8.
Berlino, Giugno 1932
L'inusuale foga con cui, tre alla volta, saltava i gradini della scalinata monumentale, lì nella sala comune dell'Adlon, rischiava di farlo inciampare da un momento all'altro negli elaborati tappeti amaranto che attutivano ogni passo. Ma a Leo poco importava, tutto eccitato dalle sue macchinazioni: doveva assolutamente agire prima che l'inglese arrivasse, coglierlo al varco e fargli rimpiangere ogni smacco inflitto fino a quel giorno, e poi, quando finalmente Charlie avrebbe strisciato pur di chiedere perdono, ecco, solo allora graziarlo.
Che dolce dessert sarebbe stato, pensò infine atterrando tra un attore belloccio dalla giacca bianca ornata di un'anemone scarlatta e la sua graziosa compagna dalla voce fastidiosa, querula. Sgusciò tra i suoi attendenti dalla pelle brunita, inseguito da proteste fiaccate da un terribile accento straniero, e trovò il tempo solo per riposare qualche secondo al bancone d'alabastro del lounge bar, per fiaccare ogni remora rimasta in corpo.
Eppure ormai da sei minuti continuava a rimestare quelle due dita di gin liscio nel suo basso tumbler, e i pensieri gli si riflettevano sulle increspature terse del liquore che a ogni sorso tentava di dargli maggior convinzione, con risultati tanto scarsi da apparire dolorosamente imbarazzanti.
Inspirò un'ultima volta, sperando di bere coraggio, e infine affrettò i piedi in direzione dell'uscita, ancora restii a dar retta a una testa troppo su di giri. Raramente si concedeva qualche idiozia — e quello era proprio uno di quei casi — ma aveva ricevuto un guanto di sfida e intendeva vincerla.
Tanto era preso dal mettere in riga il proprio corpo che per poco non gli sfuggì la presenza di Fitz, seduto a un tavolino all'ombra della fontana con gli elefanti, intento a fumare la pipa. Il segaligno ambasciatore inglese accennò un saluto e gli fece segno di avvicinarsi con un sorrisetto al fiele sotto i baffetti neri. «Avevi ragione, alla fine. Il governo è caduto» gli annunciò.
«Dubitavi forse di me?»
«Neanche lontanamente, caro; prego, siediti. Ora hai il tuo liberale di casta, sarai contento.»
«Non mi esprimo. Non credo durerà, purtroppo» rispose Leo declinando l'offerta con un rapido gesto. Aveva un affare troppo urgente da sbrigare per permettersi di accomodarsi.
«E cosa te lo fa pensare?» insistette Fitz, e intanto sorrideva sornione sollevando di tanto in tanto la pipa.
«Von Papen si atteggia da tiranno e si fa forte dell'essere entrato nella Kamarilla» spiegò lui, «Ma non credo che saprà tenere a bada i socialisti. Ho parlato con un suo segretario, e mi è stato riferito che il cancelliere non ha il polso tanto fermo quanto crede.»
«Devo comunicare qualcosa a Londra?»
Leo scosse la testa. «Sei qui per quel tuo amico, Charles, vero?»
«Sì, ho alcune notizie importanti da dargli. Perché lo cerchi? Se hai qualcosa da dirgli, sappi che arriverà a momenti. Anche se ultimamente mi è parso un po'... contrariato, per non dire qualcosa di peggiore, come se qualcuno gli avesse sputato nel porridge a colazione.»
Fitz se la rideva sotto i baffi, compiaciuto della sua furbizia. Quel vecchio bastardo mezzo ebreo sapeva, e ciò lo faceva sentire potente. Stupido illuso.
«Purtroppo non mi posso trattenere, Fitz. Buon pomeriggio.»
«A te, caro. Stammi bene. E se hai qualche altra cosuccia per me, sai dove trovarmi.»
Leo tirò a testa alta fino all'uscita senza badare all'imbeccata, varcò l'alto portone in vetro e fu in Pariser Platz, mossa da pochi pigri viandanti sotto il sole imperante di Giugno; imboccò Unter den Linden, tutta ornata coi suoi maestosi tigli in fiore, svoltò nella più fredda Wilhelmstraße e giunse agli imponenti Giardini Ministeriali, alle spalle dell'hotel. Incastrato tra la vegetazione fitta dei Giardini e il palazzo degli Adlon si nascondeva un piccolo vialetto chiuso da una cancellata in ferro. Tutto era silenzioso, immobile; dietro le sbarre, il vicolo vuoto.
Probabilmente aveva qualche minuto d'anticipo, ragionò appoggiandosi al muro del palazzo di fronte, o forse l'informazione pagata due decine di marchi a un cordiale fattorino dell'hotel era falsa, chi poteva saperlo — e se era falsa, aveva sprecato una buona settimana dietro un inutile teatrino.
Nemmeno otto minuti dopo, la pesante porta nera in fondo al vialetto s'aprì, e uno sparuto gruppetto di graziose ragazze attraversò il profondo sentiero, alcune ancora con indosso l'uniforme cerulea delle governanti. Era stato fortunato, tutto andava come previsto: la ragazza era là, in mezzo a due compagne dalle chiome nere così poco tedesche intente a scherzare con lei. Appena lo vide quella si rabbuiò in volto e alzò il passo, attenta a non separarsi dal gregge del turno concluso.
Leo sorrise tra sé, soddisfatto e compiaciuto, e attese che il grosso delle dipendenti si disperdesse lungo la strada. Tirò fuori la tabacchiera e si accese una sigaretta, e intanto osservava la graziosa biondina che di quando in quando lo guardava di sottecchi, preoccupata, se non proprio impaurita. Le due amiche si misero davanti e la coprirono alla sua vista.
Ora sulle due era proprio convinto, ma dato il momento non era proprio quello a interessargli. Si staccò dal muro e s'avvicinò, e le due brune si voltarono e s'agitarono, come sterpaglia alla prima fiamma, per poi farsi da parte e permettere al suo obiettivo di venirgli incontro.
«Che vuoi?» proferì lei rude.
Leo inspirò il fumo e lo soffiò sopra la chioma d'oro bruciato raccolta in uno chignon.
«Volevo scusarmi per l'altro giorno, innanzitutto. E mi chiedevo se mi volessi fare la gentilezza di dirmi il tuo nome e accettare un drink... per riparare.»
«Non m'interessa, sono...»
«Insisto, e giuro su quanto ho di più caro che non ho cattive intenzioni.»
La ragazza tentennò.
Inspirò e sbuffò di nuovo. «Facciamolo in segno di amicizia. E da domani non t'importunerò più, prometto. Anzi, se serve, posso riparare alla mia invadenza in moneta. Solo per un bicchiere, nulla di più molesto.»
La ragazza dubbiosa si voltò per un attimo a guardare le sue amiche. La stavano giudicando, e lei lo percepiva. Tremava? No, se lo stava immaginando.
«Va bene, basta che la facciamo finita» decise infine. «Comunque, mi chiamo Agathe.»
«Agathe...?»
«Per te, nulla di più, nulla di meno.»
La sua voce era quanto di più lontano dall'esprimere cordialità, anche se poco a poco s'ammorbidiva e cedeva, ma i suoi occhi grigi, senza la benché minima esitazione, emanavano una luce terribile, ostile.
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