47. Una famiglia da carrozzone
Non saprei descrivere questa situazione se non con un aggettivo preciso: surreale. È tutto così strano da sembrare fantastico, onirico. Da quando siamo scesi dall'ascensore, mi è sembrato di camminare in una specie di sogno a occhi aperti. Cos'è questa, la depersonalizzazione? Che orrore.
Che orrore tutta questa situazione. Assoluto, totale orrore. Serafina è palesemente in crisi totale, i suoi genitori sono rumorosi come pappagalli e il portinaio non fa altro che intimare silenzio. Aiuto.
Sua madre parla da circa dieci minuti, senza alcuna pausa. Ma come fa? Ha sproloquiato su tutto e di più e io ho capito solo che Serafina non ha mai telefonato abbastanza e che tutta la comunità si chiede tuttora che fine abbia fatto. Ovviamente non ho idea di cosa stia parlando, ma sono confuso da troppe cose per insospettirmi seriamente. Mi sento anche molto fuori luogo: perché mi sono imbucato a questa riunione poco gradevole? Mi tengo un paio di passi dietro di lei, ma sono comunque nel centro nevralgico della conversazione. Sicuramente non credono che io sia lì per puro caso, anche se tento di rendermi invisibile con il pensiero.
"Non avete ancora risposto alla mia domanda." Dice all'improvviso il mio capo, cercando di arginare il fiume di parole che sua madre le sta riversando addosso.
"Quale, Seraph?" Chiede la donna. Anche questo per me è motivo di stupore: continua a chiamarla Seraph. All'inizio ho pensato fosse un soprannome, ma ne abusa eccessivamente per credere che sia solo questo. Ho come l'impressione che creda che sua figlia si chiami così.
"Perché. Siete. Qui."
Questa volta Serafina ringhia, sporgendosi verso sua madre. Sono pronto a farmi sommergere da un'altra ondata di parole incomprensibili, ma mi sbaglio: questa volta è uno dei due uomini che interviene, il più giovane. Come l'altro indossa una canottiera, in questo caso nera come i capelli, su cui deve aver spremuto un'intera confezione di gel. Porta un crocefisso al collo e almeno sette dita su dieci indossano anelli. Assomiglia a Serafina in maniera impressionante: stessa forma del viso, stessi occhi scuri, stessa carnagione pallida. L'unica cosa che mi fa davvero dubitare che siano fratelli è il modo di porsi: dove il mio capo ha classe, dignità ed eleganza, questo energumeno ha spocchia e un'altezzosità che sfocia nella maleduzione.
"Senti un po', stronza. Noi ci siamo fatti un mucchio di ore di aereo per venire a vedere se eri ancora viva e l'unica cosa che sai dire è perché siete qui? Forse ti stai dimenticando cosa sei e dove dovresti stare."
"Cutter, basta." Dice sua madre.
"Chiudi quella fogna, Cutter." Sibila Serafina. "Non sto parlando con te."
Cutter, che a questo punto identifico come suo fratello minore, diventa tutto rosso dalla rabbia e fa un passo avanti, ma viene trattenuto dalla mano di suo padre. Il signor Celli ha tutto tranne l'aspetto raccomandabile: è alto tanto quanto sua figlia, ha i capelli brizzolati impomatati e una canottiera bianca che non nasconde una prominente pancia da bevitore.
"Ma hai sentito come si rivolge a me, pa'? Non mi faccio trattare così da nessuno, men che meno da una femmina."
"Stai zitto, Cutter."
L'intimazione dell'uomo adulto mette a tacere il giovane, ma subito dopo il primo prende il posto del secondo: "Hai dimenticato l'educazione che ti è stata impartita, Seraph?"
"Non ho più dieci anni. E gradirei una risposta: non dovevate arrivare prima del mese prossimo. Perché siete qui?" Taglia corto Serafina, sconcertandomi. Normalmente, se uno tentasse di trattarla in questo modo, si beccherebbe cinque dita impresse a fuoco nella carne della guancia. Più che troncare il discorso, avrebbe troncato l'interlocutore.
Da come le sopracciglia dell'uomo si aggrottano capisco che non ha comunque gradito il modo con cui sua figlia gli si è rivolta, ma prima che possa redarguirla, sua madre interviene di nuovo: "Perché è più di due anni che non ti vediamo, Seraph. E si è aggiunto un piccolo cambiamento."
Serafina si oscura più di prima. "Che piccolo cambiamento?"
"Angel ha partorito. Una bambina! La mia prima nipotina! Non era prevista così presto, ma a quanto pare lei e Tommy non hanno fatto bene i conti."
"Per non dire che era già incinta quando l'ha sposato."
"Stai zitta." Latra suo fratello, di nuovo inferocito. "Non hai diritto di parlare, tu, che sei la vergogna della famiglia."
"Cutter." Abbaia il signor Celli.
Sono sempre più sconcertato: i due uomini si comportano più come cani da lotta in un canile che come persone. La poca gente che passa per l'ingresso del palazzo non fa altro che guardarli a causa delle loro esplosioni vocali e delle parolacce senza filtro. Il custode esce di nuovo dalla sua stanzetta e intima il silenzio con un sonoro SHHH.
Non l'avesse mai fatto: Cutter Celli si volta verso di lui e anche se l'uomo fa un passo indietro, gli va incontro minaccioso, alza le braccia e sbraita: "E tu che cazzo vuoi? Eh? Che cazzo vuoi!?"
"Io ora chiamo la polizia!"
Penso che questa sia la goccia che fa traboccare il vaso, perché Serafina non ci vede più dalla rabbia, lascia il suo posto davanti a me e si dirige a grandi falcate verso suo fratello. Cutter non si accorge di niente fino a quando lei non l'afferra per un braccio e con una forza soprattutto dettata dalla disperazione lo spinge verso l'ingresso. Suo fratello si volta, pronto a rispondere all'aggressione, ma Serafina lo lascia lì e va a recuperare i suoi genitori, dicendo loro: "Uscite."
"Ma, Seraph!"
"Siete in albergo, no? Bene. Immagino sarete stanchi. Perciò ora ci tornate, vi riposare e stasera passo da voi a parlarne. Io sto lavorando qui."
"Lavorare." Sputa Cutter, senza riuscire ad apparire davvero sarcastico quanto incazzato. "Ecco perché non sei una vera donna."
Provo all'improvviso una rabbia violenta verso quel ragazzotto maleducato e indisponente, quasi che per un istante ho proprio l'intenzione di mettermi in mezzo, tirargli un pugno sul naso e dirgli di tornare a fare il criminale sboccato nel buco da cui proviene, ma fortunatamente ci pensa sua madre, quella dei tre che sembra avere almeno un briciolo di accortezza in più, a fermare una sceneggiata da telenovela sudamericana pronta a consumarsi sul mio posto di lavoro.
"Che ne dici, Mikey?" Propone al marito, guardandolo ansiosamente, in cerca di quella che sembra approvazione. L'uomo, pur essendo quanto mai infastidito più dal comportamento della figlia che dalla sfuriata del figlio, lancia un'occhiata in tralice al portinaio rimasto sulla porta, che ha una mano posata minacciosamente sul telefono, e decide che il gioco non vale la candela.
"Appena finisci qui" dice contrariato, "presentati al Four Seasons."
Serafina annuisce con una calma che non le si addice, si fa da parte e li fissa. Attende che loro decidano di uscire per conto proprio. Io li osservo e quasi per caso sposto lo sguardo su Cutter. Se le occhiate potessero uccidere, io sarei qui in un mucchietto di cenere. Non so cosa abbia di sbagliato quel ragazzo, ma provo l'improvvisa e sgradita sensazione di essere un testimone scomodo, come quelli che si trovano coinvolti loro malgrado nei crimini di mafia. Cerco di rispondere a quegli occhi furiosi, ma so di non esserne in grado. Sostengo lo sguardo per qualche istante, poi lo abbasso frustrato.
"Cutter."
Viene richiamato, fortunatamente per me. Si volta e senza neanche fare un cenno alla sorella, esce a passi pesanti dall'edificio. Serafina chiude la porta a vetri dietro di loro e rimane girata a guardarli mentre si allontanano. Dopo dieci secondi il portinaio, come una chiocciola scazzata che caccia fuori le antenne dopo un temporale, esce dalla sua stazione, rovescia le braccia sui fianchi e apostrofa infastidito il mio capo: "Beh? Si può sapere chi erano quei personaggi a dir poco folkloristici?"
"La mia famiglia." Risponde lei, atona. La sua voce spenta mi spaventa. No, di più: mi terrorizza. Smetto di stare fermo nel punto in cui Cutter mi ha inchiodato e le vado incontro. Non ho capito un sacco di cose e ho come la sensazione che vivrò uno sgradevole quarto d'ora a breve, ma ora la cosa più importante è recuperare Serafina. Le vado incontro e le poso delicatamente una mano sul braccio nudo. Ha lo sguardo perso nel vuoto, ha assunto uno strano colorito giallastro.
"Sef?"
"Cos'ho fatto di male, Jess?"
Vi è mai capitato di avere un amico particolarmente tosto? Quel tipo di persona che non si abbatte mai, che ti sostiene sempre, che accetta le lagne di tutti e regala consigli, strigliate e affetto? Se l'avete, spero che non vi sia capitato e che non vi capiti mai di vederlo crollare. Quando una persona come Serafina crolla, non c'è nessuno come lei che la sostenga come dovrebbe. Tanti rametti non possono sostenere una colonna di marmo. Proprio così mi sento, un rametto inutile, secco e pronto a spezzarsi tanto quanto lei, quando la vedo smorta e spaventata. Sembra spiritata, come se avesse visto uno dei suoi demoni. Forse non ci vado così lontano, come descrizione.
"Non hai fatto niente di male, Sef."
"Devo averlo fatto. Per forza. Altrimenti non mi sarebbe capitata una famiglia del genere. Non sarei nata in quella famiglia."
"Non decidiamo dove nascere. Figurati, non decidiamo neanche in che corpo abitare."
Questa volta mi guarda. Mi lancia uno sguardo tormentato e alla fine sospira. Nel suo sguardo torna un po' della durezza a cui sono tanto abituato.
Non aspetto che lei mi dica qualcosa. Sono io che ho qualcosa da dire.
"Penso che tu abbia passato sotto silenzio un bel po' di cose. No, Seraph?"
Lei stringe le labbra in una riga dritta e bianca e i suoi occhi diventano onice e ghiaccio.
"Mi ha sempre fatto schifo quel nome."
"Decisamente."
"Decisamente cosa?"
"Mi dovrai spiegare un bel po' di cose."
Rimane in silenzio, sempre con le labbra ben tirate e l'espressione che farebbe paura perfino a quel Cuor di Leone di Auburn-del-secondo-piano.
"Già." Conclude alla fine. "Temo di doverti delle spiegazioni."
"Fammi indovinare solo una cosa."
"Eh."
"Vengono da qualche ghetto?"
"Cosa?"
"Non so, magari dall'altra parte degli US ci sono ghetti di persone così."
"No. Nessun ghetto."
Stiamo in silenzio un pochino, valutando la nostra nuova posizione. Vorrei farle trecento domande e sono curioso, nonché un poco offeso per essere rimasto all'oscuro di tutto per quasi sei anni. Probabilmente Serafina ha lo stesso problema: sa di non essere stata del tutto sincera e ora non sa come iniziare a spiegarmi.
"Lasciami dire prima di tutto che c'è un motivo per cui nessuno lo sa."
"Cosa?"
"Cosa sono."
"Tu?"
"Io e quelli che hai visto uscire. Quei tre tizi strambi."
"Non mi dire. Sei nata in prigione."
"Figurata. Comunque è peggio della prigione."
"Un circo?"
"Fuochino."
"Come fuochino?"
Questa volta il suo sospiro ha qualcosa di arreso. Totalmente, terribilmente, su tutti i fronti arreso.
"Jess, sono una romanichal."
Fisso lo spazio davanti a me senza vederlo. Dove ho già sentito questa parola? Perché sono certo di averla già udita da qualche parte. Forse in TV? Aiuto, non me lo ricordo.
"Non ti offendere, ma mi sfugge il concetto."
"Va bene. Me lo vuoi proprio tirare fuori dai denti."
"Senti, io non sono così informato, soprattutto se si tratta di qualche setta religiosa e..."
"Jess." Mi zittisce lei e questa volta ringhia. Finalmente! "Sono una gypsy."
Well, I didn't see that coming.
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