XXIII - La vita si osserva molto meglio da una finestra sola.
Strangers, from strangers into brothers.
From brothers into strangers once again.
One more time - Blink 182
Ho la mente del tutto confusa mentre seguo Isabella, insieme a Giorgio, diretti di nuovo dagli altri ospiti, o almeno è quello che credo. Mia zia non esce fuori dal ristorante, ma ci conduce nella sala da pranzo interna, dove trovo una folla che mi stupisce. Oltre alle mie mamme, ci sono Anna, Riccardo, Giovanni, Erica, Francesco, Giada, Maria Baresi. Che succede? Mamma Guenda è la prima a parlare.
«Il caramello?»
Dannato caramello. Me lo sento ancora addosso quel sapore dolce, mischiato all'odore di Giorgio che continua a stordirmi. Siamo in piedi, vicinissimi, ma non ci tocchiamo più. Lo vedo passarsi una mano sul viso.
«Sì, scusa, è rimasto in cucina.»
Mia madre mormora un'imprecazione – o forse un insulto – e senza indugiare oltre, va a prendersi la salsa da sola. Su un tavolo, noto una torta a tre strati completamente bianca, fatta eccezione per qualche ciuffo di quella che sembra panna. Non ci credo che le Baresi abbiano dimenticato il topping. Sono le basi della pasticceria, maledizione. Se non Giorgio non avesse– o meglio, se noi due non avessimo – dovuto preparare il caramello, non sarebbe successo niente. Anche se avremmo continuato a fare lezioni di guida e forse sarebbe accaduto lo stesso. Ma accaduto cosa? A pensarci bene, non c'è stato niente, non per davvero. Forse è successo tutto nella mia testa. Forse ho davvero bevuto troppo prosecco e ho visto cose che non esistono. Eppure, la sensazione della pelle di Giorgio contro la mia è stata troppo intensa per non essere reale.
«Cosa c'è di così urgente da farci precipitare qui?»
Ah, già, giusto, siamo stati interrotti per un motivo. Mi sforzo di concentrarmi sul presente e di scordarmi di dieci minuti fa, che è quello che ha fatto Giorgio, a giudicare dal tono che ha appena utilizzato. Alzo gli occhi sui presenti. Anna mi sta scrutando con un cipiglio strano. Ha capito. Lei sa che è successo qualcosa. Mi conosce troppo bene e credo che il calore che continuo a sentire lungo tutto il corpo sia ancora parecchio evidente. Al diavolo, ci penserò dopo a parlare con la mia migliore amica, ora ci sono cose più importanti.
«Non è niente di grave», parla proprio lei, senza riuscire a non guardare suo marito.
«Se esordisci così, penso proprio che lo sia», ribatto io, scrutando la sua espressione. È preoccupata, come tutti qui dentro. Nel frattempo è tornata anche mia madre con il caramello.
«Ancora non gliel'avete fatta leggere?» interviene, con tono spiccio. «Dai, non è niente di che, vi state preoccupando inutilmente!»
«Leggere cosa?» la incalza Giorgio. Si sta innervosendo e anche io, devo ammetterlo. Perché non si decidono? Che è successo? Alla fine, Isabella tira fuori il telefono.
«È uscita una recensione su "Milano da bere".»
Io e Giorgio ci scambiamo uno sguardo rapido. "Milano da bere" è un blog online molto seguito che si occupa di tutto ciò di innovativo e cool che riguarda la città meneghina, a partire da ristoranti, lounge bar, discoteche, locali notturni, passando per eventi, mostre, feste, è una sorta di almanacco che il milanese che vuole rimanere sul pezzo segue con interesse. Mi aspettavo o, meglio, speravo, che il "Belli e Dannati" attirasse l'attenzione di qualche giornalista. È successo, ma dalle espressioni dei miei amici e familiari, non mi sembra che sia stato un trionfo. Giorgio prende il cellulare di mia zia e lo avvicina ai nostri visi. La recensione si intitola "Belli e Pacchiani".
"Bisogna ammetterlo, l'idea non era male. Un nome che riprende gli anni ruggenti e il celebre Scott Fitzgerald, una formula che mirava a essere innovativa mischiando una cucina sperimentale e serate danzanti con single alla ricerca dell'anima gemella. Ma di innovativo c'è ben poco, nella cucina ma soprattutto nello Speed Date, che, se pur "ballerino," non apporta nulla di nuovo alla scena di Milano. Certo, sfruttare la percentuale di single più alta della penisola italiana poteva sembrare una bella trovata, ma se poi il risultato è un agglomerato di corpi che si ammassano l'un l'altro nelle luci soffuse, con della musica non proprio al passo coi tempi, che richiama un rock 'n roll ormai out nelle serate milanesi, la pacchianata è dietro l'angolo. E dispiace per lo chef Giorgio Cavalieri, che ha dovuto attendere l'orlo dei quaranta per gestire un ristorante tutto suo, perché il concept culinario potrebbe pure passare per buono - anche se, forse, pure in questo caso il richiamo agli anni '80 risulta troppo palese - ma l'accoppiata cibo e poi corsa disperata a cercare l'anima gemella in pista, rischia di far rimanere la pur abbastanza decente cena sullo stomaco. Forse Chef Cavalieri avrebbe dovuto aprire da solo un ristorante e concentrarsi su quello, senza seguire le idee un po' cringe della sua troppo giovane socia Emma Casali Boschi".
Ho la nausea. Mi sta tornando su qualsiasi cosa, la colazione, il pranzo, il prosecco. Mi manca l'aria, mi fischiano le orecchie e mi viene da piangere. Non possono aver definito il nostro locale pacchiano, non possono averne storpiato il nome così. Non ci posso credere. D'istinto guardo Giorgio e l'espressione sul suo viso non aiuta ad attutire il mio attacco di panico in atto. È livido.
«Chi l'ha scritto?»
Non mi sta guardando, non si è voltato nemmeno per un istante.
«Non c'è la firma», gli risponde Giovanni, con un tono controllato che poche volte gli ho sentito usare. «Gio, è un articolo idiota. È monnezza, non ne vale la pena.»
«Una monnezza che leggono tutti, però», obietta lui e io non posso fare a meno di intervenire.
«È finito pure su Instagram?»
La mia è una domanda retorica e la risposta ovvia la leggo negli occhi di zia Isabella. Il profilo @milanodabereofficial ha poco meno di quarantacinquemila follower, la maggior parte, se non tutti, provenienti dall'area metropolitana di Milano. Ho bisogno di stendermi.
«Ragazzi, è solo una recensione negativa,» interviene mamma Myriam, «fanno parte del gioco.»
«Esatto, che pretendevate solo belle parole?» le fa eco l'altra mia mamma e io provo un feroce istinto di strozzarle.
«Poi come se qualcuno leggesse ancora "Milano da bere", è così out», mente Anna sapendo di mentire. Tutti leggono "Milano da bere", è la bibbia dei milanesi imbruttiti e non.
«Noi sappiamo che non è così e tanto basta», prova a parlare anche Erica, ma non riesce a nascondere la delusione nella sua voce. Una critica alla cucina di Giorgio è anche una critica a lei e tutta la brigata. Non se lo meritano, non ce lo meritiamo.
E poi, alla fine, arriva la perla di Maria Baresi.
«Ragazzi, ma che sarà mai! Sapeste quante recensioni negative abbiamo avuto noi! Prima o poi ci si abitua.»
«Beh, quando vendi merda è normale avere recensioni negative, Maria, ci credo che ti sei abituata!»
Mi pento delle mie parole non appena le pronuncio. Stringo le labbra e un silenzio mi avvolge. Ho detto davvero a Maria Baresi, la madre di una mia dipendente, amica storica delle mie madri, che conosco da una vita, che vende merda?
«Emma!»
Sì, l'ho detto davvero. Tutti mi stanno guardando. Le mie genitrici hanno rabbia e delusione negli occhi, i miei amici stupore e Giada Farinelli un'indignazione che mi penetra dentro. Giorgio non so che sguardo abbia. Non ho il coraggio di scoprirlo.
«Oh, beh...» parla di nuovo Maria, toccandosi nervosamente i capelli ricci freschi di parrucchiere per l'occasione. «Forse hai ragione, se ne parlano tutti male, allora devo venderla davvero!»
Non l'ho mai vista così mortificata. Il suo volto pieno, di solito sorridente e che sprizza felicità da tutti i pori, è rosso di imbarazzo. Adesso sono io a sentirmi una merda.
«Maria, scusami, io...»
«Noi ce andiamo.» Giada interrompe le mie scuse imbarazzanti e prende sottobraccio la madre. «Andiamo, mamma, anche tu, zia.»
Le due sorelle indugiano per qualche secondo, gli occhi uguali, verde intenso, a cercare una via di uscita, ma poi capiscono che non c'è e seguono la figlia e nipote. Poco dopo le segue anche Francesco, ma me ne accorgo a malapena.
«Io me ne torno a Milano.»
Dopo un tempo che non riesco a quantificare, mi volto verso Giorgio. «Vengo anche io.»
Lui non incrocia il mio sguardo, ma si rivolge lo stesso a me: «Vuoi davvero venire?»
Venti minuti fa stava per baciarmi e adesso mi chiede se voglio davvero andare a Milano con lui. Mando giù un groppo alla gola.
«Certo che vengo.»
Ci muoviamo in fretta. Saluto gli altri, cercando di non pensare all'atmosfera gelida che si è creata, con le mamme che cercano di trattenermi a suon di "dobbiamo parlare", ma proprio non ho voglia di sentire la loro ramanzina, non adesso. Ho bisogno di capire cosa passa per la testa di Giorgio ed è l'unica cosa di cui mi interessa.
«Mi scrivi quando arrivate?» si raccomanda un'ansiosa Anna, mentre infilo lo zaino con il cambio che mi sono portata dietro nel baule della moto – avevo previsto di rimanere a dormire qui e di ripartire domani, ma date le circostanze meno male che non l'ho disfatto. Annuisco e la stringo, per poi fare lo stesso con Erica. Giorgio mi passa il casco e io sono grata di riuscire ad allacciarlo senza aver bisogno del suo aiuto. Saliamo su e lui parte senza troppe cerimonie.
All'inizio sembra un viaggio come tanti altri che abbiamo fatto, ma dopo una manciata di minuti mi accorgo che qualcosa non va. Giorgio ha accelerato e pure troppo. La Yamaha sfreccia sulla Statale a una velocità cui non sono abituata e l'aria mi taglia le gambe nude che iniziano a farmi male. Mi sale un moto di panico.
«Rallenta!» strillo, ma il suono risulta attutito dai caschi di entrambi. Lo ripeto un paio di volte e gli do pure una testata sulla schiena.
«Che c'è?» si rianima finalmente lo scellerato guidatore.
«Rallenta, G!»
Lui fa finta di non sentirmi e continua a correre alla medesima velocità.
«Gio, fermati!»
«Perché?»
«Fermati, ho detto!»
E alla fine si ferma. Accosta a una piazzola di sosta, a un chilometro scarso dal casello dell'autostrada. Scendo dal mezzo, facendomi quasi male per la fretta, e mi tolgo il casco con rabbia. Ho la tachicardia.
«Ma sei impazzito?» urlo, quando anche Giorgio è sceso e ha liberato la sua testa. «Che diamine corri così?»
«Guarda che non stavo correndo», è la sua risposta, con una calma serafica che mi fa salire il sangue alla testa.
«Ah, no?»
«Non più del solito, almeno.»
«Che ti dice il cervello, io...»
«A me che dice il cervello?» esplode all'improvviso, facendomi sobbalzare, il tono di voce che è aumentato di cento decibel. «Tu come cazzo ti sei permessa di dire quelle cose a Maria Baresi? Come ti è venuto?»
L'accusa fondata mi arriva addosso come una secchiata d'acqua gelida, anche se avrei dovuto aspettarmela, e forse me l'aspettavo. Non potevo certo credere di averla passata liscia.
«Ho parlato senza riflettere», replico, e nonostante sia la verità, mi rendo conto io stessa che è una scusa debole e Giorgio me lo fa notare.
«Questa è la tua giustificazione?»
Appunto.
«Oh, senti, ho semplicemente detto quello che pensano tutti!» sbotto a mia volta, senza riuscire più a essere diplomatica. Ho la testa che mi scoppia e che me ne importa di Maria Baresi.
«Questo non ti dà il diritto di dirle che i suoi dolci sono una merda! Ti rendi conto da quanti anni la conosciamo, Maria? La figlia lavora nel nostro ristorante!»
E ti pareva! Può stare un secondo senza pensare e nominare Giada? Per quanto tempo dovrà ancora tormentarmi quella smorfiosa?
«Oh, povera Giadina, deve essersi offesa! E adesso come facciamo?»
Ho usato il tono più sarcastico che potevo e potrei aver esagerato, ma non mi importa nemmeno di questo. Giorgio mi rivolge uno sguardo che in altre circostanze mi farebbe rabbrividire, ma adesso lo sostengo con sfida. Mi sono rotta di farmi dire sempre come mi devo comportare, cosa devo fare e qual è il modo giusto per farle, le cose.
«Ma quando ti deciderai a crescere, Emma?»
E mi sono anche rotta di sentirmi ripetere da Giorgio Cavalieri che sono una ragazzina e che devo crescere. Faccio un passo in avanti, lo sguardo verso l'alto, verso la sua testa molto più in su della mia, gli occhi caldi, pieni di una rabbia che mi sta salendo lungo l'esofago e che è pronta a uscire fuori dalla bocca.
«Io devo crescere? Sei tu che andavi a 150 all'ora su una maledetta strada statale e solo perché quella recensione ti ha fatto incazzare!»
Perché io lo so che gliene frega poco dei sentimenti di Maria Baresi. Il problema sta tutto in quella recensione e ne ho la conferma dalla scintilla scura che passa nei suoi occhi.
«Solo? Tu hai capito cosa c'è scritto là sopra?»
«Sì che l'ho capito, non trattarmi come una scema.»
«No, secondo me no. Hanno scritto che il nostro locale fa schifo ed è pacchiano. E l'hanno scritto su tutti i social e su un blog che seguono pure gli adolescenti a Milano. Siamo fottuti, Emma.»
E siamo di nuovo al festival del melodramma. Socchiudo gli occhi e tiro fuori l'aria, cercando di ritrovare la calma. «Ma quali fottuti, G, si risolve...»
Ma lui non vuole ritrovarla.
«Questo non è un gioco! Io ho investito tutto in questo ristorante!»
Non mi sfugge l'accento particolare su quell'io. Sbatto le palpebre e lo fisso ancora.
«E perché, io no? Anche io ho investito tutto!»
«No, Emma tu non hai investito proprio niente! Per te è tutto un gioco, un gioco che le tue madri ti hanno messo in mano!»
Riesco a percepire l'esatto momento in cui il mio sguardo di sfida si affloscia. Un gioco? Ma che cosa sta dicendo?
«Non è vero», sussurro, maledicendomi per non riuscire a dire altro, ma tanto non ha finito.
«Ti diverti a mettere quelle maledette foto su Instagram, a organizzare quelle serate del cazzo e pensi di aver fatto il tuo lavoro. Io non ho più un euro perché li ho messi tutti qua dentro e rischiamo di andare per aria dopo nemmeno due mesi!»
«Dio santo, G, è solo una recensione negativa!» sbotto, di nuovo, in grado di parlare, ma la mia voce è incrinata, lagnosa, ferita. Giorgio scuote la testa con forza, i capelli ricci in disordine e gli occhi pieni di delusione.
«Non è solo una recensione negativa, Emma. Non funziona e lo sai benissimo. Stiamo buttando soldi. Non era così che volevo aprire la mia attività.»
«La nostra attività», sottolineo, in modo retorico, ma che forse proprio retorico non è.
«Già, ed è proprio questo il problema.»
Sento lo stomaco stringersi, quasi a risucchiare l'aria.
«Che cosa vuoi dire?» lo incalzo, ma lui non sembra più avere il coraggio di prima. lo vedo stringere le labbra e abbassare lo sguardo.
«Niente, lascia stare.»
«Giorgio, che volevi dire? Come la volevi aprire la tua attività?»
Alla fine, chissà come, riesce a dire la verità.
«Da solo, Emma, la volevo aprire da solo. Ma le tue mamme non mi avrebbero dato i soldi se non avessi fatto anche tu parte del progetto e i loro soldi mi servivano. Ma a te non bastava servire solo del cibo, volevi mettere in mezzo pure il dopocena ed eccoci qua.»
Ed eccoci qua. Ecco la ragione per la quale Giorgio non mi è mai sembrato entusiasta della nostra collaborazione, del "dopocena", come lo chiama lui, del fatto che, in effetti, mi hanno proposto le mamme di aprire un ristorante insieme a lui, dicendo che "avevano avuto questa idea". L'hanno costretto loro e lui non ha mai voluto mettersi in affari con la sottoscritta. Lui voleva solo i soldi, non me.
«Quindi per tutto questo tempo mi hai fatto credere di voler aprire il locale insieme a me e invece era tutta una bugia.»
Non voglio piangere, ma non ci riesco. Gli occhi si riempiono di lacrime mentre l'inadeguatezza prende possesso di me e mi lascia svuotata. Senza uno scopo, senza un'ambizione, senza una giustificazione. Senza senso.
«Em, senti...» Giorgio cerca il mio sguardo e scorgo il senso di colpa dentro i suoi occhi scuri. Mi torna in mente il modo in cui mi sguardava prima, in cucina, a due centimetri da me, quando il suo fiato si mescolava al mio. Mi sembra tutto così lontano anni luce. Mando giù un singhiozzo che tenta prepotentemente di venire fuori, ma non è il momento.
«Mi dispiace di non soddisfare le tue aspettative, Giorgio. Sai, forse hai ragione tu. Non funziona. Io me ne tiro fuori. Niente più locale, solo ristorante, tutto tuo. Tranquillo, puoi tenerti i soldi delle Casali Boschi, nessuno te li richiederà indietro.»
«Emma...»
«Magari riesci a prendere pure quella fottuta stella Michelin.»
Non sia mai che i miei grilli per la testa lo tengano lontano dai suoi sogni di gloria. Riesco a smettere di guardarlo e mi volto, iniziando a camminare a grandi falcate. Voglio solo allontanarmi da lui e da quella maledetta moto. La sua voce mi raggiunge in fretta.
«Emma, dai, torna qua, andiamo a Milano, ne parliamo lì con più calma.»
«Io con te a Milano non ci vengo.»
«Emma...»
«Non ci vengo, ho detto!» gli urlo, senza nemmeno girarmi. Vorrei solo che scomparisse e sedermi per terra, al lato della strada, e mettermi a piangere senza ritegno.
«Non posso lasciarti qui, torna indietro!»
«Chiamo mamma e mi faccio venire a prendere.»
Mi fermo alla fine della piazzola di sosta. Cerco il telefono nella tasca e cerco il numero di mamma Guenda.
«Come vuoi», lo sento bisbigliare.
Mia madre mi risponde al terzo squillo e non riesco a non farla preoccupare quando le dico di venire qui. Le mando la posizione e aspetto. Ci metterà almeno venti minuti, ma non mi importa. Resto ferma in un angolo, gli occhi doloranti, concentrandomi sullo sforzo di restare in piedi e non piangere. Giorgio resta accanto alla moto, a fumare una sigaretta dopo l'altra e non dice più niente. Non c'è niente da dire, dopotutto.
Finalmente arriva. Vedo la Yaris vetusta del 2010 accostare accanto a noi e la prima cosa che fa è scendere.
«Ma che diavolo è successo?» domanda, con il suo solito tono soave. Ci rivolge uno sguardo torvo, in cerca di una risposta. Giorgio butta la sigaretta a metà e fa per rimettersi il casco.
«Emma ha cambiato idea», dice soltanto. «Torno a Milano da solo.»
Mamma Guenda sbatte le palpebre e fissa me. «In che senso ha cambiato idea?»
«Adesso ti spiego, ma, andiamo», parlo di nuovo dopo troppo tempo.
«Ma che succede?» continua lei e io non resisto più.
«Ma, andiamo, per favore?»
Il mio tono la fa desistere. Senza salutare l'altra persona presente, mi infilo nel lato del passeggero e sbatto la portiera. Dopo dieci secondi, Giorgio bussa al mio finestrino.
«Lo zaino», dice solo, porgendomelo. Io trattengo il respiro e lo afferro senza guardare lui, senza dire niente. Poco dopo anche mamma sale e si ode il rombo della moto.
«Ma è pazzo che ti lascia qui senza una spiegazione?» sbotta lei e stavolta non posso non darle una spiegazione.
«Quando avevate intenzione di dirmi che gli avete imposto voi di entrare in società con me?»
Non avevo previsto di chiederglielo così di getto, ma sono stufa di bugie e convenevoli. Mamma Guenda strabuzza gli occhi, la sorpresa che invade i suoi occhi chiari. La vedo indugiare per qualche secondo, poi mette in moto.
«E quindi te l'ha detto.»
«Me l'ha urlato, a dir la verità», preciso io. «Allora?»
Mia madre sospira. Si rimette sulla carreggiata, prendendo la direzione opposta a quella di prima e attende di mettere la quinta prima di parlare ancora.
«Nessuno glielo ha imposto. Semplicemente, lui voleva aprire un ristorante e tu dicevi da anni che volevi un'attività tutta tua. Non eri pronta a farlo da sola, quindi io e tua madre abbiamo pensato di unire le due cose.»
«Quindi gli avete detto che o c'ero di mezzo anche io o non vedeva un euro?»
«Non è andata proprio così, Emma.»
«Invece a me pare di sì ed è esattamente il significato di imposto, mamma.»
Guendalina Casali tace. La guardo di sottecchi e la vedo in difficoltà, ma non mi fa pena. Ho sgamato il suo gioco e adesso deve pagarne le conseguenze.
«È arrabbiato per la recensione, vero?»
«Pensa che sia colpa mia.»
«Ma dai, come può essere colpa tua?»
«Forse ha ragione. Se avesse aperto solo un ristorante come voleva in principio, nessuno avrebbe mai parlato di locale pacchiano.»
Mi costa dirlo, ma, in via del tutto residuale, potrebbe essere la verità. Più che sulla cucina, il recensore si è concentrato sul "dopocena" e sul discutibile format dello Speed Date danzante. Pertanto, forse, Giorgio ha ragione.
«Non puoi saperlo. Non so se ricordi, ma quando abbiamo aperto il nostro, di ristorante, una rivista gastronomica piemontese ha detto che non serviva l'ennesima cucina casareccia che si atteggia a gourmet sul Lago Maggiore e che eravamo una trappola per turisti. Io e tua madre ce ne siamo fottute, abbiamo raddoppiato gli sforzi e anziché perdere i clienti, li abbiamo aumentati.»
Resto basita. Avevo dimenticato quella recensione. Ricordo lo stress di quei giorni, le litigate tra le mamme, la paura che tutto potesse andare a rotoli, come rammento bene il mazzo che si sono fatte per ripulire il proprio nome, tramite migliorie al menù, al servizio, alla sala, alla promozione. Non si sono date per vinte e da una cosa negativa è uscito fuori un successo. Ma io e Giorgio non siamo le mie mamme. Non siamo sposati, non ci amiamo alla follia come loro, il nostro locale è nato su una menzogna, tra noi ci sono solo incomprensioni e astio. E a nulla vale il quasi bacio di oggi pomeriggio. Forse non è nemmeno esistito.
«Morale della favola,» continua mamma, mentre nel frattempo abbiamo raggiunto il centro di Arona, «a tutto c'è rimedio. Troverete una soluzione.»
«Non penso, ma», la disilludo. Il lago mi passa davanti e penso che sia bellissimo. Uno specchio d'acqua pieno di ricordi di infanzia e di adolescenza. «Non dopo le cose che ci siamo detti.»
Se mia madre vuole sapere cosa ci siamo detti, non lo domanda. Parcheggia davanti al ristorante. C'è ancora qualcuno, tipo Erica, Anna e Riccardo. Giovanni e Isabella. Mamma mi sfiora la gamba.
«Devi chiedere scusa a Maria.»
Trattengo il respiro. Mi aspettavo questo intervento. Riesco a guardarla e annuisco.
«Lo so.»
«Sei stata molto maleducata.»
«Ero arrabbiata e lei non smetteva di parlare.»
«Non è una giustificazione.»
«Lo farò.»
La conversazione è finita. Ci guardiamo nei nostri occhi uguali e mamma tira fuori l'aria. Indossa ancora il tailleur turchese del pranzo ed è bellissima.
«Lo so che avete litigato, ma risolverete, sia con il locale che tra voi due. Il tuo legame con Giorgio è troppo profondo per rompersi così facilmente.»
Mi sorride e io mi sento costretta a farlo di rimando. Il fatto è che mamma non sa quanto sia davvero profondo il mio rapporto con Giorgio e quanto ciò che ci siamo detti abbia creato una crepa tra di noi.
E forse non lo so nemmenoio.
Note di Greta ❤️
Ciao, mi chiamo Greta e di professione rovino sogni 💔
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