La rinascita - parte I
In un paese dell'Est viveva un potente signore temuto e rispettato da tutti. L'uomo - di nobili origini fin dai tempi più antichi - era sposato con una bellissima donna, la quale gli diede, poco dopo il loro matrimonio, un bel pargolo maschio di nome Nathan. La donna però si ammalò di una rara malattia che la condusse a morte molto precocemente. A nulla servirono le risorse monetarie illimitate del nobile per salvarla.
Dopo la dipartita della sua sposa, egli divenne ossessionato dalla ricerca della vita eterna. Sacrificò la sua esistenza e quella del suo primogenito alla scienza, sottoponendolo a macabri esperimenti. Quella di non vedere mai crescere suo figlio, divenne la sua missione. L'illusione di immortalità che non era riuscito a dare alla moglie, la sua ossessione. Dapprima fasciò piedi e testa del bambino con bande elastiche per impedirne lo sviluppo, ma col passare degli anni - non potendo contrastare il naturale sviluppo - cominciò ad asportare chirurgicamente e ricostruire pezzi del suo scheletro, limando e amputando a suo piacimento. Riuscì a sviluppare tecnologie avanzatissime che supportavano il suo scopo.
Dopo anni di studi stabilizzò l'età del figlio a circa dieci anni.
"Fa schifo!!"
Jag teneva premuto il tasto 'canc' della tastiera mentre dondolava nervosamente avanti e indietro.
"Fa schifo, fa schifo, fa schifo!!" ripeteva convulsamente.
Si alzò, camminava nervosamente con la fronte sudata gesticolando con le mani. "Devo sapere! Devo vedere!"
Si rimise seduto e minimizzò la finestra del programma di videoscrittura. Apparve una schermata, divisa in quattro, di stanze riprese da videocamere.
Jag scorreva con la freccia altre schermate, praticamente aveva una visione di ogni singolo angolo degli studi.
"Dov'è Fade? Dove sono Jess e Sushi? E gli inservienti?" chiedeva illogicamente scorrendo le finestre.
Il controllo era la sua ossessione e aveva a disposizione una capillare rete di spie, telecamere e microfoni atte a soddisfarla. Così scopriva le cose nel tempo stesso in cui accadevano, così aveva notato che un componente della band che idolatrava aveva lanciato in rete un messaggio criptico, così aveva rintracciato, in un punto qualsiasi del pianeta, una ragazza senza famiglia né amici che si chiamasse Fade.
La sua grande disposizione monetaria gli permetteva di soddisfare tutti i suoi capricci e, cresciuto dentro un laboratorio, aveva imparato ad applicare gli studi del padre. Appena in grado, aveva continuato a sperimentare da solo, ingaggiando uno staff di medici ben pagato per tenere la bocca chiusa.
Slacciò il bottone che teneva il colletto del suo camice ben aderente al collo, un gesto che non faceva mai in pubblico, e passò le dita da una clavicola all'altra sfiorando delle sottili cicatrici che le percorrevano: doveva tornare a casa, doveva sottoporsi a esami clinici che confermassero che stava procedendo tutto bene. Ecco perché si apprestava a partire. Avrebbe approfittato del tour della band per ritornare da loro in forma smagliante.
Chiuse il laptop e lo mise sottobraccio, le sue cose erano già state caricate in macchina. Mise un cartellino 'Torno subito' sulla porta e lasciò la stanza. Sul tavolo lasciò una scatola per Fade.
La ragazza ritornò da lui solo dopo qualche giorno.
Bussò alla porta ma non ebbe risposta, quindi se ne andò.
Poco dopo ritornò sui suoi passi. Il cartello appeso la persuase ad aspettare, ma passati parecchi minuti provò a ribussare, poi abbassò la maniglia della porta che si aprì.
La stanza dentro era buia, tanto che Fade vi entrò con circospetto. Portò istintivamente la mano dietro la schiena per afferrare la sua arma, rammaricandosi quando le sue dita strinsero il vuoto. Quando accese la luce la colse una camera disabitata, vestita solo di mille particolari. Controllò che l'imprevedibile inquilino non fosse rannicchiato in qualche angolo a fare qualcosa di strano, ma fu tutto inutile. Non c'era nessuno. Si avvicinò alla scatola posta sul tavolo, era una comune scatola da scarpe, di una marca sconosciuta, probabilmente straniera.
Fade l'aprì e sentì cedere le gambe. Dentro, in delle buste di plastica trasparente, c'erano il coltello e la cinghia che le erano stati sequestrati dalla polizia.
"Ma come ha fatto?" chiese ad alta voce e cominciò a cercare un eventuale biglietto o messaggio. Ribaltò la scatola ma ne uscirono fuori solo schede magnetiche: i passepartout di tutte le stanze degli studi. Li ignorò, concentrandosi solo sulla sua arma ritrovata. Si tolse la maglietta in fretta e furia e agganciò la cinghia a tracolla; nella custodia ricollocò il suo coltello. Sentiva di essersi ricongiunta con se stessa, aveva voglia di urlarlo al mondo, di ringraziare quello strampalato ragazzino come non aveva mai fatto prima. Ma era sola. Per la prima volta si sentì davvero sola.
Andò a cercarlo per gli studi. Ispezionò qualsiasi angolo e chiese a tutti gli inservienti, i quali le risposero un po' intimoriti nel vedere una persona solitamente schiva e cupa, comportarsi in maniera così euforica.
Non trovandolo, andò a cercarlo anche fuori. Si diresse fino al negozio di kebab di Ibrahim. Rimase stupefatta nel vedere la serranda di ferro abbassata e sbarrata, come se non vi fosse stato un negozio aperto da tempo. Cercò qualche indizio girando intorno l'edificio per scovare qualche finestra in cui spiare, ma niente da fare: non c'era niente da cui poter iniziare una deduzione.
Delusa tornò nel basamento e si chiuse in camera. Prese il suo coltello e si stese sul letto a osservarlo. Il manico di legno consumato e scurito dall'acqua faceva da sostegno alla lama, leggermente tozza. Fade muoveva l'oggetto intorno osservando le cose che rifletteva, poi rispecchiò le sue iridi nell'acciaio.
Gli occhi della ragazza erano di un banale marrone, circondati da leggere occhiaie, provò ad immaginare cosa potesse provare Nef nel guardarli, poi si arrese alla stupidità della sua domanda.
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