Capitolo 28
Era alla guida del vecchio pick up Chevrolet degli anni ‘50, che gli aveva prestato il signor Thompson per fare delle commissioni per l’officina, mentre addocchiava Dean sul sedile passeggero. Il silenzio del furgoncino era interrotto solo da dei cigolii strani e per nulla rassicuranti della vecchia vettura, che aveva sicuramente visto giorni migliori. Il corvino era tanto, troppo taciturno da giorni e lo stava facendo davvero preoccupare. Per non parlare del fatto che, quella mattina, gli aveva chiesto di accompagnarlo a scuola dove solitamente si recava a cavallo della sua adorata moto. Da fratello maggiore non poteva ignorare quei segnali, o almeno non più. Voleva ristabilire quel rapporto perso per colpa sua.
«Avete litigato?» chiese Daniel rompendo il silenzio.
«Chi?» rispose monotono, continuando a guardare fuori dal finestrino.
«Tu e la tua Aprilia», lo canzonò con un ghigno sul volto, sperando di farlo sorridere. Non funzionò, il silenzio tornò a riempire la vettura. Sospirò rumorosamente, «Non vuoi dirmelo?»
«Cosa?»
«Perché sembra ti si sia invalidato il criceto. Quella è la faccia che si ha quando il veterinario dice che ha dovuto mettere il gesso alla zampina del tuo adorato criceto Larry e che non potrà più suonare il violino come una volta».
Il minore si voltò lentamente con le sopracciglia aggrottate. Lo osservò a fondo, «Ti sei fumato qualcosa, questa mattina?». Sembrava più un’affermazione che una domanda.
«Cosa?» si voltò per un secondo verso di lui prima di riprendere a guardare la strada. «È una cosa seria, Dean».
«Un criceto che ti sei appena inventato, di nome Larry, che a quanto pare suona il violino, sarebbe importante?»
«No, il tuo umore lo è», negò con il capo, incredulo. «Sono davvero il genio della famiglia».
«Sei il coglione della famiglia», lo corresse.
«Hey! Io mi sto preoccupando per te e tu-», provò a ribattere, ma fu interrotto.
«Si è diffusa una foto di me che bacio una ragazza e, anche se ero ubriaco, ho ferito Wendy», confessò tornando ad osservare il paesaggio fuori dal finestrino.
Adesso si che si sentiva in colpa, se non lo avesse trascinato in quel bar non si sarebbe mai ubriacato e non avrebbe mai baciato quella ragazza. «Mi dispiace, se non ti avessi obbligato ad accompagnarmi non avresti litigato con Wendy».
«Non è colpa tua, come ti ho già detto il nostro rapporto era già in crisi», sospirò tirando in dietro il capo, sul poggiatesta del sedile. «Se solo non avesse insultato Price, che mi aveva dato ottimi consigli, non avrei mai avuto dei dubbi su di lei».
«Ha insultato Vick?» chiese confuso, «Suppongo non sappia la sua situazione».
«A scuola lo sappiamo solo io, Chris e Josh. Oltre al preside, ovviamente».
Maledizione, voleva sapere. Il teppista gli aveva intimato di non farsi più sentire ed aveva rispettato la sua scelta, ma non poteva negare di essere preoccupato. Era normale, giusto? Erano stati insieme per tanto tempo, no? «Come sta?» si azzardò a chiedere.
«Non lo so, non si presenta a scuola da giorni. Chris è sempre di pessimo umore e cerca di evitare il discorso. So solo che ha fatto un altro ciclo di chemioterapia», si voltò a guardarlo notando le sopracciglia aggrottarsi, le mani stringere maggiormente il volante. «Sei preoccupato?»
Non rispose, rilassò le spalle e preferì cambiare discorso. «Tieniti forte», sospirò rumorosamente e teatralmente, «Sto per dire il consiglio più serio che io abbia mai dato in vita mia».
«Tu che dai consigli seri?» alzò un sopracciglio scrutandolo come se, al posto di Danny, avesse preso posto un alieno.
«Non guardarmi in quel modo, non sono così stupido!» esclamò tra il divertito e l'indignato. Accostò dal lato opposto della strada, dinanzi alla Boston High School. «Senti», si volto verso di lui per guardarlo dritto in quei occhi cerulei, «Non dare peso alle voci che senti a scuola, tanto meno alla “scala sociale” che viene a crearsi. Quella non è la realtà, o meglio, ne è solo una. Ma non è quella che vivrai quando uscirai da lì, è una fase della tua vita». Gli stava dando il consiglio che avrebbe dovuto ascoltare quando glielo avevano dato. Quando Victor glielo aveva dato. «Riguardo a Wendy, se ti conosce sa che non avresti mai fatto una cosa simile da lucido, presto la rabbia scemerà via e verrà lei a chiarire con te».
«Magari fosse così semplice come dici», scese dal pick up e si appoggiò al finestrino aperto. «Danny, ti ringrazio» gli sorrise.
«Sappi che Larry tornerà a suonare il violino», puntualizzò con un sorrisino.
Dean alzò in risposta gli occhi al cielo, «Sei sempre il solito». S’incamminò verso l'entrata salutandolo con un cenno del capo.
«Questa volta mi ha salutato», constatò ad alta voce nonostante fosse rimasto da solo. Si appoggiò sullo schienale del sedile e cacciò un sospiro, non faceva altro che pensare a Price da quando aveva intenzione di dichiararsi a Kevin. Girò la chiave accendendo il motore e partì per recarsi all'officina. Lui sapeva benissimo il perché, Victor aveva sempre sofferto il fatto di tenere nascosta la loro relazione, il fatto che non si sentisse di fare coming out. Ma era troppo buono, non glielo aveva mai fatto pesare nonostante lui si sia sempre comportato male. Lo aveva tradito, anche davanti a quegli occhi color del mare e, quando tornava da lui, lo perdonava sempre. Era stato un vero stronzo ed adesso il karma gliela stava facendo pagare, si era innamorato di un omofobo. «Sono proprio il coglione della famiglia», sussurrò tra sé e sé parcheggiando dinanzi all’officina Thompson. Quel giorno, se lo sentiva, doveva essere quel giorno. Prese un respiro profondo e scese dal pick up, si passò una mano tra quei capelli neri come la pece che aveva lasciato crescere da quando aveva lasciato il college. Erano appena le otto di mattina, ma era già stracolma di macchine. Vi erano due serrande che davano accesso ad una specie di garage con banconi pieni di attrezzi. Il pavimento era grigio scuro mentre alcune macchie d'olio facevano da contrasto. Il rumore di motori ed altri attrezzi rimbombavano mentre l'odore misto tra fumo ed olio motore gli impregnava le narici.
«Buon giorno, ragazzo. Sei arrivato in anticipo questa mattina», lo salutò David Thompson, il suo capo, nonché il padre del ragazzo di cui si era follemente innamorato come una scolaretta adolescente.
«Buon giorno, signor Thompson.» ricambiò il saluto, avvicinandosi.
«Vorrei tanto che quello sfaticato di mio figlio fosse diligente come te. Probabilmente è ancora a poltrire nel letto, fino a quando sua madre non lo sveglierà dieci minuti prima delle nove», si lamentò negando con il capo.
«Ma arriva sempre puntuale», provò a difenderlo. Ovviamente, lo stava coprendo, nulla era vero. Spesso arrivava con un’ora o due di ritardo all’insaputa del padre.
«Sei un buon amico, peccato che mia moglie mi riferisce a che ora esce di casa quel deficiente». Era stato scoperto nel giro di pochi secondi, David faceva finta di non sapere. «Ora mettiti a lavoro e quando vedi Kevin, mandalo nel mio ufficio che devo dargli una bella strigliata». Gli fece l'occhiolino con un ghigno per poi dirigersi nel proprio ufficio.
«Si, capo» rispose, anche se ormai non poteva più udirlo. Probabilmente sarebbe stata l’ultima volta che quell’uomo sarebbe stato così tanto amichevole con lui. Si diresse verso l'auto di cui si stava occupando il giorno precedente, aprì il cofano ed osservò il motore prima di infilarci le mani ed iniziare a lavorarci. Non riusciva a concentrarsi. Non faceva altro che pensare alle parole giuste da dire quando si sarebbe dichiarato. Ci stava pensando da settimane, aveva riflettuto su cosa dire, su cosa sarebbe accaduto, e ciò non aveva giocato a suo favore. Era ancora più terrorizzato di prima. Come faceva Price a non aver timore dell’opinione degli altri? Come faceva a non aver paura di dirlo a tutti? Come aveva fatto a fare coming out così facilmente? Sospirò per l'ennesima volta in quella mattina, era un vigliacco. Ed aveva ferito l'unica persona che sapeva com'era davvero per colpa della sua vigliaccheria. Aveva mandato tutto all’aria.
«Amico, perché quei sospiri d'amore?» lo canzonò dandogli delle pacche sulla spalla in modo amichevole per poi appoggiarsi sul cofano dell’auto, incrociare le braccia e guardarlo con un sorriso beffardo.
«Kevin», sussurrò Daniel alzando lo sguardo su di lui, trovandosi dinanzi quegli occhi color cioccolato. Quei capelli quasi sempre in disordine e quelle labbra curvate all'insù che avrebbe voluto baciare tutto il tempo. Il cuore sembrava martellargli in gola. Tossì cercando di riprendersi, era sicuro di aver stampata in faccia un'espressione da ebete. «Tuo padre sa che sei uno sfaticato», adesso era il suo turno di punzecchiarlo, «Ti vuole nel suo ufficio».
«Hai vuotato il sacco tu?»
«No, la spia è sposata con tuo padre», si pulì le mani sporche con un panno.
«Sei sposato con mio padre? E non mi avete nemmeno invitato al vostro matrimonio, vergognatevi». Scoppiò in una grassa risata.
«No, idiota. Io preferisco farmi il figlio del capo, non credi?» si stava dichiarando senza che lui lo sapesse? Il suo cuore si sarebbe dato pace lo stesso? Avrebbe comunque messo un punto?
«Sei disgustoso», rise spingendolo per una spalla.
«Già». Peccato che Danny aveva smesso di ridere e Kevin se ne rese conto solo in quel momento, aggrottando la fronte.
«Stai bene?»
«Kevin, io….» doveva essere deciso e guardarlo negli occhi. Doveva essere coraggioso e fiero di ciò che era, del proprio orientamento sessuale. Le sue iridi verdi incrociarono quelle marroni confuse del figlio del capo. «Io sono innamorato di te», l'aria sembrò mancargli nei polmoni ed il cuore uscire nel petto.
Thompson, dopo qualche secondo, scoppiò a ridere. «Dai, non scherzar-»
«Non sto scherzando.» lo interruppe abbassando lo sguardo per poi forzarsi a risollevarlo verso il ragazzo. «A me sono sempre piaciuti i ragazzi, Kevin».
«Non dire idiozie, non sei frocio come Price».
«Era il mio ragazzo, sono decisamente frocio come lui», si morse nervosamente il labbro inferiore.
«Ma ti ho visto baciare ed andare a letto con delle ragazze», strinse i pugni.
«Mi sono sempre fermato solo ai baci e qualche preliminare tenendo gli occhi chiusi. Ho cercato di rinnegare me stesso. Ho cercato di nascondermi ed ho ferito Vick per la mia codardia.» lo vide irrigidirsi, il suo viso divenire rosso dalla rabbia. «Sto facendo coming out con te perché sei mio amico e perché vorrei fossi qualcosa di più», fece un respiro profondo chiudendo gli occhi e riaprendoli lentamente, «Kevin, sono innamorato di te». Vide il suo pugno alzarsi, pronto a colpirlo. Il suo sguardo pieno di rabbia, le sue iridi piene di ribrezzo mentre lui lo guardava con occhi sgranati.
«Kevin», una voce fece bloccare il pugno che lo stava per colpire in pieno viso, sul naso. «Nel mio ufficio, adesso», ordinò lapidario David Thompson.
Il figlio si ghiacciò sul posto, si guardò intorno vedendo i clienti che li guardavano e bisbigliavano, gli operai dallo sguardo confuso. Prese Mcdaniel per il colletto della maglia. «Non farti più vedere, frocio di merda. Sei licenziato, lo riferirò a mio padre», sussurrò a denti stretti prima di spingerlo via in malo modo ed allontanarsi con grandi falcate pesanti.
Faceva male, il cuore gli martellava nelle orecchie, un ronzio persistente gli formava i timpani. Gli occhi divennero lucidi, lo avrebbe picchiato se il padre non lo avesse fermato. Ma le parole lo avevano ferito lo stesso, dritte nel petto. Sarebbe stata l’ultima volta che lo avrebbe visto. Avrebbe mai smesso di fare così male? Si guardò intorno sentendosi degli sguardi indagatori addosso, alcuni operai lo stavano osservando, perplessi. Quel mormorio di sottofondo era diventato un fastidioso ronzio. Doveva andarsene.
§
Sapeva che era sbagliato, ma non aveva scelta. Aveva bisogno di parlarne con qualcuno, di sfogarsi, di essere compreso e Dean non rientrava tra quelle persone. Non perché Daniel non si fidasse, ma perché non si sentiva ancora a suo agio a parlare della sua sessualità con lui. Le porte dell'ascensore si aprirono, camminò lungo il corridoio fino ad arrivare dinanzi alla porta di quell’appartamento. Prese un respiro profondo ed avvicinò lentamente l'indice al campanello, ma senza sfiorarlo lo ritrasse come se si fosse scottato. Forse era meglio bussare? Avvicinò le nocche alla porta, ma le ritrasse quando la sentì aprirsi. Indietreggiò, trovandosi davanti un uomo di mezz’età. Aveva dei capelli neri come la pece, leggermente più lunghi. Gli occhi castani, contornati da delle occhiaie, erano tristi. La barba appena accennata doveva essere di circa una settimana. Doveva essere lo zio di Victor, lo aveva visto in una delle foto di famiglia. «Signore-», fu interrotto sul nascere.
«Senti ragazzo, ho già detto al tuo collega che non ci interessa l'aspirapolvere», ribadì seccato chiudendosi la porta alle spalle mentre usciva. Era di fretta, avrebbe fatto tardi a lavoro.
«Aspirapolvere?» domandò confuso, Danny.
«Non sei uno di quei venditori?» lo scrutò da capo a piedi, accigliato.
«Sono…», passò una mano sulla nuca. Cos'era? Non poteva dire di essere l’ex ragazzo del nipote. «Sono un amico di Vick».
«Amico?»
«Si, sono da poco tornato dal college. Uscivamo spesso insieme, sono Daniel», mentì in parte.
«Questo nome mi pare di averlo già sentito», sembrava avergli creduto. Gli aprì la porta dell'appartamento, «È in camera, ancora un po' debole. Fate i bravi». Gli diede una pacca sulla spalla e corse giù dalle scale, lasciandolo solo.
Osservò la porta socchiusa. Da quanto tempo non vedeva l’azzurrino? Chiuse gli occhi, fece un profondo respiro ed entrò nell'appartamento. Era tutto come se lo ricordava. Il silenzio surreale era interrotto solo dal ronzio del vecchio frigorifero in cucina con delle calamite attaccate sullo sportello in modo disordinato. Alla sua destra vi era il divano dove lo aveva visto l’ultima volta, se non ricordava male aveva appena concluso il primo ciclo di chemioterapia. Adesso quante ne aveva fatti? Percorse lentamente il corridoio fino alla familiare porta della stanza del teppista. Era socchiusa, al di là sentiva solo dei respiri pesanti. L’aprì lentamente e silenziosamente, come se avesse paura che al minimo rumore, tutto si sarebbe frantumato e non avrebbe più avuto il coraggio di parlargli. Era seduto sul letto e fissava un cappello di lana, rigorosamente nero. Aveva la testa rasata ed aveva un po' di fiatone. Era già a quel punto? Aveva dei frammenti sfocati della signora Clark, la madre di Victor, che si sovrapposero alla figura del ragazzo. Il suo fisico sempre più smunto, la pelle ancora più pallida di quanto ricordasse quel giorno.
«Vick», sussurrò basito. Non lo ricordava così, faceva male. E quando Price alzò gli occhi per incrociare i suoi, non ci furono dubbi: anche il suo sguardo era cambiato, era più spento, stanco. Probabilmente aveva appena pianto. Aveva delle occhiaie che facevano ancora più contrasto con la pelle perlacea del viso. Aveva gli occhi rossi e le ciglia non erano del tutto asciutte.
Lo sguardo del teppista s’indurì. «Come sei entrato?» chiese mentre si infilava il berretto di lana. Solo Christopher e suo zio Charlie lo avevano visto in quello stato, e avrebbe voluto rimanessero in due.
«Tuo zio mi ha fatto entrare», il suo ex ragazzo abbassò lo sguardo sul pavimento.
«Ti ho detto di non farti più vedere», ricordò acido distendendo le gambe sul letto e poggiando la schiena sulla testata del letto. «Va via».
«Andiamo, ho bisogno di parlare con qualcuno del mio coming out», avanzò entrando nella camera.
«Puoi parlarne con tuo fratello Dean».
«Mi sento a disagio a parlare con lui della mia omosessualità, Vick» ammise strofinandosi il palmo sulla nuca.
«Fammi capire bene, vuoi parlare con me, il tuo ex ragazzo, della tua omosessualità nonostante tu abbia cercato di nasconderla anche durante la nostra relazione? La vedi anche tu l'ironia?» ricapitolò seccato.
Il corvino sbuffò rumorosamente alzando gli occhi al cielo, «Cosa vuoi in cambio?»
«Sai già dove andare a parare, eh?» ghignò poggiando il capo sul muro, sembrò rifletterci su. «Una sigaretta, ci stai?»
Non aveva scelta, aveva bisogno di parlare, di sfogarsi e di essere compreso, capito. Danny annuì sedendosi allo stesso modo al suo fianco, sfilò il pacchetto dalla tasca e glielo porse. Lo osservò sfilare la sigaretta con dita tremolanti e poggiarla tra le labbra per poi accenderla. Tossì dopo il primo tiro ma intravide un sorrisino. «Ho fatto coming out con Kevin», ruppe il silenzio, «E mi sono dichiarato, consapevole che mi avrebbe rifiutato».
«Stai raccontando al tuo ex la tua attuale cotta per un omofobo?» domandò serafico.
«Non dovevi ascoltarmi?»
«Non ho mai detto che sarei rimasto in silenzio e, soprattutto, che non avrei continuato a sottolineare l’ironia della situazione», sbuffò del fumo che danzò dinanzi al suo volto per poi incrociare i suoi occhi verde smeraldo. «Cos'è successo?»
«Non mi ha colpito», sapeva dove voleva andare a parare. Kevin era sempre stato una testa calda. Entrambi sapevano fino a dove Thompson era in grado di spingersi. Come quando aveva scoperto che la sua ragazza lo tradiva e per la rabbia aveva messo a soqquadro la sua camera, aveva rotto diverse cornici, strappato foto di loro due e, come ciliegina sulla torta, aveva colpito il muro, con la vittoria di quest'ultimo. Il corvino aveva ancora quell’immagine di Price che medicava le mani di Kevin mentre piangeva dalla rabbia.
Il teppista continuava a guardarlo, per nulla convinto della sua risposta.
«So dove vuoi arrivare, non lo denuncerò», si accese anche lui una sigaretta. «Voglio lasciarmi tutto alle spalle e ricominciare».
«E come vorresti farlo?»
«Trovandomi un nuovo lavoro, per esempio», alzò le spalle, come se fosse una cosa scontata.
«Quindi hai mollato?» era più un’affermazione che una domanda. Mcdaniel sapeva benissimo che si riferisse al college.
«Si». Con la coda dell’occhio osservò Vick rabbuiarsi e fissare la sigaretta accesa tra le dita instabili, tremolanti. «Nessun’altra battuta sull’ironia della situazione?»
«Nessuna battuta», asserì secco senza degnarlo di uno sguardo. Non doveva importargli se Daniel aveva deciso di lasciare il college, eppure lo irritava. Lo aveva lasciato con questa scusa e sapere che era davvero tale, lo aveva ferito ancora. Si portò la sigaretta alle labbra ed il sapore di tabacco gli invase le papille gustative, il catrame gli riempì i polmoni malaticci e stranamente si sentì meno irrequieto. «Sai perché mi piace fumare?» interruppe quei minuti tesi di silenzio mentre alzava lo sguardo per incrociare quello di Danny.
«Perché in fondo ti odi?»
«Anche, ma principalmente perché io sono come una sigaretta, la mia vita è come una sigaretta. Sai che si spegnerà presto e cerchi di tirare il più possibile, di godertela a pieno, fino al filtro. Anche se sai che non durerà a lungo».
Il corvino sbuffo un sorriso condiscentente negando con il capo, «Stronzate». Non si voltò a guardarlo continuando a fumare, intravide con la coda dell’occhio Price accigliarsi.
«”Stronzate”?» gli fece eco, irritato.
«Stai parlando della tua dipartita con un cancro ai polmoni mentre fumi una sigaretta. Sembra che adesso sia il mio turno di sottolineare l'ironia».
«Non ti riguarda, non più», rispose stizzito stringendo il lenzuolo con la mano sinistra, senza farsi vedere. Non voleva che Daniel notasse che le sue parole avessero l’effetto desiderato.
«Sei un egoista», Vick si voltò di scatto con gli occhi sgranati, ciò non gli impedì di continuare. «Stai rendendo vana la presenza di tuo zio qui, per non parlare di Chris».
«Almeno loro ci sono», i suoi occhi si fecero freddi come il ghiaccio.
«Non prendermi per il culo!» urlò alzandosi ed allargando le braccia. «Mi stai davvero dando la colpa?!» domandò incredulo, «Dopo che non ti facevi sentire per settimane quando tua madre stava male? Sai benissimo quante volte ho provato a chiamarti! Sai benissimo quante volte ho provato ad esserti di supporto quando ti rifacevi vivo, ma ti sei sempre rinchiuso in quel tuo guscio fatto di sarcasmo e ironia». Era paonazzo in viso, era sicuro che la vena sulla tempia si era gonfiata all'inverosimile. «Mi hai sempre allontanato».
«Sai, quando ero in ospedale con mia madre, guardavo spesso la porta della stanza sperando di intravedere la tua sagoma. Sapevi benissimo dov'ero, ma ti sei sempre e solo limitato a chiamarmi. Poi hai smesso». Alzò il viso per incrociare i suoi occhi azzurri, lucidi, con le iridi verdi del maggiore. Deglutì e sussurrò «Va via».
«Vick, perché non mi hai mai dett-» provò a chiedere, con l'intento di parlare, chiarirsi. Ma fu brutalmente interrotto.
«Ho detto di andare via», esordì secco, con il respiro affannato, spegnendo la sigaretta su quel posacenere che non usava da mesi per poi alzarsi e chiudersi in bagno sbattendo la porta.
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