3 - 𝐿𝑌𝐼𝑁𝐺 PLACES
Nel suo fastoso ufficio ricco di vetrate, detto la Stanza dell'Ancella, la dirigente, inforcati degli occhialetti a mezzaluna sul naso sottile e appuntito, esigette sapere ogni dettaglio della vita di Sue, finanche a quante volte si fosse ammalata. Fu una tediosa sequela di domande: nome, cognome, altezza, peso; quanto bazzicasse lo Snodo, il centro di Hemera; che scuole avesse frequentato e per quanto; perché avesse scelto l'insegnamento da casa e quali professori avesse avuto. A ogni sua risposta seguiva un "bene, bene, bene". Alla fine, gracchiò: «È qui per il Secondo Dominio?».
Seduta alla scrivania, Sue, che avrebbe tanto voluto essere a casa sua, deglutì l'ansia. «Io...»
«Il quarto dei cinque anni» tagliò corto Miss von Weizsäcker. Dovette scambiare la confusione sul viso della ragazza per incredulità perché aggiunse: «So quel che sta pensando: dovremmo cominciare gli anni del Dominio, per l'apprendimento dell'Abilità, dal primo giorno d'Accademia. Molti genitori lo vorrebbero. Ma sarebbe rischioso! I ragazzi sono immaturi! Per non parlare dei ritardi sul risveglio dell'Abilità!»
Sue s'illuminò. «Ritardi?»
«Anche gravi, di...»
«Anni?» l'anticipò speranzosa.
«Mesi, per carità! Ogni Privilegiato diventa un Iskra a quattordici anni, fino poi ai suoi cinquantatré.»
Sue esibì un sorriso nervoso e si diede della stupida, mentre la dirigente continuava: «Dunque, secondo la documentazione dataci da sua sorella, lei è una Zivel Flora. Una vera fortuna per la Convergenza!»
Lei seppe solo annuire alla menzogna di Han. A eccezione di quella peculiare della Casata Reale, l'Abilità non era ereditaria. Se solo ne avesse avuta una, Sue avrebbe potuto essere una Krafti, con la capacità di manipolare l'energia luminosa, una Domen dalla forza bruta, una Zivel dalle fantasticherie elementali, una Wizja con le visioni sul futuro o, ancora, una Necromant. Ma, secondo le regole rigide che imponeva la Convergenza, solo un Bertrán con la medesima Abilità del capostipite della Casata, Marcus Joseph Bertrán, poteva ereditare il seggio. Marcus era uno Zivel Flora, come Hannaline. E lei sapeva che, in quanto ultima discendente dei Bertrán, doveva essere una Zivel Flora per succedere a sua sorella.
Dopo un'altra sfilza di "bene, bene, bene", la dirigente lasciò la scrivania di betulla e, senza una parola, uscì.
Sue s'accasciò sulla scrivania: la testa le doleva e già le mancava Michela, la pace di casa. Quello non era il suo posto. Quell'Accademia era stata l'idea più stupida che posse venire in mente a sua sorella. Se fosse stato per lei, sarebbe corsa via a gambe levate, avrebbe continuato con l'istruzione privata. Han non lo permetterebbe mai...
Si sollevò in un sospiro e con la coda dell'occhio vide qualcosa che l'attirò: alla parete alla sua destra, c'era un quadro. Raffigurava una donna accovacciata su sé stessa, avvolta da stracci lisi, sulla soglia di una casa dissestata. Sue s'avvicinò. Entrando, non l'aveva notato. Stranita, si chiese come potesse averlo ignorato. Era meraviglioso: le pennellate erano minuziose, i colori tenui, dai marroni morbidi, le ombre e le luci erano suggestive. Trasmetteva una pace angosciante: il viso della donna era dolce, ma sciupato da un velo di sofferenza e lo sguardo, ampio e gentile, era rivolto verso il basso, al di fuori della cornice, come se puntasse ai piedi dell'osservatore in un atto di sottomissione. Le instillò un profondo senso di tristezza... che le disturbò lo stomaco, all'improvviso. Le sembrò di ricevere un pugno.
E il fastidio aumentò, all'inverosimile. Divenne un dolore profondo, che le risalì il corpo. Boccheggiò, nel panico. Avrebbe voluto chiedersi le cosa stesse succedendo, se fosse di nuovo come con la statuetta, ma non riuscì a pensare, a parlare. Una stilettata lancinante le trapassò il petto, all'altezza del cuore. Ci poggiò una mano e, quando la ritrasse, vide rosso. Il palmo pallido grondava di sangue che ribolliva come se fosse su una fiamma viva.
Le gambe ondeggiarono. D'un tratto, ebbe caldo, freddo, paura. Terrore. Le si appannò la vista. Si sentì bruciare. E...
«Qui!»
Una voce furente le artigliò le orecchie.
In un sussulto, Sue si riebbe davanti a un muro vuoto. Il quadro era sparito, lei era illesa e alle sue spalle era riapparsa Miss von Weizsäcker con un vaso in mano colmo di terriccio umido.
«Venga qui!» strombazzava. «Non abbiamo finito!»
Sue raggiunse la sua sedia e tentò di mascherare lo spavento, ma lo sguardo cercava il muro con insistenza. Era certa di aver visto il quadro di una donna, di aver avuto il suo sangue bollente sulla mano, del dolore. Eppure, davanti aveva solo l'anziana Miss stizzita. L'aveva immaginato?
«Proseguiamo con l'Accertamento dell'Abilità.»
Sue sbiancò. «Accertamento?» Deglutì. «È davvero necessario? Insomma, sono...»
«Sì. È la prassi.» Miss von Weizsäcker posò il vaso sulla scrivania e impose: «Contiene dei bulbi. Li faccia crescere».
Non poteva. Le parve impossibile che sua sorella non avesse pensato all'Accertamento. Era spacciata. Si paralizzò.
«O-ora?» balbettò, inquieta.
«Ci sono problemi?» domandò la donna.
«No.»
«Bene, cominci!»
Ma una bussata le strappò un mugugno inviperito. «Avanti!»
La porta si spalancò. Il cuore di Sue le balzò in gola mentre faceva capolino una figura dalla carnagione lattea, chioma corvina e il viso sinuoso come il muso di una gatta. Entrò con grazia felina nell'uniforme dell'Accademia dalla giacca d'un turchino acceso, abbinata al fine foulard annodato al collo.
«I-iris?» tartagliò Sue. Il palato le si prosciugò e odiò l'incertezza che le colorò la voce. Non vedeva Iris da tre anni e non era certa che fosse lei. Han le aveva assicurato che la ragazza, figlia del collega, Anteo Abrahams, non era in Accademia.
Per un lungo istante, Iris la fissò, immobile, con i grandi occhi celesti spalancati. Sembrò più interdetta di lei. Poi un sorriso le si aprì sulle labbra carnose lucide di gloss pescato. «Susanne. Per Hemera, sei davvero qui.» Si precipitò ad abbracciarla e Sue si stupì tanto che ricambiò a stento. Se fosse stata al posto di Iris, non l'avrebbe fatto. La rabbia l'avrebbe accecata.
«Credevo che fossero solo», si staccò e la squadrò, quasi volesse assicurarsi che fosse vera, «voci di corridoio. Frequenterai?»
«A quanto pare.» Non sapeva cosa dirle. Era sicura che il sangue le fosse defluito dalle guance mentre i suoi sensi di colpa le masticavano il cuore.
«Perché non ne parliamo nel mio alloggio? A cena.» propose Iris. Il tono diede a Sue l'impressione che fosse felice. Ma poteva davvero esserlo? Dopo ciò che aveva fatto?
L'idea di parlare per una cena intera di sé e dei suoi errori la terrorizzò. «Ecco, io non...»
«Insomma!» s'intromise Miss Von Weizsäcker. S'affiancò a loro rossa di rabbia. «Signorina, dobbiamo concludere l'Accertamento!»
Con un cenno alla bella scrivania, Iris affermò: «Mi pare che l'abbia già fatto».
Voltatasi assieme alla dirigente, Sue sbalordì: il vaso era colmo di fresie sgargianti. E mentre la donna applaudiva come una bimba strombazzando lodi, lei fu spiazzata. Non era stata lei, non poteva essere stata lei. Forse Iris? Impossibile. Ma allora, chi?
Non si rispose, si accorse a stento che Miss Von Weizsäcker le aveva ripreso a parlarle. «Mancano gli ultimi dettagli. Un'ora e abbiamo finito» diceva trafficando coi fogli sulla scrivania.
«Allora, ti aspetto» le cinguettò Iris, fin troppo allegra. «Il mio è l'alloggio 159.»
Sue deglutì. «Iris, non...»
Ma l'altra la fermò. «Dimmi di sì.» Il sorriso perfetto assunse una sfumatura rabbiosa. «Me lo devi.»
᯽᯽᯽
L'Aveyard Clare Academy vantava di svariati ambienti comuni: mense, piscine, giardini, campi d'allenamento, zone costruite apposta per ogni Abilità Iskra. Ma il luogo che Iris amava era più semplice: il cortile interno dell'ala Est, ciottolato e incastonato tra la Biblioteca, l'Osservatorio e il Vivaio. Ignorato da tutti, era il posto perfetto per sbollire.
Seduta su uno dei muretti del porticato, Iris rimuginava furente. Neanche l'aria profumata che arrivava dal Vivaio la calmava, a stento frenava le scintille azzurre che le correvano sulle dita, perché Susanne era in Accademia, per davvero. Dopo tre anni. Perché?
Il trillo del telefono della sua borsa l'attirò. Rispose. «Iniziavo a credere che non funzionasse.»
«Ammettilo», disse la voce di Josh al ricevitore, «è il regalo migliore che tu abbia ricevuto da questa mattina. Vuoi sapere il mio? Le matricole. L'ingenuità mi affascina.»
«Perverso» tacciò e lui ridacchiò. «Dove sei?»
«A destra.»
Iris si voltò. Con una sigaretta in bocca, il ragazzo in giacca viola la salutava dall'inizio del porticato. Chiusero la chiamata e lui la raggiunse con un sorrisetto sottile. Si appoggiò a una delle colonne. «Quindi?»
«Quindi, il migliore è stata la lettera del mio ragazzo» disse fiera. Amava le lettere di Areth: lui le sigillava sempre con della ceralacca azzurra, come i loro occhi. Le conservava gelosamente da tre anni. «Desolata.»
«Smielato, Abrahams.» Josh soffiò una nuvola di fumo rosso e l'odore dolcissimo aggredì la gola di Iris quando se la ritrovò in viso.
«E tu disgustoso» accusò, agitando la mano davanti a sé per liberare l'aria. «Vedi di non appestarmi con quella tua robaccia.»
«Myrciaria Ericea» corresse. «Una delle migliori creazioni degli Zivel Flora. Una vera esplosione per i sensi, entri in un modo tutto tuo.»
«Non mi interessa.»
«Sai cosa interessa a me?» ghignò. «Le lodi che mi devi.»
«Far entrare un telefono qui non è impresa da poco» ammise. «Bravo, Lars.»
«E?» continuò lui. «Non hai finito.»
«Avevi ragione.» Arricciò le labbra, cosa che odiava. «Susanne è qui.»
Josh sogghignò. «Ha un sorriso carino, sai?»
«Toglitelo dalla testa, Lars» sibilò acida. Si rigirò una ciocca corvina tra le dita. «Non merita complimenti.»
«In questi anni, l'hai decritta come se fosse uno di quei mostri della Cerchia Secondaria. È senz'altro una bugiarda e mente da schifo, ma darle della Necromant è una cattiveria bella e buona.»
«Come se non ti piacessero le cattiverie.» Saltò giù dal muretto, muso a muso con l'amico. «E non tirare in ballo i Necromant.»
«Perché no?» chiese mellifluo, un sorriso tanto bello quanto perfido in viso. «È così divertente.»
Iris sapeva che lo faceva apposta per irritarla. Replicò con la stessa moneta: gli rubò la sigaretta dalle labbra.
«Ridammela» si lamentò subito lui.
«Aspetta», cinguettò, il fumo rosso che le sfiorava il viso. Non aveva mai provato quella robaccia, solo l'odore la stordiva. La lasciava a Josh, a cui sembrava piacere fin troppo. «Potrei avere un'idea migliore per divertirci.»
«Cosa proponi?»
«Ricordi cosa successe al secondo anno?» domandò, riconsegnandogli la sigaretta. «Durante il discorso della rettrice?» Josh annuì, occhi scuri intrigati, e Iris sorrise. «Potrebbe essere giunto il momento di replicare.»
᯽᯽᯽
L'anziana Miss la liberò solo un'ora più tardi, a ridosso della cena. Oltre che con i libri per lo studio, le aveva ingolfato le mani con uno strano bracciale metallico, il Riduttore, che aveva la funzione di inibire l'Abilità al di fuori dell'orario delle lezioni. Le aveva detto di indossarlo solo l'indomani mattina e poi di non provare a toglierlo. A Sue importò poco, su di lei sarebbe stato inutile. E le aveva detto che presto la sartoria dell'Accademia avrebbe terminato la realizzazione della sua divisa e che sarebbe stata chiamata per ritirarla.
Si diresse all'ala Est dei dormitori. Si perse un paio di volte, osservando la famosa Accademia. Era come si diceva: gli edifici erano solidi, di marmo splendente, il lusso dei portici era quasi opulento e i giardini erano maestosi. Ma ciò che la colpì furono colori sgargianti delle divise: il viola era brillante, il rosso a dire poco carico, l'azzurro abbagliante. In particolare, la rapirono le uniformi dalla giacca giallo-dorata degli inquietanti Wizja: se da una parte s'abbinava ai loro occhi privi di palpebre completamente giallastri e alle screziature d'oro che solcavano la pelle glabra, dall'altra contrastava con il loro incarnato tale e quale a ossidiana lucida. Sue passeggiò con un misto di fascino e angoscia. Era tutto così bello e vivace, ma sentiva gli sguardi curiosi degli studenti su di lei, sulla sua schiena, mentre si dirigeva al suo alloggio per i futuri due anni.
Il 159, quello di Iris.
Quando arrivò, fissò la civetta, simbolo della Casata degli Abrahams, incisa sulla porta per un tempo indefinito. Non voleva entrare. Significava confrontarsi con la più grande amica della sua vita e con ciò che le aveva fatto. Ma doveva.
Abbassò la maniglia e oltrepassò la soglia, pensando a quanto quella coincidenza non dovesse essere tale.
L'accolse un salotto arioso, confortevole, traboccante di buon gusto e sobrietà sui toni del bianco latte e dell'azzurro cielo. Sapeva di pulito e di acqua di rosa. Le luci dei lampadari in vetro erano calde. La vista poteva scorrere libera dalla sinuosa scala di marmo bianco sulla destra alla raffinata sala da pranzo sulla sinistra, passando davanti alla grande porta finestra che dava sul largo balcone ammobiliato.
Avanzò timidamente finché non udì due voci parlottare lungo la scala.
«JC, stasera deve essere tutto perfetto» diceva ovattata la prima. Era quella di Iris. «Areth deve vedermi...»
«Come una gemma, Lady!» rispondeva la seconda, più matura, emozionata quanto una adolescente.
«No, un intero diadema!» La voce della ragazza si schiariva sempre più mentre il rumore dei passi sulle scale aumentava.
In tacchi scarlatti, Iris apparve. Scendeva i gradini uno per uno, a mento alto e splendente. Era sempre stata bella, ma in tre anni, aveva assunto una grazia e una femminilità che la rendeva una calamita per occhi. Si era cambiata. Indossava un abitino floreale bianco e blu dalla gonnella svasata che le esaltava il naturale vitino da vespa. La faceva sembrare una bambolina di porcellana dalle spalle strette.
Al seguito, aveva un'Asservita sulla ventina. Incoronata dalla sua stessa chioma bionda intrecciata, aveva un visetto paffuto, due luminosi occhi verdi e un nasino all'insù. Fu questa a trillare: «Lady, è arrivata! È arrivata!»
«Decoro, JC. Occupati degli effetti di Susanne e poi porta la cena, in silenzio» ordinò Iris. Mentre l'Asservita eseguiva, raccogliendo dalle mani di Sue borsa e Riduttore, la raggiunse a passo lento, con un sorriso criptico. «Per di qua.»
Sederono al grande tavolo della sala da pranzo e nessuna delle due parlo per minuti. Iris mangiucchiò appena uno dei fagottini ai crostacei. Sue, tesa, seppe solo bere con avidità l'acqua e punzecchiare la pasta mentre tentava d'evitare lo sguardo dell'altra, che si posava su di lei talvolta inquisitoria talvolta truce. Sapeva cosa avrebbe dovuto dirle, ma non come. Come l'avrebbe presa? Male, ne era certa.
Dovrei chiederle scusa e chiudere questa storia.
Ma prima che potesse aprire bocca, Iris l'anticipò: «Allora, Zivel Flora, giusto?»
«Sì», mentì di getto Sue, in un farfuglio. «Tu?»
«Krafti.» Sulle dita le baluginò un luccichio turchino. «Manipolare l'energia luminosa è molto divertente e le Formulazioni per farlo non sono così complesse. Personalmente, sono davvero brava. La sola pecca è il Riduttore: quando blocca l'Abilità è come cadere nel buio. Orribile e soffocante.»
«Davvero?»
«Non so come lo viva un Flora, ma saprai dirmelo domani, quando li attiveranno.»
«E...come stai?» azzardò Sue.
«Una meraviglia» dichiarò soave. Sorbì uno striminzito sorso d'acqua. «Mio padre ha Allontanato mia madre. Frequenta un'approfittatrice rifatta e più giovane di trent'anni. E ha ripreso a cacciare. Una fortuna: passa più tempo all'aria aperta con le tasche leggere. Oh, e mia sorella ha deciso di alleggerire il mio desiderato futuro, succedendo lei a nostro padre nella Convergenza.» Sorrise affilata. «Novità divertenti, no?»
«Iris, mi spiace. Non... lo sapevo.»
«No?» canzonò, tamponandosi le boccuccia col tovagliolo. «Strano. Gli Allontanamenti dalle Casate di Sangue sono chiacchierati. A tutti piace il dramma altrui, figuriamoci un membro della Convergenza che torna sulla piazza senza la mogliettina attorno. Se non sbaglio, se n'è parlato nell'intera Hemera per più d'un anno.» E soggiunse in una smorfia altera: «Dovevi essere molto impegnata per non sentire una singola parola sull'argomento in tre anni.»
Sue fece per dischiudere le labbra, ma Iris la incalzò.
«Qualunque scusa tu voglia rifilarmi... è stato per tre anni?»
«S-so che non è facile da capire, ma...»
«Facile?» ripeté acida quanto l'aceto. «Sue, tu sei sparita. Senza uno straccio di motivo» incolpò lapidaria. «Non vuoi sapere com'è stato il mio primo giorno in Accademia?».
L'angoscia la divorava. «Ti prego...»
«Chiedimelo» impose ferrigna.
Sue avrebbe voluto tapparsi le orecchie. «Com'è stato?»
La giovane Lady sfoggiò un sorriso perfetto. «Saltavo di gioia. Ero fuori di me dalla felicità all'idea che avrei passato cinque anni con te.» La voce divenne d'un colpo amara. «Sai, perché sei proprio in questo alloggio? L'avevo chiesto io, tre anni fa, e una volta assegnati la dirigenza non li cambia.»
«Iris...»
«Volevo farti una sorpresa» continuò risentita. «Per settimane ho immaginato le colazioni sul terrazzo, i tragitti verso le aule, le frivolezze.» Si morse le labbra, indignata. «Quella mattina ti ho aspettato sulla soglia dell'accademia per ore. Ma tu non arrivavi.» Il tono era rabbioso. «Mi sono preoccupata. Ho provato a chiamarti: niente. Ho provato a chiamare tua sorella: zero. Ho pensato al peggio. Poi ho saputo. Immagini come mi sia sentita quando mi è stato riferito che sarei stata sola per cinque anni in quest'alloggio, visto che la mia migliore amica, senza dirmelo, non si era mai iscritta all'Accademia?»
Furono parole sputate in un ringhio di dolore feroce. E la risposta che seguì, a voce incrinata, fu ancora peggio:
«Un'idiota. Mi sono sentita un'idiota».
Con i sensi di colpa lievitanti, Sue abbassò lo sguardo. Non era in grado di guardarla.
Ricordava quel giorno di tre anni prima, l'inizio dell'Accademia, e quella chiamata. Era rimasta immobile sul letto, con le gambe tremanti di paura strette al petto, permettendo a Hannaline di distruggerle in telefono sotto gli occhi, di recidere ogni suo legame col modo. Quel giorno era stato il primo della sua nuova vita lontana dalla società perché, come diceva sua sorella, non era un'Iskra e nessun Privilegiato si sarebbe sognato d'accompagnarsi con una ragazzina al pari di un'Asservita.
«M-mi dispiace.»
«Non mi basta. Due paroline non mi bastano» disse granitica Iris. «Abbi il fegato di dirmi la verità. Ero la tua migliore amica.»
«Lo sei» si precipitò a dire Sue.
Lo sguardo celeste fu torvo. «Spetta a me deciderlo.»
Calò un breve silenzio, in cui Sue esitò. «Iris, so di aver sbagliato. E non lo nego. Mia sorella...»
«Facile scaricare la colpa su di lei.»
«Non voglio farlo, ma ho lasciato che decidesse per me». Inspirò, cercò coraggio. «La verità è che non ho un'A...» Si bloccò.
Sarebbe stato semplice dirlo. Doveva continuare, aggiungere sei lettere. Ma poi? Come avrebbe reagito Iris? Cosa sarebbe successo alla sua Casata e a lei, erede alla Convergenza, se la sua inabilità fosse diventata di dominio pubblico? E Han? L'avrebbe odiata più di quanto già non facesse.
Non riuscì.
«Una giustificazione» concluse. E continuò, più sincera. «Ho sbagliato e ti chiedo scusa. Però sono qui, ora.» Le afferrò la mano. Iris non si ritrasse. «E tu sei sempre stata la persona più importante della mia vita. Non possiamo rincominciare?»
«Ti sei persa molte cose» mormorò Iris, cupa.
«Abbiamo il tempo per recuperare. Io voglio, tu no?»
Seguì un'attesa che portò Sue entrò in uno stato simile all'apnea: osservò la sua più cara amica rimuginare e si sentì logorare. Furono pochi istanti che valsero ore.
Poi Iris disse: «Possiamo provare». Sorrise appena. «Ma non deludermi.»
Sue ricambiò, ma dentro di sé si chiedeva quando l'avrebbe fatto. Sapeva che l'avrebbe delusa, perché non era stata sincera.
A distrarle sopraggiunse a passo trotterellante JC1331, accalorata, con un vassoio dorato in una mano e l'altra nascosta dietro la schiena. «Lady, mi duole interrompevi, ma... la stanno cercando al... quello» farfugliò, criptica.
Sue lanciò un'occhiata interrogativa all'amica, che chiarì. «Intende il telefono. Non sono permessi, se vuoi mandare un messaggio a qualcuno devi usare carta e penna. Quindi, acqua in bocca» L'amica si alzò con grazia e l'occhio le cadde sul vassoio tra le mani di JC. C'era una busta, giallastra e chiusa da una colata di ceralacca non pressata. «È per me?»
«No», rispose ligia la domestica. «Per Miss Bertrán.»
Sue si stupì. «Per me?»
«Scommetto che è tua sorella» disse Iris, e ridacchiò al terrore che passò sul viso di Sue. «Leggi pure. Torno subito.» E si avviò.
Sue, invece, prese la busta e fece per aprirla, ma la domestica la interruppe con aria costernata. Dondolava sui talloni. «Miss, c'è un'altra cosa» biascicò tale e quale a una bimba colpevole. Rimosse la mano da dietro la schiena e le mostro...
«La mia borsa?» chiese Sue, perplessa. «Cos'ha?»
All'inizio, JC incespicò. Poi prese coraggio e bisbigliò infervorata. «S-si è... mossa!»
«Mossa?»
«P-posso giurarlo! L'ho vista coi miei occhi! Non la smetteva più, Miss! Così... l'ho chiusa... ehm... nell'armadio.»
«Chiusa nell'armadio?»
«A... più mandate. Per un po'.»
Con un'ipotesi in mente, Sue la ringraziò, prese in consegna la borsa e aspettò che JC ritirasse i piatti. Poi sola, l'aprì. Sotto alla sua agendina rossa, vide un filo d'erba spuntare. «Inquy» sibilò.
L'Emanazione senza volto si era ristretta un piccolo omino di muschio ed erba grande poco meno del suo palmo, che si dimenava come un forsennato. Lo aiutò a uscire e capì: «Sei... stato tu a far fiorire le fresie all'Accertamento».
Solo uno Zivel Flora poteva tradurre i fruscii di un'Emanazione, ma quando Inquy emise un suono stridulo, Sue seppe che poteva significare solo: "Ti ho parato le chiappe". Ed era vero.
Lo mise a terra. «Evita spaventare le persone. E non farti vedere o qui mi triturano» mormorò. Poi si dedicò alla lettera. Dubitava che fosse della sorella: era poco curata, senza mittente, non c'era traccia della maniacale osservanza delle regole di Hannaline. Ruppe con una mossa di polso la cera. Sperò che non fosse lei. Ne aveva abbastanza di Han: di sentire quanto fosse brava Han, quanto fosse educata Han, quanto atteso fosse il matrimonio di Han. Se fosse stata una lettera da parte sua, sarebbe stato un modo per ricordarle che doveva tenere la bocca chiusa e non imbarazzare la famiglia con la sua stupida inabilità.
Lesse.
Non era di Han.
Eppure, sbiancò.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top