profumo diverso da quel che rammentavo, un profumo di nuovo e un vago sentore di nostalgia, di acerbo o di appena maturo, una nota di vaniglia a bilanciare il tutto. Ho aperto le braccia prima che facesse il primo passo, già sapevo che non avrebbe resistito.
È cresciuta, me ne rendo conto nel concreto mentre mi circonda il busto e schiaccia la testa sulla mia camicia.
<Non una chiamata> vorrebbe essere un rimprovero, ma colgo una certa rassegnata comprensione nella sua voce. E anche questa è diventata grande, ci crederesti? Ora accarezza le parole con quella profondità e quella leggiadria che solo una crisalide in procinto di schiudersi potrebbe avere.
<Nemmeno tu> e chino il capo, è addirittura alta a sufficienza perché riesca a sfiorarla con le labbra per un bacio di cui non potrà accorgersi, ma che io le dedicherò con rispetto e malinconia per gli anni che l'hanno tenuta lontana da questo posto costantemente segnato da turbinii di ricordi.
<Avrei voluto che mi accoglieste> temo che si sia lasciata andare al flusso dei pensieri, vorrei fermarla, eppure qualcosa mi dice di non farlo.
<Non so se sarebbe potuto cambiare qualcosa, ma sareste potuti essere voi la mia casa>.
Che il mio cuore perda l'ennesimo battito: è disarmante proprio come avevo immaginato, se non peggio.
<Chiamavo Aizawa ogni giorno, anche solo per sentirmi ripetere le stesse cose>.
<Lo so>.
<Ma non ho mai provato a chiamare te> lascia in sospeso la frase di cui io so il continuo: tanto non avresti risposto. Sono facile da leggere, questa è una cosa che sia tu che lei mi potreste dire. E pensare che è stata con noi, nelle nostre vite, per pochi anni e poi ha preso a far parte della mia solamente. Che peccato che tu non abbia visto il suo primo giorno alla UA, il suo diploma, la sua prima missione, il suo esame per la licenza provvisoria, il suo affanno per farsi spazio nel mondo, la sua partenza ed il come io non abbia voluto augurarle buona fortuna tanto ero occupato ad autocommiserarmi. Ci sono così tanti eventi che non ti ho raccontato, forse quando tornerò all'appartamento questa sera ti regalerò un po' di quelle rimembranze di cui non sei mai sazio. Non ho pensato a lei, ma a te, per tutti questi lunghi anni ho pensato a te e a nient'altro e mi chiedo se mi sia scostato da quest'abitudine come credo o se invece mi stia illudendo ed in vero stia ancora rimestando fra i vizi passati.
Fin da subito, non appena una ragazzina di circa dieci anni si è fatta strada nel nostro appartamento fresco di acquisto, sapevo che sarebbe stata un nostro punto d'incontro. Per quanto Aizawa, gli altri professori e Mirio se ne occupassero io vedevo il tuo sguardo seguirla e percepivo la tua apprensione con la tua determinazione riflettersi in lei, piccola, importante vita che avevi contribuito a salvare.
Venne solo una volta da noi, ma bastò a permettere che i suoi piedi scalzi marcassero il terreno e lasciassero tracce che solo oggi sembrano rivelarsi profonde.
Molto di ciò che ci è successo riporta alla ragazza che sto stringendo e che a sua volta riporta a te, fugace immagine che si imprime nella mente con il tuo viso addormentato che ho lasciato all'alba, già ansioso di tornare ad accarezzarlo. Ti vedo fra i suoi fili argentati, fra le mie dita che li stringono delicatamente, nell'anello che porto e che per poco scompare nella sua chioma.
Ci separiamo al momento giusto, senza che il contatto sia prolungato eccessivamente, sappiamo entrambi che il resto del ritardato affetto che aleggia nell'aria è destinato ad un uomo dai voluminosi ricci verdi e dall'ammaliante sorriso che di sicuro le dedicherà quando la vedrà. Quanta felicità ho colto nella tua espressione quando te ne ho parlato, tanta che impiegai lunghi secondi a capacitarmi di come ogni tuo tratto risplendesse di una vitalità che per molto ho ritenuto persa.
Quella mattina di tre settimane fa, fra fragole e pancake, ti ho fatto la richiesta più ardua che potessi formulare.
<Fallo di nuovo, fallo con me, proprio come ci siamo promessi>.
E ti ho detto di non preoccuparti, di non crearti aspettative, ma di avere speranza e di moderarla, di non rifiutare le mie parole, di lasciare che restassero a girare attorno alla tua testa prima di depositarsi con leggerezza, pronte ad essere soppesate. Mi hai dato ascolto, non sarò mai grato abbastanza per questo.
<Ho parlato con il preside Nezu> mi informa come se già non lo sapessi.
<Mi aveva pagato il biglietto aereo senza sapere se sarei tornata. Lo ha dato per scontato ed ha avuto ragione nel farlo. Sai? Sono contenta che alla fine abbiate bisogno di aiuto, che abbiate bisogno di me> si porta le mani a stringere i fianchi incrociando le braccia, strofina il tessuto tecnico del costume, proprio come faceva una volta con l'uniforme scolastica. Non la sentiva sua, ricordo che lo diceva, non riusciva a credere di poterla indossare. Chissà se prova lo stesso con la divisa da eroina che, più che un completo giacca-gonna-camicia, le è stata cucita addosso per esser portata con maggior sicurezza. Siamo persone come tutte le altre, eppure c'è così tanto da dire su di me, su di te, su Eijiro, su quella testa dura di Shouto, su quel che siamo stati e su quel che saremo. Un giorno ci addormenteremo e penseremo di aver vissuto di illusioni o di terribili verità ed in un caso o nell'altro saremo inermi di fronte all'ineluttabilità dell'evento.
E una sera di ere ed ere fa, in uno scambio di sguardi antico più di quei folli ragionamenti e racconti che tanto amo e che mi hanno aiutato a sentirti vicino fra le righe d'inchiostro di ogni nuovo capitolo, ci siamo giurati di non voltarci e affondare i piedi nel rimorso. Abbiamo fallito, ma ammettiamolo con orgoglio, poiché è negli errori che ritroviamo finalmente noi stessi. Siamo stati persi, come tanti nei vicoli di Tokyo. "Non siamo poi così diversi da loro", Mina aveva ragione. Che parole sciocche, che parole profonde e superficiali, parole che meriterebbero di essere urlate per esser comprese.
Eri desidera che il tempo si fermi, lo capisco dalle unghie affondate nelle costole, dal come sussulta quando il suono di un clacson ci distrae dal labirinto in cui ci eravamo persi, quell'intricata mappa che si interpone fra noi ed il vetro, che ci impedisce di vedere il mondo con semplicità. L'ho già detto, non è così? Lei ci assomiglia, pur non essendo cresciuta con noi, è fatta delle nostre stesse insicurezze.
Come me, lei aspetta l'alba e non appena i raggi spuntano dalla finestra la immagino pregare affinché il tramonto giunga al più presto, già sfinita dal giorno appena incominciato. Lei sa, non importa cosa, lei sa perché è stata distante, perché si è lasciata alle spalle un posto a cui ha continuato a pensare e a cui ha fatto ritorno con il cuore in gola e che ha ritenuto estraneo così a lungo che ora che vi ha rimesso piede lo riconosce come sua terra natia.
O magari sono io che sto travisando il tutto e sto costruendo ponti che non esistono; non importa, il suo mesto sorriso, tornato a darle luminosità, mi basta per rilassarmi.
<Mi tratta ancora come se fossi a scuola, lo fa con Nejiri, con Suneater, immagino che -
<Sì, lo fa> confermo interrompendola. Il piccoletto ha un debole per chi, come noi, ha vissuto sulla pelle le conseguenze delle malefatte dell'Unione e, anche se crede di essere discreto, so che di tanto in tanto telefona in agenzia con la scusa di un invito formale a scopo didattico. Ma lo sappiamo: vuole solo scambiare due parole con noi, bere un tè, mostrare come si sia ammorbidito e complimentarsi per gli ultimi successi. I professori non sono diversi, a ripensarci Aizawa è stato uno dei primi a raggiungerci in ospedale dopo il tuo ricovero. Rammento i suoi occhi arrossati come sempre, ma secchi più del solito, ed il fatto che abbia avuto tanta accortezza da non avvicinarsi al sottoscritto. No, lui aveva capito di dover mantenere le distanze, che stare in silenzio fosse la cosa migliore, forse perché anche lui sapeva cosa volesse dire perdere persone amate, amici, conoscenti, non faceva differenza, lui poteva vantarsi di conoscermi il giusto per farmi capire di non voler superare alcun limite e che sapeva di non poter fare nulla se non dedicarmi un sospiro mentre prendeva posto a due sedie di distanza da me nella sala d'attesa. Ora che me lo figuro riesco quasi a sentire il forte odore di disinfettante riempirmi le narici, a vedere le sue consumate calzature nere picchiettare sul pavimento bianco. Strano, mi dico, solo adesso mi rendo conto che lui fu anche fra gli ultimi ad andarsene a tarda serata, quando eri uscito dalla sala operatoria ed il tuo letto era passato sotto ai miei occhi come un fantasma che correva negli asettici corridoi. Non sei tu. L'ho sussurrato nella solitudine cercando di convincermi che qualche dottore sarebbe arrivato a dirmi che ti avevano portato in una stanza al terzo piano, fuori dalla terapia intensiva, e per un istante me ne illusi. Fu quando mi voltai verso mia madre che la realtà mi crollò addosso: era in piedi vicino alle macchinette, con l'ennesimo caffè stretto in mano, un braccio a cingere la vita, denti che torturavano il labbro inferiore mentre annuiva al mio ex-professore. Quali consigli le stava dando? Come le stava dicendo di confortarmi? E stava parlando di me o di te? Si stava solo rammaricando per la situazione o stava cercando di proteggere quel che ancora restava del mio orgoglio? Non lo seppi mai, scomparve senza che io lo notassi dopo essersi assicurato che tutti i nostri amici fossero tornati a casa ed io mi fossi ritrovato solo con te. Mia madre mi diede una lunga carezza, timida, che parve scottare scendendo dalla nuca fino a metà schiena e persino lei decise di non esser presente quella notte. La prima. Come scordarla? Fu terribile.
Dapprima la quiete si propagò in ogni angolo dell'immenso edificio e la stanchezza venne a bussare con prepotenza alla mia porta, poi venne l'insonnia, maledetto intruso, che mi condannò ad ore di tormenti che da lì in avanti mi avrebbero tenuto sveglio al tuo fianco. Mi rifiutai di stringerti la mano per minuti che parvero ore, avevo il terrore che le notizie riportatemi fossero sbagliate e preferivo restare con il fatidico dubbio: se ti toccassi, saresti tiepido come nei sonni d'inverno in cui ci stringiamo sotto alle lenzuola o saresti gelido come se misteriosi spettri avessero iniziato ad arrampicarsi sulla tua pelle, pronti a ghermirti l'animo a cui ti ho visto rinunciare? Che la vita e la morte ti appartengano, non voglio sapere quale delle due sia la tua custode.
Quando raccolsi il coraggio per afferrarti le dita in uno scatto dettato dall'esasperazione scoprii di non volermene separare, poiché il loro calore mi rincuorò come mai sarei riuscito ad immaginare.
Così la prima notte non piansi, non lo feci nemmeno alla seconda, né alla terza, mi riversai in un mare di lacrime solo alla quarta, quando fui costretto a tornare al nostro appartamento in cui avevamo vissuto meno di un anno ed in cui non ricordavo di aver trascorso un solo giorno senza di te.
Non fu come Il giorno delle ceneri, no, fu di gran lunga più straziante. Non ti avevo davanti agli occhi, non credevo più di averti perduto irreversibilmente, nella mia testa non eri più sporco di polvere e di sangue, eri vestito di pallidi tessuti e la tua carnagione si sposava con il candore del cuscino dove i tuoi ricci si perdevano. Dormivi, respiravi, ma non per me.
Mi svuotai, credetti di star piangendo talmente tanto che il pavimento si sarebbe allagato e da accartocciato che ero, in corridoio, davanti all'ingresso della nostra camera, sarei stato presto sommerso dalla pioggia dello sconforto.
Non toccai le tue cose per settimane, mi limitai a spolverarle e a lasciarle lì, dove tu le avevi messe, come se potessi vederti ricomparire per riordinare la poca confusione che la tua pila di manga creava sul tuo comodino. Non riuscisti mai a riporli al loro posto, fui io a rimetterli sullo scaffale della libreria dopo averli gettati a terra non so più per quale assurdo motivo. Quelle stanze sono state così deserte, mute compagne di veglie capaci di prosciugarmi dalla più flebile traccia di energia.
Mi sono ritrovato a desiderare di dimenticarti, di non averti amato e di non esser finito per chiudere quel che mi era rimasto di te nelle mura della nostra casa, con me. Col senno di poi mi sono scoperto felice di aver sofferto tanto.
<Dobbiamo farlo> dico e dal mio tono traspare una sicurezza che ho riacquistato con grande sforzo.
Eri allarga il sorriso, non dà altra risposta.
Uno scatto, due scatti, capisco che la porta è stata aperta per la seconda volta. Ci voltiamo entrambi ed un viso scarno fa capolino oltre l'uscio, il solito completo beije gessato largo a rivestire la sua esile figura.
<Sono in ritardo?>
<No> la ragazza al mio fianco si illumina, colta da un moto di allegria nel rivedere uno dei suoi mentori. L'uomo ricambia lo sguardo gioioso e, dopo aver sigillato l'ufficio, prende posto accomodandosi sul divano. Sembra stanco, non me ne stupisco, mi ritrovo nel suo ricadere leggero sulla seduta e nel suo intrecciare le dita tozze e segnate dall'età.
<Molto bene, allora cominciamo>.
Siamo arrivati ad un punto cruciale, spero di aver stuzzicato il vostro interesse. Il discorso si farà intricato, farò del mio meglio per rendervi le cose chiare.
Nel frattempo potete espormi le vostre impressioni; credete che abbia reso a dovere il personaggio di Eri? Ho pensato tanto al suo inserimento e da molti capitoli pensavo a come rendere il suo rapporto con Katsuki.
Non so il perché, ma mi ha lasciato una certa malinconia la revisione di questa parte.
P. S. : ho corretto alcuni errori presenti nello scorso capitolo, purtroppo l'avevo ricontrollato ad un'ora davvero tarda.
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