Capitolo 25.

«Signorina Taylor» ero pronta per tornare a casa, distrutta per le ultime lezioni più pesanti del solito. Persino la mia materia preferita si era rilevata una  noia mortale.
«Signorina Taylor» dopo l'ennesimo richiamo che cercai di ignorare, fui costretta a girarmi scoprendo che si trattava del mio professore di culture straniere. Jonathan se la era svignata per non incontrarlo, pensando che ce l'avesse con lui per gli interventi infantili che aveva fatto durante la lezione. Bambino...

«Si mi dica»
«Mi dispiace disturbarti proprio in questo momento impedendoti di tornare a casa» mi spiegò mortificato.
«Non si preoccupi, nessun disturbo. Infondo non vado di fretta» mentii tirando un sorriso.
«Ho una studentessa che frequenta il mio corso pomeridiano per cercare di colmare alcune lagune. Ma ammetto con mio dispiacere che le lezioni extra non stanno funzionando molto bene con lei. Ho saputo che hai fatto domanda per le ripetizioni e so anche che hai una lunga fila di altri ragazzi da aspettare, però ho fatto una buona parola su di te e ti hanno fatto scalare di posizione sulla lista di attesa.
Sei ancora disposta a questo corso?»
«Sarebbe perfetto, la ringrazio per la proposta. Quindi quando potrò cominciare?»
«Dalla prossima settimana. Ogni lunedì dopo la fine delle lezioni, in biblioteca.» rispose mentre si sistemava la vecchia montatura degli occhiali sul naso.
«Se tu volessi, potrei presentartela fin da subito» aggiunse aspettando che io lo seguissi. Ma il mio stomaco parlava chiaro e dovevo tornare a casa per accontentarlo.
«Abby» sia io che il professore ci girammo verso Jonathan che faceva lo slalom tra i vari studenti.
«Finalmente ti ho trovata. Salve professore, mi dispiace ma devo rubarle Abby.» si riferì al professore per poi spostare gli occhi su di me.
«Dobbiamo andare è successo qualcosa a casa e mi hanno chiesto se potevo darti un passaggio. È un'emergenza presto muoviamoci» disse velocemente.
«Taylor puoi andare. Non c'è bisogno che rimani ancora qui. Vai e imbocca al lupo» mi rassicurò il professore, al che io annuii distrattamente prima di essere trascinata da Jonathan verso l'uscita.

«Cosa è successo? Chi ti ha chiamato? Stanno tutti bene? Come lo hai saputo?» Jonathan mi mise una mano sulle labbra per zittirmi e fece un grande respiro.
«Non è successo niente, tranquilla. Volevo solo aiutarti a uscire da lì prima che il signor Beth ti avesse fatto vedere tutti i suoi studenti peggiori»
«Non ce ne era bisogno e poi, cavolo, mi hai fatto preoccupare» esclamai lanciandogli uno schiaffo sul braccio.
«Salta su che ti accompagno a casa» mi passò uno dei due caschi e mi fece cenno di indossarlo. Ma come gli era saltata in mente un'idea simile? Io non ci sarei mai salita su quella cosa.
«Non ci salgo lì »
«Non fare la ragazzina e salta su. Non mi sembra che ti fosse dispiaciuto abbracciarmi quella sera» sorrise.
«Non ero in me» sbuffai ma alla fine feci come mi aveva chiesto. Mi infilai il casco e salii sulla moto dietro di lui.
«Guarda se devo fare tutto io» mi prese le mani e se le misi intorno alla vita portandomi a posare la testa sulla sua schiena coperta dal leggero tessuto di una felpa.

«Si parte» il motore prese a ruggire e,
dopo aver tolto il piede da terra, diede velocità in modo da sfrecciare lungo le strade newyorkesi.
Anche se non volevo ammetterlo, si era creata una situazione bellissima. Il vento fresco sul viso, il paesaggio che scorreva veloce intorno a me e la velocità che andava ad aumentare sempre più lungo i rettilinei. Avrei dovuto invitarlo a rallentare? No, era giunta l'ora di godersi il momento.

Dopo alcuni minuti di corsa, decise di fermare la moto sul piazzale di un piccolo locale pomeridiano. Una specie di taverna dove mangiare in tranquillità.
«Perché siamo qui?» gli chiesi levandomi il casco per poi porgerglielo.
«Ho sbagliato strada» mentì e si avviò verso l'entrata del locale in stile western. Devo dire che era un posto veramente carino. I tavoli in legno e alcune botti a coronare l'arredamento.
Qualche elemento in pelle sintetica e selle di cavallo poste ai lati della cassa.

«Benvenuti ragazzi come posso aiutarvi?» ci chiese una ragazza mora che teneva ben saldo i menù vicino il petto. I capelli mossi le arrivavano sulle spalle e aveva un cappello stile cowboy sulla nuca. Numerosi tatuaggi spiccavano sulla sua pelle bianca lasciata scoperta dalla maglietta a maniche corte con il logo del locale.
Vidi Jonathan sorriderle mentre se la spogliava con gli occhi e anche lei sembrava fare altrettanto.

«Hai un tavolo disponibile?» la ragazza si schiarì la voce guardandomi per squadrarmi da cima a piedi.

Pensa veramente che io sia la sua ragazza? Se solo conoscesse come è, non reagirebbe così.

«Ah..ehm..certo venite» ci portò al tavolo libero lasciando due dei menù che teneva tra le braccia.
«Grazie bellezza» ammiccò Jonathan guardandola sculettare verso gli altri clienti che erano entrati subito dopo di noi.
«Ci vieni spesso qui?» gli chiesi rompendo il gelo creatosi tra di noi nel momento in cui ci eravamo seduti.
«Si e no» rispose.
«Capisco» dissi cercando di convincermi del ritorno del vecchio e solito Jonathan di sempre. Il solito freddo, orgoglioso e testardo Jonathan.
«Volete ordinare?» grazie al cielo, la ragazza di prima tornò da noi con un taccuino in mano e una penna pronta a scrivere qualunque cosa le avessimo richiesto.

«Io un doppio cheese burger, una birra e patate al forno.» disse Jonathan puntando gli occhi sulla ragazza che scriveva impacciata le ordinazioni.
«Tu sorellina?» aggiunse rivolgendosi a me. La ragazza rimase con la penna a mezz'aria mentre lo guardava entusiasta con la bocca aperta per lo stupore. E credo davvero che in quell'istante avessi la sua stessa espressione con l'unica differenza che la mia esprimeva ritegno invece della felicità.
«Prendo delle patatine al forno e una birra» dissi con una nota di acidità nella mia voce. La ragazza se ne era andata lanciando un ultimo sorrisetto voglioso a Jonathan mordendosi il labbro inferiore per cercare di trattenersi.

«Sorellina? Fai sul serio? Non pensavo fossi così...stronzo» sputai acida ma lui sembrò ignorare il mio tono e si limitò a ridere sotto i baffi.
«Non potevo farmi scappare una ragazza del genere per una stupida uscita con te. Ora posso dire di aver qualcosa da fare questa sera»
«Patetico» borbottai mentre ci arrivarono le birre da un altro cameriere.
«Cosa hai detto? Non ti ho sentito»
«Sei patetico» alzai la voce trattenendomi a mala pena dal riempirlo di sberle in faccia.

«Ma cosa ti aspettavi? Quel bacio è stata solo un'arma per vendicarci, spero non penserai che ci fosse stato veramente qualcosa tra di noi?» domandò portandosi il bicchiere sulle labbra.
«Non l'ho mai pensato. Anzi, preferisco non avere più niente a che fare con uno come te. E ora me ne vad-» feci per alzarmi ma prontamente mi tenne ben salda la mano nella sua guardandomi con aria seria.
«Dove credi di andare? Guarda ci stanno osservando tutti e soprattutto sono curiosi della commedia che stai recitando. Ora risiediti e smettila di dare spettacolo»

«Dare spettacolo? Me ne torno a casa» prima di andarmene, frugai all'interno della mia borsa cacciando fuori alcune banconote. «Questi sono per il pranzo» uscii dal locale e mi incamminai verso la strada dalla quale eravamo arrivati. Non era una zona che frequentavo spesso, anzi, non l'avevo mai frequentata prima di allora e forse la cosa migliore sarebbe stata ripercorrere il tragitto nel senso opposto per tornare almeno all'istituto.

Percorsi qualche chilometro però l'ambiente che mi trovai intorno non assomigliava neanche lontanamente a quello che avevamo passato prima in moto. Mi ero persa? Possibile che riuscivo a perdermi anche nella mi città? Neanche un bambino ci sarebbe riuscito.

«Ti serve una mano a tornare a casa?»
«No, vattene» risposi. Orgogliosa come ero, e come sono tutt'ora, non gliela avrei mai data vinta.
«Non sai dove ti trovi ne tanto meno come tornare a casa»
«Jonathan ho detto 'no'» continuai. Mi guardava con quell'espressione da superiore con le sopracciglia tirate in alto e con un angolo della bocca in su ma lo evitai continuando a camminare senza avere una reale direzione da seguire.

«Va bene. Hai vinto, dammi quel casco» sbuffai.
«Te l'ho detto, io vinco sempre» gli diedi un colpetto sul casco e mi sedetti dietro di lui. Quella volta non mi sentivo a mio agio ed era anche tanto che fossi riuscita ad abbassare l'orgoglio per una volta, dandogli ragione. Ma come diceva sempre una mia professoressa delle scuole superiori "La ragione è per gli stupidi" e solo quella poteva che avere
Jonathan.
Posai le mani sulle spalle senza abbracciarlo per la vita e sembrò irrigidirsi a quel contatto che probabilmente non si aspettava.

Venti minuti più tardi, vidi il mio abitacolo in lontananza è turai un sospiro di sollievo. Non vi era ne la macchina di mio padre ne quella di mio fratello. Questo significava che si trovassero entrambi al lavoro e quindi valeva a dire niente particolari interrogatori.
«Tieni» gli porsi il casco e nello stesso momento lui mi porse le banconote che avevo posato con rabbia nella locanda.
«Non li voglio. Ho pagato la mia parte così non ti devo niente» orgoglio femminile contro il povero Jonathan 1-0.

Arrivai alla porta e il rumore del motore era ormai lontano. Sospirai ed entrai scoprendo di non essere effettivamente sola in casa. Jet era poggiato sul pianale della cucina mentre Kelly canticchiava e contemporaneamente cucinava la cena.
«Bentornata mia cara» mi salutò Kelly riprendendo un attimo dopo a intonare qualche melodia.
«Come mai così presto?» chiesi ad entrambi sbirciando nelle varie pentole. Ne alzai il coperchio e il vapore fuoriuscì portando con se un celestiale odore di cucinato.
«Ho già l'acquolina»
«Sono contenta. Aspetteremo il tuo ritorno dal lavoro prima di mangiare.» mi assicurò continuando a mescolare un miscuglio di ingredienti all'interno di un contenitore in vetro.
«Anche se non tornassi puntuale, mangerò comunque il tuo piatto» sfidò Jet prendendo un cucchiaio in legno ed impugnandolo come una spada. «Staremo a vedere» Risi accogliendo la sfida pronta al combattimento. Prima che iniziassimo la nostra lotta all'ultimo sangue, il cellulare di Jet prese a suonare incessantemente.
«Sfida rimandata» disse cercando di contenere l'entusiasmo una volta letto il nome comparso sul display.
«Jet ha trovato la ragazza» lo schernii e lui corse velocemente per non far giungere la mia voce all'altro capo del telefono.

«Anche tu hai trovato il ragazzo a quanto ho visto?»
«Cosa?» chiesi sorpresa.
«Quel ragazzo fuori che ti ha accompagnato a casa. Non era Jason quindi presuppongo che abbiate litigato. Se c'è qualcosa che non va puoi sempre parlare con me» tentò Kelly esitando dal dire quella frase che mi ripeteva da anni senza esiti positivi da parte mia.
«Mi ha tradito. E ci siamo lasciati»
«Mi dispiace.» posò gli utensili da cucina e si affrettò ad abbracciarmi.

«Non ci sto così male, però non me lo sarei mai aspettato da lui. È stata più la sorpresa a darmi fastidio che l'azione in se» spiegai.
«Non ci credo»
«È la verità»
«Non ci credo» ripeté staccandosi leggermente per potermi guardare.
«Te lo si legge negli occhi. Tu ne eri innamorata e so come ci si sente.» prese una piccola pausa per tornare ai fornelli per poi cominciare a raccontare: «Avevo la tua età se non un anno in meno.» iniziò.
«Ero follemente innamorata di un ragazzo, si chiamava Elia. Era bellissimo, era fantastico in tutto e inoltre qualunque cosa facesse riusciva a dare il meglio di se. Era alto, sempre elegante e con i capelli biondi pettinati all'indietro.» sembrava tanto la descrizione di Jason e da lì capii perché volle raccontarmi questo suo ricordo.
«Era una sera come le altre ed avevamo in programma di andare a una festa, come ogni nostro venerdì. Però nessuno dei due aveva la voglia di andarci quella sera così decidemmo di rimanere a casa per passare del tempo in tranquillità proprio come una vera coppia. Dopo aver visto un film e aver bevuto due bottiglie di vino rosso, siamo finiti a letto e non ricordo neanche bene cosa abbia provato in quel momento.» si fermò dandomi le spalle.
«Qualche mese dopo scoprii di essere incinta. Mi ritrovai a diciannove anni a pensare a come crescere un bambino e avevo un'immenso terrore. Appena scoperto decisi di andare a trovare Elia per dirglielo sperando che lo avesse accettato come suo figlio. Ma quando arrivai nell'appartamento lo vidi fare qualcosa che non mi sarei mai immaginata potesse fare. Era sul letto con due ragazze completamente nude. Non rimasi sorpresa però, e forse a prepararmi fu proprio la scia di vestiti lasciata in soggiorno» si portò una mano vicino gli occhi segno che stesse piangendo.
«Durante la nostra relazione mi aveva fatto credere che mi amasse mentre si portava a letto le altre ragazze. "Ogni sera una diversa",così mi disse il suo coinquilino. Decisi di tenere il bambino e di continuare la gravidanza come se fosse un nuovo inizio per me.» le posai timidamente una mano sulla spalla per rassicurarla. O almeno ci provai per quanto potesse farlo un piccolo gesto.

«Dicevo a tutti di stare bene e che non mi interessava minimamente di Elia. Ma la verità è che io ci soffrivo ogni giorno, e ogni notte, mi rinchiudevo in camera a piangere. Piangevo perché mi sentivo come spenta e soprattutto perché non avrei potuto dare a mio figlio una famiglia, un papà, una mamma cosciente delle sue azioni, una casa e un'ottima sistemazione dove vivere. Poi...eccomi qui.» la abbracciai e le massaggiai la schiena per fermare le sue lacrime. Fu solo un attimo di debolezza e infatti poco dopo tornò a sorridermi per farmi capire che stesse bene.
«Quello che ti voglio dire è che non devi mentire a te stessa. Sfogati se ne hai bisogno e non chiuderti con il mondo esterno. Da sola non se ne può uscire e chiedere aiuto non è un segno di debolezza, ricordatelo.»
«Grazie Kelly»
«In fondo dalle situazioni più brutte possono nascere le cose più belle» concluse tornando ai fornelli.

Uscii dalla stanza pronta per recarmi al lavoro ma rispetto a prima mi sentivo diversa. Mi sentivo di nuovo me stessa, carica e pronta a riprendere le redime della mia vita che avevo lasciato incustodite per troppo tempo nelle mani del fato.

"Andrà come deve andare" pensavo. Invece era completamente sbagliato.
Ognuno è l'artefice del proprio destino. Non c'è niente di scritto o di dettato, siamo in grado, e abbiamo il potere, di poter scrivere il destino con le nostre stesse mani. Sta a noi scegliere come scriverlo e se seguirlo.

Io avevo deciso di ricominciare e mettere una parola "fine" al passato, ma quella volta per davvero. Sarei andata avanti affrontando il presente e pensando al futuro senza rimuginare sul passato.

Però una persona non può cambiare nel lasso di una giornata.
Ci avrei provato almeno...

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