6.
Si risveglia con un mal di testa che batte sulle pareti del cranio. Quando apre gli occhi, la luce l'abbaglia, facendo aumentare il ritmo del battito nel cranio. Che ore sono? È più tardi delle nove, direbbe da quella luminosità insolita.
Quel mattino il male si concentra sulla caviglie. Non ha particolari problemi a mettersi in piedi, ma quando cammina degli artigli invisibili la afferrano dal basso e stringono forte. Zoppica, reggendosi ai letti che si succedono nella stanza.
Della notte appena passata, ricorda solo quel ragazzo col berretto. Il profilo secco, i contorni arrossati e confusi dal tramonto alle sue spalle. E poi un'agitazione continua, che l'ha svegliata più volte nel corso della notte. Ogni volta con un sobbalzo diverso, sempre con un graffio che certificava il risveglio lento ma perenne del dolore. Per il resto c'è stato un buio senza sogni: solo vaghe immagine di sua figlia che ha già dimenticato. In fondo, si aspettava di peggio, quindi l'arrivo del mattino è un sollievo.
Sente una gran voglia di parlare a Michele. Ha la bocca secca, la lingua allappata, un leggero bruciore alla base della gola. Ma è sicuro che a trovarselo davanti tutto scomparirebbe, come neve sciolta dall'arrivo della primavera.
Il pomeriggio arriva veloce. Dopo il consueto riposino sul letto, si alza e cammina verso la sala comune. Michele è già lì. Anna incrocia il suo sguardo appena entrata nella stanza. Si scambiano un sorriso, lei sente le guance che si accaldano.
Si siedono di nuovo sulla panchina a dondolo. Qualche nuvola spessa e grigia copre il sole, ma l'aria è immobile e l'afa soffocante. Non c'è nessuno fuori.
«Come stai?» chiede lui.
«Bene». Non è del tutto vero, ma non vuole esporre le sue debolezze a Michele. Però, dal modo in cui la guarda, con la bocca un po' incurvata e la testa piegata di lato, le sembra che lui abbia capito la bugia. Un vuoto gelido le prende il petto e incrocia le mani sul seno, come se fosse nuda. «Tu?»
«Anch'io» dice lui. Ma c'è sempre quell'ombra scura, nel fondo dei suoi occhi. «Ieri mi hai parlato di quando Marta ha invitato a casa le amiche».
Anna annuisce. Poi, ridacchiando, chiede: «Non è che ti annoi, a starmi a sentire?»
«No, anzi, mi fa piacere che me ne parli».
Il gelo nel petto sparisce, sostituito dal soffio di un fuoco già acceso che si rinforza. «Anche a me. Nel senso, anche a me fa piacere, parlartene».
«Continua, allora». Ha il viso inclinato e sorride. Anna nota i due incisivi, piccoli e squadrati, con uno dei due che tende al giallo. Senza sole, i suoi capelli prendono una sfumatura diversa. Sono più scuri, e per contrasto la radice grigia salta più all'occhio.
«Sì. Quando è successa quella cosa, quando ha invitato le amiche a casa, aveva dodici anni, forse tredici. Faceva ancora la scuola media. Da quel giorno non l'ho mai vista con un amica: se ne stava sempre in casa, rinchiusa in camera a fare chissà che. La sua voce... sai, mi ha parlato così poco che non la ricordo nemmeno». C'è solo una frase che ricorda ancora. Quella non se ne andrà mai dalla sua mente: ne è convinta. Ripensa ai silenzi imbarazzanti a tavola, quel suo sguardo nero che non si fermava mai sui suoi occhi. E ancora la bava che viene giù dall'angolo delle sue labbra. Era quello che le faceva pensare che fosse un po' autistica: l'accumulo di pensieri, come tentava di spiegarlo lei, non poteva giustificare la perdita di controllo sul corpo. Anna aveva sempre la sensazione che non stesse facendo il meglio per sua figlia, ma non riusciva mai a capire come potesse comportarsi per migliorare come madre.
«Io iniziai a lavorare la sera, uscivo alle tre e tornavo alle otto. Lei la mattina era a scuola, quindi da quando aveva quindici anni non siamo mai state insieme per tanto tempo. Facevo giusto in tempo a guardarla tornare da scuola, mentre stendevo i panni sul balcone. Camminava tutta storta, con lo zaino che le ingobbiva la schiena e il viso... addormentato, diciamo. Poi mangiavamo insieme, lei non parlava mai e se ne andava subito in camera. Tornavo la sera ed era la stessa cosa: non ci scambiavamo mai una parola». A volte le viene un dubbio. Chissà se Marta le voleva bene, si chiede. Spera di sì, perché almeno vorrebbe dire che gli sforzi che ha fatto per lei in tutti quegli anni non sono andati persi. Eppure c'è quel vuoto che ancora la tormenta, tra la pancia e il petto. Già, magari Marta le voleva davvero bene, ma non gliel'ha mai dimostrato, e lei non ha nessuna prova dell'affetto di sua figlia. Di fatto, non le è rimasto nulla, se non quel vuoto. «Ieri ti ho detto che non è mai uscita dalla città. Non è vero, in realtà, o almeno non del tutto. Una volta, una domenica di estate, volevo portarla al mare. Nella strada ci siamo fermati a un autogrill. E lei... non lo so, ha iniziato a star male. Si è fatta tutta bianca, stringeva le labbra. Poi ha vomitato di fronte a tutti, davanti alla macchina. Mi preoccupai un sacco e la portai in ospedale, ma mi dissero che non aveva niente. Io non ho ancora capito, però. Non fingeva, perché tremava tutta. Me ne sarei accorta. Però, cos'aveva, allora? Forse era troppo abituata alla città, e allontanarsi la faceva star male». La spiegazione che si dà non la convince. Dev'esserci qualcos'altro, sotto; qualcosa che lei non ha mai capito. Una delle tante cose che non ho capito, di lei. Un artiglio gelido la prende alla gola e le mozza il respiro, chiude gli occhi per bloccare le lacrime.
Quando li riapre, si ritrova gli occhi di Michele che le perlustrano l'anima. Grigi, ma in qualche modo splendenti. Non sa perché abbia quella sensazione, ma si sente nuda. Un brivido piacevole attraversa l'interno delle cosce e lei sospira. «Che c'è?» chiede lui, ridendo.
Anna sorride. «Niente, stavo pensando». Passa qualche secondo e un altro brivido le fa inarcare la schiena. «Comunque, dicevo, alle superiori non stavamo insieme per niente. Poi, quando aveva diciassette anni, iniziò a frequentare un ragazzo. Io li vidi una volta sola, sempre dal balcone. Si tenevano la mano, in lontananza, poi dopo qualche passo se la lasciarono e si scambiarono un bacio. Lui cambiò strada, lei proseguì dritto. Non le dissi niente a tavola, sia perché non eravamo abituate a parlare, men che meno di ragazzi, sia perché non volevo che reagisse male. Un'altra volta, mi dissi. Mi venne in mente di informarmi sul ragazzo, però, magari chiedendo a qualche amica, per sapere se fosse un tipo a posto. Però non l'avevo neanche visto e non sapevo di chi chiedere». C'è sempre quell'immagine nella mente. Il berretto calato mollemente sulla testa, il sole che tramonta che gli fa i contorni sfocati. Non può immaginarselo in altri modi, nonostante non sia neanche sicura di aver mai visto quell'immagine sul serio.
Tace per qualche secondo e respira a fondo. È il momento più doloroso, quello che sta per venire. Non si sarebbe mai aspettata di arrivarne a parlare con un uomo prima di allora. Per un attimo la sua determinazione vacilla. Vorrebbe alzarsi, scappare via da lì. Magari in un altro mondo, chissà, un mondo in cui il dolore non esiste. Il dolore dell'artrite che sfrega le caviglie, il gelo che torna a prendere possesso del suo petto.
«Non ti va di continuare?»
È incredibile come quell'uomo riesca a rubarle ogni pensiero. Da un lato la cosa la affascina, ma dall'altro la inquieta. Però c'è quel focolare nel petto che si va riscaldando. Va un po' meglio, adesso, e se la sente di andare avanti. «No, no, voglio finire». Però non sa che strada prendere per raccontare il prosieguo di quella storia. Poi chiede: «Cos'è una storia, secondo te?»
Michele, per la prima volta, sembra spiazzato. Anna non riesce ancora a leggere le emozioni che solcano il suo viso, ma all'improvviso ha cambiato postura, la fronte si è corrugata e un mezzo sorriso si è formato sulle sue labbra. Lo guarda per qualche attimo. Non capisce perché, ma le fa piacere sapere che lui non è riuscito a spiarle anche quel pensiero.
«C'è un giallista di cui ora non ricordo il nome, uno di quelli americani, che sostiene una cosa del genere: una buona storia, o nel suo caso un buon giallo, è come un puzzle. L'ordine dei pezzi si rivela gradualmente e alla fine tutto deve quadrare, chi ascolta la storia deve avere la visuale completa su ciò che è successo».
«Interessante» dice Michele. Quell'espressione incerta – il sopracciglio che si inarca, i denti che mordicchiano le labbra – non si è ancora dissipata. «Però la vita non è proprio così».
«Esatto, la vita non è così. Quando l'ho letto ho pensato la stessa cosa. Sai com'è, questa storia? Non come un puzzle. È come un pezzo di vetro che esplode in mille pezzi. Alcuni cocci si conficcano nella carne e fanno male, altri si perdono, altri sono troppo confusi per metterli insieme. Non c'è un quadro preciso, non puoi ricreare il vetro così com'era prima. Ci sono solo ipotesi, tutte che si smentiscono a vicenda».
«Lo so, capita spesso. Anche se non ci avevo mai pensato con queste parole».
Anna annuisce. Fa scrocchiare le dita, guarda all'orizzonte. C'è una linea di divisione netta tra il giallo dei campi e il grigio del cielo.
«E poi, che è successo?»
Già, "e poi". E quel "e poi" che l'ha perseguitata per tutti quegli anni. Quella domanda senza risposta, quei cocci di vetro che le bucavano l'anima.
E poi non lo sa, di preciso, cos'è successo. Ma quel poco che conosce non lo dimenticherà mai.
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