Ventuno

«Uno»

«Aspetta e spera, Zilla».

Con un rapido movimento della mano, tipico di un giocatore professionista di poker, Charlie sgancia sotto al mio naso la bomba più forte di tutte: la carta jolly +25 carte.

«Cosa?! Ma andiamo! Hai già vinto quattro partite! Una lasciala vincere a me!»

Scuote la testa, maligno, indicando con arietta arrogante il mazzo di carte da cui devo pescare.

«Te l'avevo detto che sono un maestro di "Uno"».

Gli faccio un verso offeso e inizio a pescare tutte quelle carte, contandole ad alta voce per non dimenticarne nessuna. Perlomeno sono una persona onesta.

L'ho sempre saputo che inventare una carta "+25" era una pessima idea, ma quando lo scorso Natale i nostri nonni ci hanno regalato questa versione di "Uno", con la possibilità di personalizzare tre carte jolly, Eddie non ne aveva voluto sapere, pretendendo che scrivessi su quella povera carta un "+25" scarlatto come il sangue. «Sarà la carta della morte» aveva detto con aria piuttosto sadica «sarà colei che distruggerà definitivamente un giocatore». Peccato che, in questo momento, questo giocatore sia proprio io.

Finisco di pescare le carte e gioco un tre blu. Charlie mette giù a sua volta un tre verde, esclamando:

«Uno!».

Gioco sotto al suo naso un "+4", mentre sul suo viso compare lo scontento.

«Mi sa che al posto di "uno" tu debba esclamare "cinque", adesso»

«Quattro, perché questa qua la gioco».

Scarta un sei giallo.

«Oh wow, le sorti della gara si invertono, eh?» voglio stuzzicarlo

«Pensa intanto a smaltire tutte quelle carte» le addita con un sorrisetto compiaciuto.

Ci guardiamo per lunghi istanti, riesco quasi a percepire la potente forza di attrazione che ci sta avvicinando sempre di più. Sembriamo quasi una coppia di anziani che stanno giocando a "scala quaranta" o a "briscola" in una domenica d'estate.

Qualcuno bussa alla porta e ci separiamo con uno scatto, fingendo di essere particolarmente presi dalla partita, ormai passata in secondo piano.

Eddie si affaccia dall'uscio e ci scruta per qualche attimo. Mi chiedo se abbia capito che ci stessimo per baciare... Che cosa imbarazzante! Spero con tutte le mie forze di no!

«La cena é pronta, scendete?» chiede alla fine, tornando alla sua espressione vivace e tranquilla.

«Sí, di' a mamma e papà che arriviamo».

Eddie si chiude la porta alle spalle e noi rimaniamo nuovamente soli, a resettare le carte e ritirarle nella propria scatola.

Percepisco un lieve imbarazzo fra di noi, dovuto probabilmente a ciò che stava succedendo prima.

Siamo due persone rotte, timide, non comuni, per noi tutto questo non é normale, ma una continua novità che si sussegue giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. Qualcosa che continua sempre a sorprenderci anche se ormai ci é chiaro che la nostra relazione é diventata solida, con un pavimento, delle pareti e un tetto.

Ed é questo il bello di noi, é questo ciò che mi piace di me, ma soprattutto di Charlie: che ci sorprendiamo, sempre. Che sia un bacio, una carezza, un abbraccio, riusciamo a diventare timidi, a imbarazzarci, perché lo consideriamo nuovo e fuori dal comune, nonostante lo abbiamo già fatto altre volte.

E se tutti facessimo così nella vita? Rompere la quotidianità? E se... E se ci stupissimo tutte le volte in cui beviamo un caffè, accarezziamo un gatto o guardiamo la pioggia scorrere sui vetri? Magari tutto potrebbe diventare così speciale e non prigioniero di un monotono ciclo quotidiano... A volte me lo chiedo. A volte mi chiedo se davvero il semplice godersi le cose fino in fondo può aggiustare tutto, combattere la noia, forse anche la tristezza. Ma mi rendo conto che tutto questo é difficile per chi, come me, vive la vita in modo frenetico, vittima della fretta che la spinge a ignorare ciò che potrebbe diventare speciale.

Mentre penso a tutte queste cose, una carta scivola dal mazzo e leggiadra vola in aria fino a infilarsi sotto al mio letto.

«Tranquilla, ci penso io». Charlie si inginocchia e si infila con metà busto sotto al letto, alla ricerca della carta scomparsa.

«Occhio, c'é un po' di polvere lí sotto»

«E questa la chiami un po' di polvere? Devi ancora vedere cosa c'è sotto al mio di letto...».

Mi scappa una lieve risata, non troppo divertita, piuttosto affettuosa, tenera. Forse mi sono fatta contagiare troppo dalla dolcezza del momento...

Charlie sguscia fuori dal letto con qualche piccola palla di polvere attaccata alla felpa bordeaux che indossa e ai capelli.

Ridacchio e lo prendo affettuosamente in giro con lo sguardo, mentre mi appresto a levargli i batuffoli da dosso.

«Mi sento uno spolverino» dice, osservando la polvere ricadere a terra come piccoli e leggeri fiocchi di neve

«Non è che ti senti, sei uno spolverino».

Fa spallucce, quasi per concordare con le mie idee. Sento il suo sguardo percorrermi, attraversarmi e studiarmi dentro, ma rimango calma, priva di qualsiasi fastidio che di solito un atto del genere mi provocherebbe. Amo quando fa così, quando scava nelle mie viscere per analizzarmi e capirmi. Quando mi fissa in cerca di risposte oppure di un semplice sguardo da parte mia. Mi fa comprendere quanto sia attento ai particolari, alle azioni e alle espressioni che mi compongono, e ciò non può che essere una di quelle cose di lui che mi fa perdere completamente la testa.

«Ah, quasi dimenticavo, oltre alla carta là sotto ho trovato anche questo, non vorrei che tu lo avessi smarrito e lo stessi cercando da tanto tempo».

Abbasso lo sguardo, inizialmente tranquilla, ma non appena vedo ciò che tiene stretto nella sua mano, il mio cuore salta un battito e sgrano gli occhi: il mio diario, il mio strafottutissimo diario, il diario che mai nessuno ha toccato o visto di striscio. Senza pensare glielo strappo dalle mani e me lo appoggio sul petto, come se fossi una leonessa che deve proteggere il suo cucciolo. Ma non appena alzo lo sguardo su di lui, perdendomi in quei suoi occhi intensi come l'oceano, capisco di averlo letteralmente spiazzato con il mio sciocco e infantile comportamento.

Mi sento terribilmente in colpa e d'istinto gli afferro una mano, come se fosse stato sul punto di fuggire via, lontano.

«S-scusa, mi dispiace tanto è che...» sospiro, mentre abbasso leggermente il capo «...questo è un raccoglitore di sofferenze e lamentele scritte e ideate dalla sottoscritta. Nessuno le ha mai lette oppure viste, non credo nemmeno che il mondo sappia della sua esistenza».

Scivolo lentamente lontano da lui, in imbarazzo, e mentre rimetto a posto il mio amato diario, sento il suo sguardo puntato sulla mia schiena che continua a studiarmi, a scavarmi.

Vorrei che dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, persino un insulto, una presa in giro perché questa cosa del diario non la fanno nemmeno i bambini di otto anni. Mi starebbe bene tutto, purché la sua voce inondi questa camera fatta di imbarazzo e angoscia.

«Lo capisco...» mi volto verso di lui, scoprendo che ha distolto lo sguardo «anche io ho un diario, si chiama Jimmy».

So che non dovrei ridere, ma lo faccio lo stesso. Non è una risata per prenderlo in giro, anzi, quella che dovrebbe essere presa in giro qui dovrei essere solamente io. E' una risata liberatoria, sollevata. Mi ero completamente scordata di avere a che fare con Charlie Gray, il re delle strambezze, talmente tanto strambo da dare addirittura un nome al suo diario.

«Che hai da ridere?» borbotta, solo adesso noto che le sue guance si sono tinte leggermente di rosso.

«Nulla è che... E' che siamo così strani»

«Non è una novità» sorride e lo ricambio con tutta me stessa.

«Forse è meglio che scendiamo, tra un po' arriverà mia mamma a linciarci»

«E' già successo?»

«Troppe, troppe volte».

Si mette a ridere, prima di seguirmi fuori dalla stanza. Mentre scendiamo le scale sento l'ansia impossessarsi nuovamente di me. Mi arresto.

«I miei inizieranno a farti tremila domande»

«E... Che male c'è?» alza un sopracciglio

«Alcune di queste saranno scomode e impertinenti, stai attento» faccio per riprendere a camminare, ma ci ripenso all'ultimo e mi volto di nuovo «e non accennare mai alla nostra relazione altrimenti decreterai la nostra morte. Ridi alle battute di mio padre e asseconda sempre mia madre»

«Cosa sono? Le istruzioni per avere a che fare con dei boss della mafia? Oppure quelle per montare dei Lego?»

«Non sei divertente, lo dico per il tuo bene»

«Così mi stai solo terrorizzando».

Lo ignoro e riprendo a camminare, fino in cucina. Eddie, Lewis e mio padre sono già seduti a tavola, stanno ridendo e scherzando, mentre mia madre è ai fornelli, pronta a servire da mangiare. Prendo un grosso respiro prima di entrare definitivamente nella stanza.

I miei genitori sono rispettivamente ai capi della tavola, Lewis ed Eddie sono entrambi su uno dei due lati lunghi, mentre a me e a Charlie tocca il lato lungo opposto. Il dilemma ora è: dove mettere Charlie? Se stesse vicino a mio padre si dovrà senz'altro sorbire le sue freddure e magari qualche domanda sul calcio, se stesse vicino a mia madre, invece, sarà vittima di sguardi iniettati di veleno e domande psicologiche su "come e quando hai iniziato a frequentare mia figlia?" e "ti droghi?". C'è da dire però che se stesse vicino a mia madre, avrebbe comunque di fronte Edward che, secondo la mia logica, lo aiuterebbe in caso Grace Allen decidesse di posare la sua mano rovente sopra la sua coscienza.

Mi volto, per sussurrare i miei ingegnosi ragionamenti a Charlie, ma lui non c'è. Sposto gli occhi sgranati in giro per cercarlo, quando lo vedo lì: seduto al posto accanto a mia madre. Ha scelto la morte, è palese, Dio solo sa cosa gli aspetta davanti.

Mi dirigo a testa bassa al mio posto e mi accomodo, mentre scorgo mio padre allungarsi verso Charlie per stringergli la mano e presentarsi. Stanno sorridendo entrambi, a primo impatto sembrano starsi molto simpatici.

«Charlie, come Charlie Brown dei Peanuts. Lo trovo un bellissimo nome» constata mio padre, tonando a sedersi

«La ringrazio per il complimento, Signor Allen, ma purtroppo non ho scelto io questo nome e dovrebbe complimentarsi con mia madre, è lei la vera e propria intenditrice».

Mio padre scoppia a ridere. «Sì, sei molto simpatico. Ma ti prego, chiamami Daniel, non sono ancora abbastanza vecchio per essere chiamato "Signor"».

«Perfetto, Daniel».

Altra risata, ne prevedo molte questa sera.

Mia madre serve la cena prima di accomodarsi al suo posto, iniziando a lanciare occhiate a Charlie. Sembra gli stia facendo uno scan, e credo che, al posto dell'infermiera, dovrebbe fare come lavoro direttamente la macchina per i raggi X, sono sicura che le verrebbe davvero bene.

«Dunque, Charlie» continua a dire il suo nome con quell'aria infastidita, mi sta facendo venire i nervi «quando vi siete conosciuti te e Zilla?»

«Agli inizi di novembre, circa»

«E come?»

O cazzo, non le può mica dire che prima mi ha quasi sfondato il cranio con una palla da neve e che poi l'ho trovato steso a terra in corridoio e, credendolo morto, mi sono avvicinata a lui! Che facciamo adesso?!

«Parlandoci... Era un semplice giorno di scuola, ci siamo ritrovati, abbiano iniziato a discutere e abbiamo capito di condividere molte passioni e interessi, così ci siamo frequentati e alla fine siamo diventati amici»

«Oh, capisco, interessante»

«Be' é davvero molto ammirevole da parte tua Charlie, nessuno é riuscito a conquistare questa timidona qua» mio padre mi tira una leggera pacca sulle spalle, mentre prendo in considerazione una delle tante torture che ho visto in un documentario per farmi fuori.

Mi concentro sul cibo, mentre mia madre continua con il suo interrogatorio. Gli chiede quali sono le sue materie preferite, che lavoro fanno i suoi genitori, se pratica qualche sport e se gli piace il teatro.

Charlie risponde a tutto con molto piacere, tra sorrisi e risate. Ovviamente, mentre si parla di scuola, non accenna nulla sulla sua espulsione. Già mi immagino le fiamme dell'inferno che divorano mia madre se solo ne venisse a conoscenza. Mi vengono i brividi, deve essere davvero terribile.

«Be' è bello che tu abbia legato con Zilla, sono ere che non la vediamo con qualche amico».

Roteo gli occhi al cielo. Quante altre volte devono ripetere quanto sia stata sola in questi ultimi tempi? Per una fobia a cui loro nemmeno volevano credere pergiunta!

«Mi viene strano pensare a Zilla da sola, sinceramente» sposto lo sguardo su Charlie, incredula: che diavolo sta cercando di fare? «È una persona talmente tanto sensibile, gentile e fantastica che è impossibile non volerle bene o semplicemente non notarla».

Mia madre lo guarda, seria, ma riesco a notare in lei un velo di orgoglio misto a piacere.

Sento la sedia inghiottirmi lentamente. Ciò che ha detto è così bello... Non ho mai pensato di avergli fatto questa impressione.

Le sue parole sono così cariche di verità, di pensiero e di gusto, non le ha dette tanto per dire, pensa veramente a questo.

Soffoco un sorriso che mi cresce dall'interno e cerco furtivamente la sua mano sotto al tavolo. Appena la trovo la prendo e la stringo con dolcezza.

Charlie capisce ciò che voglio dirgli, che lo voglio ringraziare, e come risposta stringe più forte la mia mano e la accarezza con il pollice.

«Sí, Zilla è speciale, lo abbiamo sempre saputo» mia madre sposta lo sguardo su di me, i nostri sguardi si incrociano e percepisco nel suo tutto l'orgoglio che sta provando il quel momento.

Lo distolgo dopo qualche secondo, puntandolo sul piatto davanti a me. Spero vivamente di non essere arrossita, sarebbe la fine per me e Charlie, anche se nutro la strana sensazione che, forse, i miei genitori abbiamo già intuito qualcosa, anche se non ne sono così certa.

Torno a mangiare il mio pollo con aria leggermente più tranquilla, quando, d'un tratto, la mia attenzione si posa su Eddie. È immobile, in silenzio, sta fissando il piatto con aria vuota e assente ed è pallido, di chi ha bisogno di rigettare l'anima. Mi preoccupo molto: prima stava bene, era sereno, mangiava e ascoltava la conversazione, mentre ora é messo in questo modo. Cosa gli é successo tutto d'un tratto?

Non sono l'unica ad accorgersi di questo suo improvviso cambiamento d'umore, mia madre, infatti, gli tocca una spalla e lo guarda piuttosto perplessa.

«Edward, tesoro, tutto ok?».

Eddie prende un grosso respiro.

«No, non é tutto ok» rizza la schiena di colpo «mamma, papà, devo dirvi una cosa».

Gli occhi di Lewis si spalancano come i fanali di un'auto e una consapevolezza si fa strada dentro di me.

Oh cazzo! Cazzo! Cazzo! Cazzo! Spero non stia per farlo, spero non stia per compiere quella grandissima minchiata che...

«Io e Lewis stiamo insieme, sono gay, sorpresa!».

Siamo tutti ufficialmente fottuti.

Mi faccio piccola piccola sulla sedia, pronta a ricevere la scossa di terremoto di magnitudo nove che sta per partire dalla bocca di mia madre.

Da una parte sono così orgogliosa di Eddie, insomma é riuscito a vincere le sue paure, accettandosi, ma peccato che l'abbia fatto nel momento peggiore che potesse scegliere.

Con la coda dell'occhio scorgo Charlie, anche lui si é fatto abbastanza piccolo, tiene gli occhi preoccupati fissi sul suo piatto vuoto.

«Ma che vai a blaterare, Edward?!» sbotta mia madre. «Tu con un ragazzo?! Ma non dire oscenità!».

Eddie gonfia il petto, furioso.

«Oscenità? Io lo amo!»

«Amare? Non é normale tutto questo!»

«Non esiste un amore "normale"!»

«Edward, finiscila di comportarti come un bambino! Avevi un sacco di ragazze che pendevano dalle tue labbra, e adesso mi vieni a dire che ti piacciono i ragazzi? Ma come ragioni?!»

«Sei tu che non ragioni! Credevo mi avreste supportato, come ha fatto Zilla, invece siete solo degli omofobi del cazzo».

Si alza di scatto, con gli occhi lucidi. Il suo petto si gonfia e si sgonfia in modo innaturale, è consumato dal dolore e dalla paura. Si volta e corre fuori dalla cucina in preda all'ansia e al dolore. Sale le scale sbattendo i piedi e chiude con forza la porta della sua stanza.

«Dove credi di andare?!» gli urla dietro mia madre, alzandosi e uscendo a sua volta per raggiungerlo.

Poco dopo anche mio padre si alza e a tavola rimaniamo solamente io, Charlie e Lewis, ognuno con la faccia più sconvolta dell'altro.

Vorrei dire qualcosa, per tranquillizzare tutti, ma con le urla che provengono dal piano di sopra e l'agitazione che ha fuso ogni mia capacità di reazione, non riesco e rimango zitta.

Cerco Charlie sotto al tavolo, ma non lo trovo, sembra quasi che le sue mani siano scomparse di colpo. Mi arrendo e lascio ricadere le braccia molli lungo i fianchi.

A un certo punto Lewis si alza, imbarazzato e sconvolto.

«È meglio che torni a casa» dice, tremando

Lo guardo afflitta:

«No... Lewis, rimani»

«No mi dispiace ho bisogno di andarmene... Gli avevo detto che dirlo stasera sarebbe equivalso a un suicidio, ma lui ha fatto di testa sua, di nuovo...»

«Mi dispiace tanto...»

«E di cosa? Non ti preoccupare... Ci vediamo, ciao Zilla, ciao Charlie, grazie per la serata».

Abbandona la cucina amareggiato, mentre lo seguo con lo sguardo.

Sospiro, prendo una manciata di insalata e la metto nell'angolo del piatto.

«Gradisci?» domando a Charlie con voce flebile e lievemente monotona.

Lui ignora la mia offerta, concentrandosi su altro:

«Forse dovrei andarmene anche io...»

«No!» esclamo, sbattendo la ciotola di plastica contro il piano del tavolo.

«Zilla, la tua famiglia non sta passando un buon momento e io sono di troppo».

Sospiro, forse si sente in imbarazzo, d'altronde chi non lo sarebbe? Fossi stata in lui avrei già chiesto l'estrema unzione prima di colpirmi con una lama al collo come nella "Madama Butterfly" di Puccini.

«Come vuoi...» sospiro e lascio che mi abbracci prima di alzarsi e dirigersi verso la porta di ingresso.

Lo seguo, a testa bassa e lo osservo infilarsi le scarpe e il cappotto.

«Grazie di tutto» mormora alla fine «di' a tua madre che il pollo era ottimo e falle i complimenti».

Cerca di sorridere, ma non appena vede lo scontento sul mio viso si avvicina, mi stringe ancora un po' e mi posa un delicato bacio sulle labbra.

«Andrà bene, ok? Per qualsiasi cosa chiamami»

«Sì... Ti amo»

Sorride. «Ti amo anch'io».

Si volta e raggiunge la porta. Prima di andarsene mi regala un ultimo sorriso rassicurante, poi varca la porta e se la chiude alle spalle, lasciandomi sola.

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