Capitolo 91
Fin da quando sono nato non ho mai conosciuto l'amore.
Il calore di un corpo umano, impreziosito da sentimenti benevoli, mi è stato precluso per tutti gli interminabili anni che ho dovuto vivere su questa terra arida e neutrale.
Ricordo vagamente che i miei genitori provassero affetto per me, com'è normale che sia, ma un incidente stradale me li portò via, e dunque a soli cinque anni finii a vivere con il fratello di mia madre. Un uomo solo, rozzo e incapace di amare qualcosa di diverso da sé stesso, se non il denaro.
Mi crebbe come un peso, e io l'avvertivo con chiarezza ogni giorno, ogni mese, ogni anno che passava.
I bambini sanno riconoscere d'istinto la natura di una persona, senza bisogno di analizzarla a fondo: semplicemente, ne percepiscono le vibrazioni. E quell'uomo ne emanava solo di cupe e negative.
Alla prima occasione, quando nelle alte sfere del Continente settentrionale si prospettarono gli albori di un'invasione nei confronti del governo Shihaiken, mio zio mi vendette a uno di quei laboratori di ricerca in sordina, nei quali orfani e bambini senza una vita da vivere o persone che li tutelassero venivano usati alla stregua di animali da cavia per scopi bellici.
Un solo termine mi riaffiora alla mente per definire ciò che si susseguiva nelle giornate all'interno di quei centri isolati dalla civiltà.
Crimine.
Per prima cosa facevano sì che risvegliassimo il nostro Kaika, all'inizio era divertente. Per un bambino ignaro, la Cerimonia della Fioritura è qualcosa di dilettevole ed esaltante, quasi magico. Il mio elemento, scoprii più velocemente rispetto agli altri, era il veleno.
Ogni tipologia di gas, liquido o solido dalle proprietà tossiche per gli esseri umani poteva essere modificato da me attraverso l'Alteration Kaika. Fui orgoglioso della mia bravura, pensai di essere speciale, superiore agli altri vermi attorno a me, ma in verità c'era poco per cui esultare.
Non appena ebbi sviluppato le mie capacità, mi condussero in una sala tutta bianca, con degli accecanti neon verdi fluorescenti sul soffitto sopra di me, legato su di un lettino in plastica.
Quella luce opprimente fu tutto ciò che i miei occhi conobbero mentre, per tanti giorni da perderne il conto, il mio corpo veniva sottoposto a esperimenti di ogni tipo, iniezioni, sedute in diabolici macchinari rumorosi come una tempesta estiva.
Il risultato a quanto pare fu deludente per i cosiddetti medici, come doveva esserlo stato per tutti gli altri bambini, poiché quando finii in mezzo alla vastità del mondo a soli nove anni, solo, perduto e abbandonato, incapace di controllare la continua fuoriuscita di veleno dal mio corpo ricoperto da cicatrici, in ben poco quei centri furono dichiarati un fallimento e chiusi. Come se non fossero mai esistiti.
Non si può alterare il flusso del Kaika che scorre all'interno di una persona senza renderla un abominio. Perché è questo, ciò che ero diventato agli occhi di tutti.
Iniziai a vivere come un barbone nella città di Core, capitale del Continente settentrionale. Le strade erano sempre affollate, le luci accecanti e l'atmosfera priva del clima prebellico antecedente a un'invasione. La stampa non aveva annunciato ancora le intenzioni dei Guardians, ovvero migliorare le condizioni, al tempo meno sviluppate, del Continente centrale e stanziare un governo in quella zona, ponendo fine allo Shihaiken e portando con loro innovazioni e migliorie.
Io, l'unico consapevole tra le masse ignoranti della grande metropoli, vagavo solo insieme al mio veleno.
Fuoriusciva da ogni parte del mio corpo, e non ero minimamente in grado di arrestarlo. Per far sì che le mie ossa e i miei organi non ne fossero deteriorati, mi era stato piazzato un esoscheletro di galena, in modo da contenere gli effetti interni della mia tossicità innata.
Almeno questo mi era stato concesso: poter vivere. Ma a che scopo?
Tutti mi evitavano, mi rivolgevano occhiate compassionavoli o pietose, giravano al largo quando si imbattevano in me e nel mio gas in perenne emanazione.
Un giorno, una bambina dai boccoli d'oro si avvicinò, rimanendo a dovuta distanza per non inspirare il gas velenoso, ma allo stesso tempo abbastanza vicina perché io udissi le sue parole.
"Ti basta esistere per essere un fastidio." affermò sottovoce, un ghigno crudele stampato sul visetto angelico, poco prima che i suoi benestanti genitori la trascinassero via, allarmati.
Non per le sue parole orribili, ma per il fatto che fosse troppo vicina a me.
La svolta giunse il giorno in cui, a tredici anni, spintomi ai confini della città per evitare incontri spiacevoli e sguardi apprensivi ormai divenuti insostenibili, scorsi un grazioso edificio in pietra, sovrastato da un'imponente croce bronzea nel punto più in alto della struttura.
Un'abbazia.
All'ingresso, una sorella mi fissò interdetta, ordinandomi di andar via.
E così stavo per fare, quando, d'un tratto, una voce fece sì che mi io arrestassi.
"Sorella Ilya, la prego, non sia così severa. Qui accogliamo tutti, e se fossero proprio le povere anime problematiche come lui a venir abbandonate, allora cosa esisteremmo a fare? La misericordia di Dio si espande anche e soprattutto alla gente come questo bambino."
La sua voce era un po' nasale, ma il suo aspetto molto rassicurante. Aveva il capo rasato e degli allegri occhi verdini. La sua statura era nella media, ma nella tonaca tutta nera appariva maestoso e importante.
"Come ti chiami, ragazzo?" mi chiese.
"Jack." risposi, stanco e atterrito. "Jack Macquard."
"Bene, Jack, non avrai più nulla da temere. Penserò io a un modo per farti interagire con il prossimo e qui sarai sempre il benvenuto." Le sue parole erano un dono, un frutto illusorio che morsi senza alcuna remore, né timore, accecato dal sollievo che provai.
Non sapevo che la mia maledizione non mi consentiva di ricambiare chi mi mostrava benevolenza.
Ma ero troppo grato per comprenderlo, il giorno in cui quell'uomo mi porse la larga maschera a becco nera da lui creata.
"Questa riuscirà a inibire la fuoriuscita di veleno dai tuoi pori verso l'esterno, trasformando l'aria tossica in ossigeno pulito. Ho utilizzato il mio Kaika per crearla, per tua fortuna il mio elemento è il vento e la mia specialità è il Creation Kaika!" mi spiegò il prete, che scoprii chiamarsi Abraham.
Non riuscivo a credere ai miei occhi. Certo, il mio volto sarebbe stato coperto, ma perlomeno potevo toccare gli altri senza paura di far loro del male...
I ragazzini ospiti della parrocchia acconsentivano a giocare con me sotto la supervisione di Padre Abraham, e le suore mi trattavano bene, insegnandomi le nozioni base di matematica, geografia e altre materie primarie che non avevo mai avuto modo di apprendere prima di allora.
Mi sembrava di sognare, e come ogni sogno, arrivò il giorno in cui dovetti svegliarmi.
Una mattina grigia e uggiosa, fui colto da un malanno. Avevo la febbre altissima e per somministrarmi i medicinali in modo che calasse, Padre Abraham dovette sfilarmi la maschera.
Non aveva contemplato che il mio corpo potesse agire in maniera anomala alla malattia: per sopprimere il virus, il mio Kaika velenoso si espanse, uccidendo tutti gli organismi viventi nell'arco di almeno venti metri.
Non si limitò a sconfiggere il malessere. Abraham, colui che mi donò la vita, incontrò la morte a causa mia.
Alla scena del suo corpo esanime di fronte al mio, le suore e i bambini iniziarono a fissarmi come fossi un mostro. Alcuni tentarono di uccidermi, lanciandomi contro utensili appuntiti, pietre e quant'altro. Fui costretto a fuggire, maledetto e odiato nel luogo che avevo considerato casa. Pensai che Dio non poteva esistere davvero, non perché avesse permesso che quella tragedia fosse accaduta, gli eventi terribili hanno luogo di continuo.
Il motivo per cui smisi di crederci, fu il ragionamento secondo il quale in precedenza mi ero convinto di esser stato graziato dalle mie pene, nell'unico periodo felice della mia esistenza. Ovvero che quel Dio che Padre Abraham adorava mi avesse condotto da lui per salvarmi.
Confutai immediatamente questa teoria, convincendomi del fatto che l'entità divina non c'entrasse nulla: io mi ero spinto fin laggiù con le mie gambe, il Padre aveva deciso di aiutarmi con la sua testa, niente di più, niente di meno.
L'arbitrio è tutto ciò che conta durante il breve tempo che a ognuno è concesso, e le decisioni spettano solo a noi e a nessun altro, non di certo a qualche essere superiore, tantomeno al destino. Sarebbe facile vivere secondo una credenza simile, senza prendersi le responsabilità delle proprie azioni in virtù di un qualche disegno al di là della nostra comprensione. Fu con queste certezze, che iniziai a nutrire vendetta verso chi mi aveva ferito.
Avrebbero pagato per le loro libere decisioni nei miei confronti.
A sedici anni iniziai da mio zio, non lo uccisi rapidamente. Scoprii che mi piaceva far del male al prossimo, torturarlo come era stato fatto a me. Continuai per anni e anni, coperto da una lunga veste nera e la maschera a becco di Padre Abraham.
Uccisi, uccisi e uccisi ancora. Ero in piena estasi.
Diventai un assassino professionista, ma non avevo la libertà che cercavo, dunque lasciai dopo pochi mesi l'attività, ammazzando chiunque tra i miei vecchi colleghi cercasse di darmi la caccia per impedirmi di divulgare informazioni su loro segreti o membri. Come se mi fosse importato qualcosa.
Quando finalmente il governo mise in atto la sua offensiva nei confronti dello Shihaiken, e pochi anni dopo ne scaturì una ribellione che condusse a un vero conflitto, la Guerra Rossa, pensai che fosse l'ideale per me. Mi unii all'esercito Guardians: uno come me avrebbe fatto certamente comodo in guerra, e non appena approdai nel Continente centrale, disertai e mi unii ai ribelli, in modo da poter vendicarmi di più Guardians possibili. Non che quelli dello Shihaiken mi apprezzassero, ma covavo meno rancore verso di loro, ed erano utili alla mia causa personale.
Fu in quel periodo che incontrai due figure che mi portarono a diventare l'assassino conosciuto come Peste Nera.
Hanajima Kiryuu e Asmodeus Karasu.
Avevo venticinque anni quando incontrai Kiryuu nell'Esercito Guerrigliero. Tutti la temevano per la storia che si portava sulle spalle.
Si raccontava che, allo scoppio dell'ennesima scenata violenta del padre ubriaco nei confronti della madre, la piccola Kiryuu ne fosse stata coinvolta. Ma non fu lei quella che ne uscì peggio.
Suo padre e sua madre giacevano in una pozza di sangue tra lesioni e mutilazioni tanto indicibili da essere state omesse nel rapporto delle forze dell'ordine, e in quell'orrido spettacolo, ciò che colpì di più le autorità fu l'espressione sul viso di lei.
Stava ridendo.
Nella foga della sua follia aveva coinvolto anche la madre innocente. Evidentemente, le continue scenate e i litigi, spesso violenti, dei suoi genitori, avevano avuto un effetto devastante sulla sua psiche.
Io però non avevo paura di lei, dei suoi enormi occhi da rettile o della sua pelle candida come un campo innevato. Era l'unica persona in compagnia della quale mi sentissi normale.
Poco prima dell'inizio effettivo della guerra, entrambi incontrammo Nakajima Kojiro, allora un semplice milite, ma dalla mente ambiziosa. Ci coinvolse nel suo piano per catturare una ragazza in particolare nel clan degli Araumi, di nome Akira, con potenzialità straordinarie persino tra la sua gente, sfruttando come diversivo i movimenti ambigui dell'esercito Guardians in quella zona.
Durante quella missione conobbi anche Karasu, ma al tempo era poco più che un moccioso infantile in confronto a Kojiro. Quest'ultimo era diverso. Nei suoi occhi più volte avevo intravisto una malvagità, una malizia, un'ambizione che mi avevano fatto rabbrividire per l'entusiasmo.
Era più spaventoso persino di me e Kiryuu.
La guerra terminò, ma noi due, sotto suo ordine, continuammo per anni a sfruttare il Kaika fuori dal comune che contraddistingueva Akira Araumi, e anche quando Karasu mi volle con sé tra i Vulture, per le mie capacità più che per rispetto nei miei confronti, le nostre attività a Slum Lagonn non cessarono, a sua insaputa.
Nel frattempo, Karasu mi mise a capo di una squadra con Bartolomeu Silva e Hatsue Nakata: una giovane ragazza dai capelli rosati che, insieme a Jin Sawano, membro della squadra di Jansen e Masamune, ebbe l'idea brillante di tendere un'imboscata a Isao Takeshi, pensando in quel modo di impressionare il loro severo leader.
I due naturalmente finirono uccisi dalle fiamme azzurre dello spadaccino.
In quegli anni, il nome Jack Macquard scomparve sempre più dalla memoria del mondo, già sbiadito nel momento in cui la vita dell'unico uomo che mi avesse mostrato la luminosità della speranza era stata stroncata, calpestata in maniera irreversibile dallo stesso ragazzo sventurato in cui aveva creduto.
Peter scrutava l'uomo immerso in un mare di gas verde scuro in perenne espansione, la chioma corvina e scompigliata cascava sui suoi occhi rossastri, resi opachi dalla foschia mortuaria davanti a lui.
La maschera a becco giaceva al suolo, simile al cranio di un corvo spirato per il freddo.
Il veleno continuava a ricoprire tutta l'aria, emanato dal volto di Peste Nera, o Jack, come aveva asserito di chiamarsi.
Ben presto, il ragazzo fu ricoperto da quell'esalazione letale e, come se una scintilla fosse scattata nella sua mente, aprì un varco dimensionale sopra di sé, e ci si gettò dentro usando la corrente prodotta dalla gamba destra. Si ritrovò a molti metri d'altezza, riusciva a scorgere l'immane distesa ingrigita di salici piangenti che caratterizzava l'area paludosa sottostante, e l'aria rigida presente a quell'elevata altitudine gli sferzava le guance rosee.
Le iridi blu elettrico ruotarono in direzione del suo moncherino cauterizzato: laddove pochi secondi prima si trovava la mano destra, adesso c'era solamente della carne ustionata e nera.
Gli faceva male.
La ferita pulsava ancora e ancora, come se un martello gli fosse piantato a intermittenza direttamente sull'osso e sui nervi.
"Se fossi rimasto a terra, forse adesso sarei già morto per intossicazione." pensò, allarmato.
Sotto i suoi piedi, già notava il veleno farsi spazio tra le fronde cadenti degli acquosi alberi intricati tra loro. Dal gas, piombò rapidissima una figura oscura, dai capelli svolazzanti simili a tanti fili di cotone.
Jack sfrecciò sopra di lui e, cogliendolo di sorpresa, lo tramortì con una tallonata sulla parte alta della schiena.
Peter precipitò di nuovo al suolo, evitando danni gravi in virtù del suo potente Armor Kaika. Si alzò, coperto da graffi e lesioni, pronto ad anticipare la seguente mossa del nemico.
"Devo agire prima di lui, pensare d'anticipo." mormorò.
Attese che Jack tornasse all'assalto. Quando infine scorse la sua sagoma in lontananza scendere in picchiata, come un falco che caccia un coniglio ferito, mise a punto la sua frettolosa strategia.
"Adesso!" gridò, prima che un ulteriore varco fosse aperto sopra il suo capo.
Il pugno sinistro ricoperto d'elettricità fece capolino da un'ulteriore portale, apparso a pochi centimetri dal viso dell'assassino.
Si udì un forte impatto, ma non contundente: si trattava di un taglio netto, preciso e rapido.
Con orrore, Peter rivolse lo sguardo ai suoi piedi.
E distinse con chiarezza l'immagine della sua gamba distesa sul terreno, pochi metri più in là rispetto all'ubicazione in cui avrebbe dovuto trovarsi per natura.
Fiotti di sangue sgorgavano dalla cavità vuota, sulla quale la lama fuoriuscita dalla manica del suo nemico, piegato su sé stesso a gambe larghe, aveva effettuato la mutilazione.
Il ragazzo si accasciò al suolo, mentre già avvertiva le forze abbandonarlo del tutto.
La figura di Jack in piedi sopra di lui, con l'impermeabile stracciato per metà che mostrava parte del fisico spigoloso, lo terrorizzò.
Stava per morire, e ne aveva paura.
Provò inoltre odio incommensurabile per il suo carnefice, che già aveva inflitto fin troppe pene a un numero spropositato di innocenti e sarebbe invece rimasto in vita.
Peter ebbe la forza di digrignare i denti e guardarlo con occhi colmi di furore, negli ultimi istanti che gli rimanevano.
"Senza maschera è come se fossi in un perenne stato di Stadio Finale del Kaika. Posso ritrovarmi dove voglio nell'ambiente che mi attornia, posso dominarlo. Tu non l'hai mai padroneggiato, credendo che ti bastasse l'Energia Oscura per avere la meglio su di me: per questa ragione ora morirai, mentre io vivrò sopra di te." La voce dell'assassino non era più distorta, ma chiara, untuosa e veemente, come se una serpe stessa avesse voce per esprimersi.
"Pezzo di..." Peter non era capace di terminare il suo biascico senza sputare rivoli insanguinati e provare dolore dappertutto, unito a nausea, vertigini e soverchiante debolezza.
"Addio." La lunga lama del nemico gli trapassò di netto il torace, fuoriuscendo dalla schiena, rossa del suo sangue.
Tutto era nero, macchiato da fumose chiazze bluastre.
Galleggiava in quel vuoto, incapace di compiere qualsiasi azione motoria, in balia dello spazio indefinito che lo cullava. Non provava dolore, non più.
Le tracce delle sue ferite erano scomparse, il corpo era integro.
Immerso in quel mare di ignoto ancestrale, di conoscenza perduta, di discernimento trascendentale, il ragazzo si perse, allietato da una dolce leggerezza in cui avrebbe voluto persistere per l'eternità. E l'avrebbe fatto.
Non sarebbe più tornato indietro, in quel mondo di dolore, sofferenza, ingiusticata violenza e odio, in un ciclo infinito di brutalità e noia con poche ed effimere pause gioiose.
"Mi sento così bene..." parlò una voce intrinseca, che sentiva gli appartenesse, anche se ancora per poco. "Voglio restare qui per sempre."
Una tenera e lieve visione, però, lo risvegliò da quella ammaliante e perpetua apatia.
"Nozomu, non è la tua ora."
Si voltò, destatosi d'un tratto. Alle sue spalle era apparsa lei.
I capelli legati in due codini alti, di un indaco tenue come una secca marina, gli occhi due spirali azzurre d'amore incondizionato. Non ebbe alcuna difficoltà a riconoscerla.
"Misty!" la chiamò, meravigliato.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top