Capitolo VI

" Tesoro scusa, non avevo idea che fossi qui con Vincent!"

Dee l'aveva ripetuto un centinaio di volte da quando aveva visto Vincent aprirle la porta e sgusciare fuori dalla camera.

" Non importa, vado a letto."

In realtà ero piuttosto seccata, ma stavo cercando di non darlo a vedere. Peraltro mi stavo infuriando sempre di più perché Dee, nonostante si fosse già scusata, continuava a guardare il cellulare mentre parlavamo. Dopo un po', quando mi ero già lavata e vestita per andare a dormire, finì di scrivere un messaggio e mi porse la mano, come a darmi il via libera per parlare ora che aveva smesso di farsi i fatti suoi.
La liquidai con uno sguardo infuocato e, senza darle modo di parlare, mi raggomitolai sotto le coperte fingendo di dormire. In verità finsi solo per qualche istante perché, dopo che l'adrenalina per Vincent era scemata, la stanchezza si era fatta sentire più forte di prima. Mi addormentai velocemente, sapendo fin troppo bene che ben presto mi sarei di nuovo svegliata.

" Cecy, svegliati."

Lara mi stava scuotendo dalla spalla in maniera un po' troppo violenta. Mi osservava preoccupata e infastidita alli stesso tempo.
Avevo già intuito cosa fosse accaduto, ma lei me lo chiarì pochi istanti dopo.

" Ti stavi lamentando Cecy, ti lamenti per il dolore da quasi un'ora."

La sua voce era vellutata, anche se sapevo che non mi aveva svegliata perché apprensiva, bensì perché non riusciva a dormire.
Sospirai, consapevole che non sarei più riuscita a prendere sonno. Mi domandai perché Dee non le avesse detto che, una volta svegliatami, non mi sarei più riaddormentata. Lei però era ancora a letto, anche se avrei giurato che avesse gli occhi aperti.
Mentre mi alzavo per andare in bagno, Lara mi pose una domanda dolorosa:

" Non puoi prendere una medicina?"

Me lo chiese innocentemente, ma io non riuscii a trattenere una risata amara. La fibriomialgia non aveva una vera e propria cura, solo terapie palliative che, se da un lato provavano a distruggere il dolore, dall'altro distruggevano sicuramente te stesso.
Scossi la testa e mi chiusi in bagno.

La sindrome delle gambe senza riposo, il motivo dei miei lamenti, era un conseguenza della malattia e mi impediva di dormire intere nottate senza svegliarmi. Non ricordavo l'ultima volta che avevo dormito per più di cinque ore di fila, eppure quella notte non ero triste per quello. Il fatto che Dee mi avesse ignorata completamente mi aveva ferito molto più di quanto fossi disposta ad ammettere.
Inghiottendo l'amaro in bocca, tornai a letto soffocando le lacrime.

Come previsto non avevo dormito granché, con la diretta conseguenza di essermi svegliata già sfinita. Avevo le gambe intorpidite e le articolazioni doloranti, oltre alla sensazione di mille aghi che mi trafiggevano la pelle. Per mia sfortuna la giornata prevedeva una visita al museo, un giro della città e poi tanto tempo libero alla Plaka, un celebre quartiere ateniese.

Trascorsa l'intera mattinata al museo, in cui Dee neanche mi rivolse la parola, i professori ci condussero senza interruzioni in giro per la città, mentre mangiavamo silenziosi e sfiancati il nostro pranzo al sacco.

Finalmente, dopo aver passato ore sotto il sole a camminare, ci lasciarono in una grande piazza, intimandoci di tornarvi entro e non oltre le 18.30.
Appena gli altri si furono dispersi, presi furtivamente la più grande pastiglia d'ibruprofene che fosse mai esistita e sperai con tutto il cuore che bastasse a tenermi in piedi per il resto della giornata.

" Quella per cos'era?"

Val, la t-shirt aderente al petto muscoloso, mi si era avvicinato di soppiatto. Durante la mattinata mi era sempre rimasto vicino, ma non avevamo parlato molto.

" Era un integratore" mentii.

Lui sembrava ancora dubbioso, ma non disse più nulla, dopotutto non aveva idea che fossi malata.
Mentre osservavo Dee allontanarsi nell'altra direzione con Lara, immaginai qualcosa dentro di me che si rompeva. Un peso mi si era appollaiato sul cuore e rischiava di farlo collassare alla minima pressione. Sapevo senza neanche rendermene conto che non avrei sopportato un'altra batosta, che un'altra delusione o un'altra '' crisi '' provocata dalla mia malattia mi avrebbero ridotta in ginocchio.
Ciononostante, mi voltai col sorriso sulle labbra e presi Val braccetto, come due fidanzatini.

" Andiamo" gli dissi iniziando a camminare.

Passare del tempo con Val era piacevole, nulla di più. Ogni sua battuta, ogni suo movimento, addirittura ogni volta che mi toccava erano intrisi da un profondo senso di mancanza.
Alle sue battute, mancava il sapore agrodolce di un sorriso canzonatorio, ai suoi movimenti l'aggraziato gusto di una spezia esotica. Quando mi toccava, mancava semplicemente una scintilla che mi desse fuoco, che mi accendesse di desiderio.
Lui, d'altra parte, continuava a toccarmi, tanto da essere quasi snervante. Come se non bastasse, ogni volta che allungava il braccio sulle mie spalle, ogni volta che mi prendeva la mano o che si avvicinava tanto da sentire il suo fiato sul collo, immaginavo due glaciali occhi azzurri e non, come avrei dovuto, verdi come il bosco.

Nonostante questo, però, Val rappresentava una situazione sicura che ero certa, certissima, di desiderare.
Anzi, non la desideravo, dovevo desiderarla.
Stare con Val sarebbe stato semplice, senza intoppi.
Non c'era nulla, almeno niente di cui mi fossi resa conto, che remava a suo sfavore.

Dopo un giro frettoloso per i negozi, ci sedemmo su una panchina e Val mi strinse più vicina a sè.
In volto era un mix fra un'espressione calcolatrice e una adorante. Nell'insieme, dava l'impressione di sapere perfettamente cosa voleva ma non aver chiaro come ottenerlo.

Ricordai quando, da bambini, Val era solito mettersi a piangere se voleva un giocattolo con cui qualcun'altra stava giocando. Più in là, da ragazzini, si infuriava quando qualcuno si rifiutava di passargli i compiti.
Perché Val aveva sempre avuto ciò che voleva e anche stavolta lo avrebbe ottenuto.
A un tratto, mentre sembrava perso nei suoi pensieri, mi afferrò dalla nuca e girò il mio viso verso il suo.
Appoggiò le sue labbra sulle mie e mi baciò voracemente.
Un vortice di emozioni mi si scatenò nel petto.

Era tutto perfetto, volevo che lo fosse.

Le sue dita fredde si infilarono sotto l'orlo della mia maglia, i polpastrelli che lasciavano una scia ghiacciata lungo la mia schiena.
Eppure, mentre mi baciava, provavo meno della metà delle emozioni che un semplice sfioramento di labbra con Vincent mi aveva procurato.
Sentivo un enorme vuoto dentro, una mancanza che bruciava ogni secondo di più.

Quando si staccò da me, mi strinse contro di sé e poggiai il viso sulla sua spalla.
Davanti a noi, tre bambine facevano ruote e giravolte, sfidandosi a chi ne sapesse fare di più.

" Ricordi quando tu e Dee giocavate in questo modo, da bambine?"

La sua domanda bruciò più di quanto dovesse, provocandomi un brivido improvviso.
Lui evidentemente lo fraintese, perché mi attirò ancora di più verso il suo corpo.
Io e Dee ci eravamo conosciute all'asilo e insieme avevamo fatto la nostra prima lezione di ginnastica artistica. Dopo il mio incidente, non avevo più messo piede in palestra e lei era andata avanti senza di me; era uno dei nostri argomenti tabù, qualcosa di cui non si parlava.

" Perché dopo l'infortunio hai smesso, comunque? Eri una ginnasta fenomenale."

Intuì che quella frase fosse stata pensata come un complimento, ma la totale mancanza di tatto con cui la pronunciò mi strinse il cuore in una morsa dolorosa.

Ricordai che lui non sapeva della mia malattia, che non avevo mai voluto confidarglielo.
Pensai che fosse il momento adatto per dirglielo, che fosse importante che fra noi non ci fossero segreti.

" Mi è venuta la Fibriomialgia" gli sussurrai, come se non volessi che mi sentisse ma in cuor mio sperassi che mi ascoltasse. Avevo immaginato tante reazioni da parte sua, invece lui mi stupì ancora una volta.

" U-una malattia?!" all'improvviso mi lasciò andare e mi spinse più lontana sulla panchina.
Confusa, cercai il suo viso.

" Val, non è contagiosa stai tranquillo."

" Ma è pur sempre una malattia! L'avrai per tutta la v-vita?"

" È cronica, sì."

Mi ero già pentita di ciò che gli avevo detto, tuttavia non immaginavo il colpo di grazia che mi avrebbe inferto poco dopo.

" Scusa Cecily, ma allora io non voglio farmi coinvolgere. Non voglio una malata come compagna."

La collera sostituì velocemente il dispiacere.

" Come osi, stammi lontano idiota!"

Val si era già alzato, ma non potei trattenermi dallo spingerlo ancora più in là.

" Ti auguro una splendida vita in compagnia della tua sporca malattia, appestata." mi disse disgustato mentre si allontanava.

Mi girai per fronteggiarlo ancora, ma lui aveva già attraversato la piazza. Quando non lo vidi più, mi lasciai andare alle lacrime.

Piangere mi aveva svuotata fino all'ultima energia che avevo gelosamente conservato.
Un milione di domande mi affollavano la mente, prima fra tutte la motivazione dietro la paura di Val.
Ciò che era appena successo era così strano e innaturale che mi sembrava di averlo solo sognato.
Quasi mi aspettavo di vederlo tornare con due gelati e un sorriso sulle labbra, un sorriso per me.

Sentivo il peso del dolore che mi artigliava il petto;
avevo litigato con Dee e Val mi aveva ripugnata, non avevo più assolutamente nessuno da cui andare.
La mia intera vita,mi resi conto, girava solo intorno a loro. Tutto ciò che avevo fatto, che avevo pensato e che avevo subito dopo l'incidente si riconduceva solo a loro.

Per qualche ragione,mi accorsi, la ragazzina spaventata che ero stata, che si era appena infortunata e aveva visto il suo mondo disciogliersi e sgretolarsi, aveva preferito stringersi attorno a ciò che era stata e che aveva conosciuto prima del fatidico evento che l'aveva spezzata.
Lì, in quella piazza, fui sola per la prima volta, libera dalle catene di ciò che ero stata, eppure così desiderosa di riaverlo.

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