- Capitolo Ventisei -

Erano passati cinque giorni dalla festa a sorpresa e mia madre ogni santa mattina mi aggiornava sul matrimonio e sui giorni che mancavano al mio ritorno a casa.

Era impossibile sfuggire a lei e alla sua determinazione di rovinarmi la vita.
Stare a casa delle gemelle era un sollievo da una parte e un'agonia dall'altra.

Aprivo gli occhi con il pensiero di passare una bella giornata con loro, ma al suono del mio telefono il mio umore puntualmente cadeva a terra.
Le sue comunicazioni erano veloci e immediate.

"Felicity, ho scelto le rose per il bouquet."

"Felicity, sto contattando gli atelier di Versace e Prada per il tuo vestito."

"Felicity, la wedding planner mi ha chiesto se preferisci il mare o un hotel di lusso, ovviamente hotel di lusso. Ci mancherebbe che la sabbia rovinasse le scarpe di Versace che sto pensando di prendere per me."

Fino all'ultimo di questa mattina.

"Felicity, ti ricordo che mancano dieci giorni. Ho scelto il rosa pallido per le decorazioni e come secondo colore."

Avrei tanto voluto dire che non me ne fregava un cazzo e che il rosa pallido mi faceva schifo.

Ma le mie risposte erano sempre e solo un semplice "Va bene". Molte volte avevo pensato di non rispondere affatto, ma le mie sorelle mi avevano consigliato di tenerla buona mentre cercavamo di trovare una soluzione.

Il cinguettio di un uccellino mi riportò alla realtà e al mio espresso ormai freddo nella tazzina di Crystal.
La guardai e sorrisi.
La scritta in italiano mi fece pensare al viaggio che facemmo in Italia.

"Bevi me, non solo il caffè"

Risi da sola ricordando il momento in cui l'aveva comprata come souvenir.
Non sapeva nulla della lingua italiana,  tranne ciao e arrivederci.
Una volta comprata, però, il suo entusiasmo per il colore e la torre di Pisa raffigurata sul retro era contagioso. Ma ancor di più ricordo la sua espressione mentre papà le spiegava in inglese cosa significasse la frase.

Una videochiamata interruppe la mia colazione mattutina.
Buttai il caffè nel lavandino e con il sorriso sulle labbra la avviai.

«Eccolaaaa finalmente! bonjour mon amour»

«Bonjour, mon cœur»dissi ridendo.

«Ma che fine hai fatto, porca miseria? Possibile che debba venire fin lì per rintracciarti.»

«Scusa Charlie, le gemelle mi hanno preso in ostaggio.»

«Mmmh interessante.. per fare cosa? Sesso, droga e rock 'n' roll?»

«Ti piacerebbe, eh?» Risi guardandola di sbieco.

«La prima e la terza si. Per la droga passo. Sai come è, un bel ragazzone è meglio di quello schifo.» Rise e si aggiustò i capelli ribelli.

«Charlieeeee!» dissi mentre mi sedevo sul divano a gambe incrociate.

«Scusa Suor Felicity. Avevo dimenticato la tua castità.» Rise, ma poi si rese conto della cavolata detta. «Scusa Ty, mi è uscita così. Non ho pensato.»

«Tranquilla, ti conosco da anni. So che non l'hai fatto apposta.»

Sapevo che si sentiva in colpa per aver smorzato l'umore, ricordandomi i trascorsi.
Sospirai, chiusi gli occhi e tornai indietro di dieci secondi.

«Ti manco? Stai bene?» gli chiesi per cambiare argomento e alleggerire la situazione pesante che si era creata.

«Come l'aria, lo sai... io sto bene, e tu? Come va?»

«Vediamo...»

Cominciai a raccontarle delle mie giornate, dello shopping, del mare, della festa a sorpresa, di mia madre e dei suoi messaggi.
Delle gemelle e delle loro liti, delle uscite con i ragazzi. Dei film che avevamo visto e della serata tra donne trascorsa la sera prima, tra ceretta e manicure.

Ma non dissi nulla di Noah. Non riuscivo a sfogarmi, a raccontarle nulla, sembrava tutto molto stupido e superficiale. E poi vederla così sorridente aveva già migliorato la mia giornata perché non lo vedevo da giorni.
Ogni volta che avevo visto David e Miki, lui non c'era. Era come se volesse evitarmi dopo quella sera al locale.
Pensare a lui era strano, mi rendeva vulnerabile e instabile con le mie sensazioni. Sentii subito le guance arrossire.

Era difficile dimenticare i suoi occhi.

«Stai arrossendo....lo vedo dalla luce che ti sbatte sul viso...»

«No, no, non è vero...Ho preso solo un pochino troppo sole. Qui scotta da morire.»

«Ty, non raccontarmi cavolate. C'è qualcosa che vuoi dirmi? Hai pensato a qualcosa e ti sorridevano anche gli occhi.»

Arrossii ancora di più e mi misi la mano davanti alla faccia come una dodicenne alla prima cotta.

«Sei diventata rossa come un peperone! C'è qualcosa...o qualcuno forse

«Io...»

«FEEEEELICITY LINS! Sputa il rospo. Ho ancora dieci minuti prima di andare a lezione di pilates. Parla.»

Valutai le circostanze.
Ormai, evitare il discorso era impossibile. Mi conosceva troppo bene per bersi qualsiasi mia scusa.
Chiusi gli occhi e mi buttai sapendo che potevo fidarmi di lei.
Potevo sempre sentirmi stupida. Non mi aveva mai giudicata. Non lo aveva mai fatto in tutti questi anni.

«Ok...si chiama Noah...» la sentii ridere, gridare e saltellare. «Charlie, aspetta! Charlie...non è come pensi. Non c'è stato nulla...ci solo guardiamo...e...»

Feci una pausa un pochino troppo lunga cercando di trovare parole che spiegassero il mio punto di vista e il poco che era successo.

«E?»

«Riesce a toccare punti che mi lasciano senza parole. Senza fare nulla è riuscito con poco a tirar fuori la vera Felicity e a far nascondere quella degli ultimi anni.»

«Cazzo», la guardai mettersi una mano sulla fronte con gli occhi quasi lucidi.

«Abbiamo parlato, discusso un po'... qualche situazione ambigua, ma nulla di rilevante. L'unica cosa che posso dirti è che i suoi occhi mi vedono. Vedono me e mi vedono in modo diverso.»

«Cosa provi quando ti guarda? Lo sai che non ti giudico, ma ti ascolto...»

«Non so come spiegartelo, ma lo sento. Sento i suoi occhi che mi guardano, il calore che emanano, il fuoco che mi arde quando mi tocca, anche per caso come è successo l'altra sera. Ma la cosa strana è che lo sento vicino. Come se lui fosse uguale a me, come se fossimo affini... come se fossimo sulla stessa lunghezza d'onda.»

«Caspita...»

Continuai a raccontargli di Noah, delle sensazioni, dell'aspetto da bad boy e delle sue conquiste. Charlie non si risparmiò con commenti poco signorili.
Fino a quando mi guardò seriamente e disse delle parole che forse la mia anima aveva bisogno di ascoltare veramente. Che forse il mio cuore aspettava da tanto.

«Tolto il fatto che appena riattaccherò con te, andrò su Facebook e Instagram e farò una ricerca tramite le gemelle. Visto che non vuoi dirmi il cognome, devo agire in altri modi, così potrò rifarmi gli occhi. Ma voglio che mi ascolti, Felicity..»Si liberò dei ricci che le cadevano sulla faccia e continuò «Vivi... lascia perdere Crudelia De Mon, quello stronzo di Nicholas e goditi quello che viene. Goditi la vita, vola come una farfalla, brilla come una stella, illumina qualsiasi cosa come il sole, ma sii te stessa. Perché mi manca vederti sorridere, vederti star bene. E se questo sorriso che vedo mentre parli di lui è frutto della sua attenzione... continua a godertela, continua a prenderti quello che viene di buono. La vita è una e tu hai già sofferto abbastanza tenendo la testa bassa. È ora di rialzarla, amica mia.»

La guardai con occhi lucidi. Mi aveva spezzato e rimesso insieme senza saperlo. Era riuscita a trasmettermi tutto in un discorso di cinque secondi. Era riuscita a capire anche a chilometri di distanza cosa volessi udire.
La guardai e sorrisi felice.

«Ti voglio bene! Ma davvero tanto. Avevo proprio bisogno di te, delle tue parole e della tua presenza.»

«Io sono qui... non posso esserci fisicamente, ma io sono qui!
Ti voglio bene anche io. Adesso devo andare, ma ci sono Ty, ci sono, ricordalo!»

«Buona lezione di pilates, tesoro. Ci sentiamo presto.»

Riagganciai e mi asciugai le lacrime che avevo versato in silenzio.
Avere lei era come avere un porto sicuro in un mare in tempesta.
Come un'ancora.
Come un faro guida.
Era salvezza.

Mi accorsi che l'avevo dimenticato nei giorni bui, talmente cieca da non riuscire a vedere oltre il dolore e a far entrare nulla di quello che lei e le mie sorelle volevano capissi.
Non riuscivo ad aprirmi completamente.

Ora invece, grazie a Noah, che fondamentalmente non aveva fatto nulla, il mio cuore batteva un pochino di più.
La coperta di ghiaccio e cristallo che avevo creato come scudo intorno al mio organo vitale, si era scheggiata.
Percepivo di più, sentivo di più.
Forse aveva ragione Charlie.
Dovevo buttarmi e vivere quello che sarebbe venuto con lui, tanto non sarebbe cambiato nulla, lo sapevamo tutti.

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