CAPITOLO DODICESIMO

Lungo la strada, i lampeggianti dei soccorsi primeggiavano sfavillando luci blu e rosse. Roteavano nel buio illuminando a metri di distanza.
Il miglio quarantacinque sembrava proprio che Sara lo avesse raggiunto.
Fermò l'auto dietro quella della polizia e poco distante i soccorritori chiudevano il portellone posteriore dell'ambulanza generando un boato che le fece eco nel petto. Un agente in divisa attendeva in piedi davanti alla sua auto con una torcia appena spenta in mano e uno sguardo incerto.

«L'avete caricato? È ancora vivo?» Corse incontro al funzionario, in evidente stato di agitazione. Se fosse riuscita a sopravvivere a quella notte Sara si convinse che null'altro l'avrebbe stesa con le ginocchia a terra per tutto il tempo che le restava da vivere.

«Salve. Sono il detective Poul Watson.» Anticipò un altro, avvicinandosi. Poi si voltò verso il suo collega indicandolo con la mano: «Lui è l'agente Alexander Fichtner».

«Sara Keach» rispose impaziente. «Il ragazzo? Il ragazzo, lo stanno portando via?» Fece cenno verso il mezzo di soccorso che si allontanava.

«Sara. È lei che l'ha trovato? Come mai si trovava su questa strada a notte inoltrata?»

«Cosa c'entra ora! Detective Watson, stavo tornando a casa dopo aver lasciato il lavoro! E sì. L'ho trovato io. Adesso vuole dirmi delle condizioni del ragazzo per favore?» Un moto di rabbia la investì e per un attimo credette che la bocca le stesse andando a fuoco.

«Signorina Keach... In che stato era, il ragazzo, quando l'ha trovato?» continuò l'uomo, ignorando totalmente lo stato di apprensione di Sara.

«Pietoso. Era completamente irriconoscibile al volto e aveva il corpo dilaniato da squarci e fratture. Però mi sono accostata al petto e respirava! E poi ha cominciato a lamentarsi. Ho provato a chiedergli il nome, ma non sono riuscita ad avere risposta, o forse non ho capito. Aveva la bocca penzolante e...»

«Okay, d'accordo. Si fermi. Si fermi un attimo. Era vivo quindi, quando l'ha lasciato?»

«Sì, ma non sembrava le sue condizioni avessero retto molto se avessi esitato ancora qualche minuto per andare a cercare aiuto. Credo che qualcuno lo abbia investito. Forse era a piedi.»

Il Detective le porse uno sguardo quasi compassionevole. Come se fosse riuscito a fare il quadro della situazione in pochi istanti, e in pochi istanti a trarre giudizio.

«Sara... mi ascolti. Quando siamo arrivati, qui, non c'era nessuno.»

Sara spalancò occhi e bocca incredula e scioccata.
I nervi emisero impulsi al cervello che recepì come scosse elettriche attraverso tutto il corpo. Scintille si propagarono violente fino a renderle il terreno instabile sotto i piedi. Impallidì di colpo e la saliva si fece abbondante in bocca.

«Si sente bene, Sara?» Poul la sorresse per un braccio.

Sara inghiottì il fiele che aveva fra i denti.

«Ma... Ma come è possibile. Io l'ho visto. L'ho toccato! Sono sicura che ancora c'è il mio stomaco lì per terra.» Oltrepassò l'ispettore e proprio sul bordo della strada apparve la chiazza di vomito: «Eccola lì! La vede?» Scosse le braccia in segno di resa.

«Signorina Sara, se avesse trovato l'uomo in quelle condizioni, non credo avremmo visto solo il suo vomito sull'asfalto. Quantomeno ci sarebbero state delle chiazze di sangue...»

«Mi sta accusando di aver inventato tutto?» rispose furiosa.

«No. Sto dicendo che...»

«Lei mi crede una povera pazza, non è vero?»

«Sto... dicendo... che è impossibile che il corpo di quel ragazzo sia sparito. A maggior ragione che in quelle condizioni non avrebbe potuto nemmeno muovere un dito.» Si avvicinò a Sara e le carezzò la spalla: «Probabilmente è solo un po' stanca. Forse dovrebbe riposarsi. A volte accade che...»

«Io l'ho toccato! Ci ho parlato, cristo santo! Lei mi crede fuori di testa, non è così detective Watson?»

«Io credo soltanto che può capitare che una persona si trovi in un momento particolare della vita in cui...»

«Cos'è, vuole prendere il posto del mio analista ora?»

«Sara...» Provò di nuovo a spiegarsi ragionevolmente.

«Lasci stare. Le chiedo scusa per l'equivoco. Addio detective Watson. Agente...» Voltò le spalle ai due e si diresse rabbiosa alla sua auto.

«Sara!» La richiamò ancora Poul. «Non vada sola. L'accompagno a casa?» Si prestò disponibile il poliziotto.

«Vorrei che facesse il suo lavoro, Detective» rispose colma di stizza. «Perché non dà un'occhiata in giro? E se qualche passante lo avesse caricato?»

«Sia ragionevole, Sara! Chi l'avrebbe colto dalla strada in quelle condizioni? Lei lo ha fatto?»

Sara affondò gli occhi nel nero asfalto. Effettivamente, anche se lo avesse voluto fare, avrebbe rischiato di ucciderlo con le sue stesse mani.

«Torno a casa da sola, grazie» sussurrò, mentre apriva la portiera della sua vettura.

«Faccia attenzione, Sara.» La esortò Watson col volto crucciato.

«Detective, le chiedo soltanto se può controllare gli ospedali vicini... magari qualcuno lo ha accolto.»

«D'accordo, Sara. Lo farò.»

Senza aggiungere altro risalì in macchina. Era sconvolta. Tremava, e la vista sembrò mancarle per un momento. Mille lucciole danzavano davanti ai suoi occhi ciechi.
Che fosse diventata pazza davvero?
Accese il motore e partì.
Si rifiutò di credere che ciò che aveva visto poco tempo prima era tutto frutto della sua immaginazione. Diamine! Era reale quel tizio! Non poteva averlo inventato la sua mente malata. Malata, sì. A questo punto, credette sul serio di esserlo.

Il dolore piegò il volto della povera Sara e in un istante si ritrovò inondata di lacrime dal sapore velenoso. Il collo sussultava a ogni singhiozzo e la voce esplose di colpo in un grido disperato.

Nella mente le venne solo un nome, quello di Michael Miller. Lui avrebbe potuto aiutarla, forse comprenderla, e magari anche crederle.
Svoltò al bivio e guidò decisa verso casa del suo amico.
L'orologio digitale segnava le 03:00 in punto.

L'ora in cui i morti vengono a fare visita.

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