05. O NOX MIHI CANDIDA!

L'accampamento sembrava aver preso vita di colpo. Allo stanco vagabondare dei giorni precedenti si era sostituito un convulso fervore. I soldati canticchiavano e si lanciavano ordini da una parte all'altra del campo come se si stessero preparando a una giostra, piuttosto che al pericolo cui stavano andando incontro.

Il principe e i suoi capitani avevano subito passato in rassegna gli uomini per scegliere quelli che il generale avrebbe guidato nell'incursione notturna. Il resto della giornata era trascorso nel preparare le armi e gli incantesimi.

Dal suo nascondiglio, Silanna fissava quel trambusto. In cuor suo sapeva che era la mossa migliore che il generale potesse compiere per dare una svolta a quella campagna.

Nella frenesia collettiva, anche lei aveva predisposto ogni cosa. Aveva a sua disposizione potenti incantesimi di attacco, ma non era su quelli che avrebbe fatto affidamento. Avrebbe portato con sé le rune che le permettevano di curare a maggiore distanza e i bendaggi intrisi di magia. Era l'occasione giusta perché lui potesse notarla, non poteva sprecarla.

Fuori dalla tenda gli incantatori designati da Aegis si preparavano a incanalare le energie per dare vita allo scudo magico. L'elfa era giunta da poco nell'esercito di Galanár e si era subito unita al gruppo dei guaritori. Era ovvio che sarebbe rimasta fuori dalla cerchia di coloro che avrebbero partecipato alla prima fase dell'attacco, perciò quella notte lei avrebbe disobbedito agli ordini.

Al calar della sera Silanna coprì con il cappuccio le lunghe orecchie sottili e i capelli neri che si accendevano di riflessi blu. Confondendosi con l'oscurità, si allontanò dalla sua schiera e si diresse a est dell'accampamento.

Il gruppo di prescelti era pronto. I cavalli, allineati in ordine, erano impazienti e gli arcieri si stavano posizionando lungo i fianchi della colonna. Senza farsi notare, si mescolò tra loro e avanzò fino a scorgere le prime file dei cavalieri. Doveva trovare lui.

Percepì uno spostamento d'aria alle spalle e sentì sfilare il cavallo argenteo portato da Galanár alla sua sinistra. Le piacque che fosse passato proprio da quella parte, lo interpretò come un segno del destino: sarebbe stata il suo braccio destro perché così volevano le stelle, o perché così voleva lei.

Chiuse gli occhi un istante e, quando li riaprì, vide che il suo principe aveva raggiunto la testa dello schieramento. Lo seguì con lo sguardo mentre legava i capelli con compostezza e indossava con un gesto lento l'elmo scintillante. La sua calma, il suo sguardo fiero, la sua sicurezza la colpirono profondamente. Aveva più volte sentito decantare le sue gesta e il suo coraggio, ma solo in quel momento comprese che nessuna parola poteva rendere giustizia a quella scena o eguagliare quella vista.

Il vento che soffiava da nord-est portava con sé rare foglie verdi mescolate alla polvere dell'Ambit. Galanár ne afferrò una e la strinse nella mano guantata. La osservò con cura e in quell'istante desiderò che fosse una foglia delle querce di Laurëlindon. La battaglia era così vicina che anche le terre degli Elfi gli sembravano più prossime. Il richiamo delle loro foreste risuonava ossessivo nelle sue orecchie. Lasciò volare la foglia e la guardò scintillare alla luce della luna, prima che sparisse alla sua vista. Il cielo era chiaro, troppo chiaro. Sarebbe stata necessaria tutta la magia dei suoi incantatori affinché lo scudo di invisibilità fosse sufficiente a coprire il loro passaggio.

Gli bastò sollevare la mano destra e la fila di uomini si mosse nella notte. Giunti all'imboccatura della gola, Galanár si arrestò e fissò lo stretto passaggio davanti a sé: due alte pareti di roccia fredda e inospitale si sollevavano da una parte e dall'altra dello stretto canalone. La luna le illuminava senza grazia e le faceva apparire più puntute e spaventose. La via era più stretta di quello che pensava e, una volta entrati, non ci sarebbe stato modo di tornare indietro, né spazio sufficiente per manovrare i cavalli alla ritirata. Di fronte a quell'evidenza, il generale trattenne il fiato: andava incontro al nemico senza nessuna possibilità di scelta.

Diede l'ordine al suo scudiero più svelto, che subito corse indietro, dove il maestro Aegis attendeva il segnale. Gli incantatori, protetti dai cavalieri e dai soldati, cominciarono a snocciolare a bassa voce una interminabile litania, evocando fasci di luce e di magia. Un'aura bluastra e brillante cominciò a sollevarsi oltre le teste dei soldati. Quando si fu innalzata di qualche metro, si sciolse in una lieve bruma, scomparendo nel buio: lo scudo era stato creato. Sotto quella nebbia del colore stesso della notte, l'esercito si inoltrò nel valico.

Tutti si spostavano in ordine e in silenzio perfetto, quasi temendo di infrangere le immense rocce che li circondavano. L'astro notturno incombeva sopra di loro e sembrava ingigantire le pareti livide. Un senso di angoscia pesava su quel manipolo di uomini, come se la terra dovesse chiudersi da un momento all'altro sopra le loro teste.

Mellodîn scrutava con insistenza la strada che aveva dinnanzi. Forse era la luce della luna che amplificava ogni ombra, o forse era quel silenzio innaturale a restituirgli l'immagine di uno spettrale esercito di fantasmi invece delle sagome familiari dei suoi uomini. A ogni modo quel passaggio gli appariva interminabile. Fremeva al pensiero che, nella loro cautela, stessero impiegando troppo tempo, che avessero sbagliato i calcoli circa le distanze da percorrere o che la durata dello scudo tenuto in vita dagli incantatori di Aegis non fosse sufficiente. Con l'istinto della guerra e con la chiaroveggenza dell'amicizia, sapeva che in quel momento i pensieri di Galanár erano identici ai suoi, anche se il principe proseguiva tranquillo, al passo sul suo cavallo d'argento, come se stesse facendo un giro nei boschi di Arthalion.

Il valico si interruppe e la strada di colpo si aprì in una radura che declinava disegnando un ampio gomito a sinistra. Oltre quel pendio, in una vallata nascosta, si stendeva il campo del nemico. Galanár si fermò al limite della discesa e lasciò il tempo all'esercito di defluire da quel budello, dispiegarsi alle sue spalle e assumere l'assetto da battaglia che aveva ordinato.

La precisione, in quel frangente, era più importante della fretta. La sua unica, vera angoscia era la luna, che brillava fulgida in cielo. Guardando i suoi uomini che si allargavano sulla spianata, gli sembrava che le loro armature rilucessero più che mai e che le spade scintillassero implacabili, assieme alle finiture dei cavalli. Era quasi impossibile non essere scorti, non appena superato il gomito che li nascondeva alla vista delle sentinelle.

Silanna doveva misurare ogni movimento. Aveva attraversato il lungo canale scavato nella roccia mescolandosi tra gli arcieri. Coperta com'era dal lungo mantello, nessuno aveva fatto caso a lei ma, appena gli uomini si fossero schierati ai loro posti, avrebbe dovuto trovare il modo per raggiungere le prime file di cavalieri senza che nessuno la intralciasse. Solo lei avrebbe vegliato su Galanár, solo lei lo avrebbe curato. E per farlo, doveva giungergli più vicino.

Cercò di intrufolarsi tra i cavalli, che si spostavano incitati dai sussurri dei propri cavalieri. Nessuno la fermò. Solo uno stallone nero si agitò al suo passaggio e Silanna ebbe la netta sensazione che due occhi la stessero scrutando con curiosità. Non si girò, per non mostrare il proprio volto, e si allontanò quanto più possibile. D'altra parte, obbligato com'era a rispettare la consegna del silenzio, quell'uomo che la fissava con tanta insistenza non avrebbe potuto comunque urlare per fermarla.

Quando pensò di aver trovato un punto favorevole, Silanna si fermò. Galanár era proprio alla sua sinistra, separato da lei da due file di cavalieri e alla portata dei suoi incantesimi. La sua armatura brillava sotto la luna ed egli appariva ai suoi occhi come una visione di luce, risplendente d'argento.

Qualcosa, però, sembrava turbare la perfezione di quella scena: l'esercito si era schierato, ma dalla testa non giungeva alcun comando. I cavalli, costretti all'immobilità, cominciavano a innervosirsi e a scalciare. Gli arcieri, con le frecce già in mano, scrutavano le prime file nel timore di perdere il segnale convenuto. Sospeso in un'ansia ingigantita dal silenzio, quel gruppo compatto assomigliava al corpo di un gigante acquattato, con i muscoli tesi in attesa del balzo, ma Galanár esitava. Aveva lo sguardo rivolto verso l'alto, mentre la sua armatura scintillava nella penombra. Di colpo Silanna comprese il motivo di quella indecisione: la sua armatura scintillava troppo.

Il generale fissava disperato la volta celeste nell'attesa di una nuvola, ma il cielo lustro dell'Ambit sembrava ricacciare indietro ogni sua speranza. Senza nemmeno riflettere, l'elfa chiuse gli occhi e si tuffò nelle profondità del suo spirito. Richiamò a sé il Daimon dell'Aria e ordinò alle nubi di prendere forma.

Il firmamento si contrasse per un istante e una fosca cortina coprì il disco brillante della luna. Galanár, con gli occhi ancora puntati in cielo, sorrise e abbassò la visiera dell'elmo con un movimento repentino. Era il momento perfetto.

Silanna fissò soddisfatta il suo operato, quindi si affrettò a seguire i cavalieri nella marcia. Si sentiva ancora piena di energie e la riuscita della sua magia le diceva che la notte cospirava a suo favore, sostenendo i suoi incantesimi e i suoi desideri. Pensò che poteva osare di più e bisbigliò tra le labbra morbide una litania che fece levare un pulviscolo impalpabile.

Galanár si accorse che una sottile nebbia si muoveva seguendo l'andatura del suo cavallo. Si sorprese di quella vista: non aveva dato alcun ordine agli incantatori. Contrariato da quella variazione, volse un rapido sguardo indietro alla ricerca di Aegis o di uno dei suoi, ma incontrò solo due occhi che lo osservavano da sotto un cappuccio. Erano di un dorato brillante e spiccavano nel buio della notte emanando una potente forza vitale. Fu solo l'impressione di un attimo, quella che gli sfrecciò veloce nella mente. Non aveva tempo per le domande: aveva superato il gomito e dall'alto dominava con la vista l'accampamento nemico. Fece un gesto con la mano, replicato dai capitani dei diversi reparti.

Gli arcieri, in un unico movimento, sollevarono le armi e scagliarono in alto i dardi. Una fitta pioggia, uscita fuori da nuvole terrene, si mosse al contrario e, dopo un'ampia curva nel cielo stellato, ricadde sul campo nemico cogliendolo di sorpresa. I Troll, destati in un mare di sangue, si trovarono di fronte il temibile esercito del principe Galanár.

A quel punto, la foschia bluastra si diradò del tutto e ogni protezione magica cadde di colpo. Gli incantatori, sfiniti, avevano portato a termine il loro compito. Toccava alle lame e alle frecce guadagnare la vittoria. I tiratori armarono nuovamente gli archi e si prepararono a una seconda raffica ferale.

Il nemico, però, non era del tutto impreparato a un possibile attacco notturno. Alcuni corpi di guardia che circondavano il campo uscirono fuori dalla boscaglia ai lati dello schieramento degli uomini e si lanciarono sui soldati, trafiggendoli con le lunghe lance intrise di veleno. I cavalieri, stretti al centro dalla spinta ricevuta, barcollarono e dovettero recuperare il proprio ordine prima di riversarsi sui fianchi, consentendo agli arcieri di ritirarsi. Mellodîn, libero finalmente di urlare i suoi ordini a squarciagola, arretrò assieme a loro, facendoli ricostituire in un corpo unico. Le posizioni quindi si invertirono con maestria: gli arcieri andarono a riformare le retrovie per proteggere l'imboccatura del canalone, i cavalieri coprivano le ali, mentre i fanti si riversavano attraverso il corridoio centrale, pronti a lanciarsi nell'imminente corpo a corpo.

Rimasto a capo della fila di cavalieri schierati sul fronte, pronti a resistere al primo attacco dei guerrieri, Galanár non si scompose e non indietreggiò. Fissava i nemici che correvano ad afferrare le asce e a montare sui giganteschi lupi da battaglia. Contro ogni logica, aveva la bizzarra impressione di essere al sicuro.



NOTA DELL'AUTORE

O nox mihi candida! è il primo verso di una Elegia di Properzio (Oh notte per me splendida!).

Il poeta esprime con queste parole il felice esito di una notte d'amore trascorsa con la donna amata e l'esultanza per aver realizzato il suo desiderio. Chi di voi mi conosce da un po' mi perdonerà per l'uso ironico che ho voluto fare di questa frase per designare una notte che è sicuramente piena di desideri, ma di varia e diversa natura, se così vogliamo dire 😉 

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