- Capitolo Quattro -

Accennai un piccolo sorriso e mi avvicinai.

Il mio migliore amico.

Colui che ci sarebbe sempre stato, che mi avrebbe rispettato, supportato e aspettato nei momenti più bui.
Colui che aveva raccolto le mie lacrime, i miei pensieri, ogni volta che ne avevo avuto bisogno.

Era lucido e nero come ultimamente era la mia anima.
La sua coda era imponente, più lo guardavo più me ne innamoravo ogni giorno di più.

Lo toccai con delicatezza, i tasti bianchi e neri mi chiamavano da mesi, ma io non riuscivo ad ascoltarli.
Ci avevo provato tante volte nel cuore della notte, mentre tutti dormivano.
Non era bastato nemmeno il mio amore per lui a far passare tutto.
Ogni volta che facevo scorrere le mie mani su di esso, anche solo per sentire una nota, mi bloccavo.

Sospirai e chiusi gli occhi accarezzandolo come se fosse un'anima pura.

Quanto mi mancava.

Nello stesso istante in cui pensai di sedermi sullo sgabello e riprovare per l'ennesima volta, sentii un fracasso in cucina che mi riportò al motivo per cui ero scesa.
Guardai un'ultima volta il pianoforte sospirando e con tutto il coraggio che avevo, percorsi il piccolo corridoio che portava in cucina.

Mi avvicinai lentamente, senza però palesarmi.
La stanza era invasa da decine di scatoloni aperti, pieni di utensili, e alcuni vuoti erano sull'isola pronti per essere riempiti.
I miei genitori invece, stavano chiacchierando fra loro in modo agitato.
Erano talmente concentrati sui loro discorsi, da non aver notato la mia presenza e così ne approfittai per osservarli.

Mia madre era seduta vicino all'isola della cucina con in mano un bicchiere di vino rosso, come le sue unghie e il suo tailleur.

Perfetta, glaciale e ultimamente astiosa senza motivo.

È sempre stato un tipo ben curato, dentro e fuori casa.
I suoi capelli di un biondo ramato erano sempre impeccabili.
Trucco ineccepibile a contornare quegli occhi color ruggine, tanto uguali a quelli di nonna Rose e, un fisico da far invidia anche alla modella più acclamata.

Ma pur sempre gelida.

Anche noi tre, fisicamente avevamo ripreso da nostra madre. Celine e Crystal erano molto simili tra loro, erano gemelle, ma se Crystal era come la mamma anche per quanto riguardava il colore degli occhi e dei capelli, Celine era uguale a nostro padre. Capelli neri come il carbone e occhi verde muschio.

Spostai lo sguardo e lo vidi mentre raccoglieva pezzi di vetro frantumati.

Lui era sempre stato un tipo più alla mano.
Quando doveva recarsi a lavoro, era sempre ben vestito con i suoi completi fatti su misura da uno stilista italiano, i suoi capelli neri come l'inchiostro accuratamente corti e i suoi occhi sempre severi, ma di un verde folgorante.

La parte della giornata che mi piaceva di più era quando rientrava a casa, si spogliava, togliendo gli abiti da medico e fasciava il suo corpo muscoloso con i vestiti da papà.

Indossava una tuta, un maglioncino ed era pronto a giocare con noi a qualsiasi cosa avremmo scelto.

Io ero proprio come lui.
Seppur fisicamente ero uguale a mia madre, forse con qualche forma in più, e avevo occhi di un blu notte e capelli neri come nonno Jon, per tutto il resto ero identica a mio padre.

«James, cavolo vuoi stare più attento? I bicchieri di tua nonna sono da collezione, adesso ne mancano due!»

«Karol non fare tante storie. Ne hai altri cento, ti avevo detto di non metterli in alto nello scatolone!» rispose a tono mio padre.

Erano agitati e tanto, forse non era il momento migliore per affrontarli. Giocai con l'orlo della maglietta per impedire alla paura di farmi scappare.
Ero nervosa, dentro di me sapevo già cosa mi aspettava.

Provaci, tanto non hai nulla da perdere.

La mia coscienza cercava di spronarmi, sapeva benissimo che altrimenti mi sarei tirata indietro.
La mia anima già rotta in mille pezzi non avrebbe retto un altro rifiuto da parte loro. Sentivo nelle ossa e in fondo al mio cuore che loro non mi avrebbero aiutato.

Strinsi le mani a pugno e le rilasciai per darmi coraggio.
Dovevo provare, mi restava solo quello.
Feci un lungo respiro e mi augurai mentalmente che considerassero la mia offerta.

«Posso parlarvi un secondo?»

Mia mamma sussultò sentendo la mia voce roca e appena mi vide portò una mano sulla bocca immediatamente, sgranando gli occhi.

Mi ero guardata allo specchio prima di scendere, ero pallida, la mia maglietta bianca era sporca di trucco e i miei capelli arruffati, come un nido di uccelli, ma i miei occhi erano rossi come il sangue.

Non mi riconosceva.
Nemmeno io riconoscevo Felicity.

Da almeno due anni però.

«Volevo chiedervi una cosa. Io non voglio venire a Sacramento. So cosa mi aspetta e lo sapete anche voi. Vorrei rimanere qui con i nonni almeno l'ultimo anno. Poi andrò a Berkeley da Celine e Crystal.»

Mia madre mi guardò stranita, come se io non fossi sua figlia ma soltanto una mosca che sentiva ronzare.
Vedendola arcuare un sopracciglio, il fuoco che sentivo dentro sbottò in rabbia pura.

«Per l'amor del cielo come fate a non capire? Lui è meschino, un mostro vestito da principe. Mi tratterà come un oggetto per sempre, come un trofeo. Ho solo diciott'anni, non voglio questa vita per me, merito di più!» urlai.

Nulla, silenzio, due volti che mi guardavano senza veramente guardarmi.

«Ve lo chiedo per favore, fatemi rimanere con i nonni!» mi bloccai con la gola stretta e senza fiato, ecco l'avevo detto.

Avevo chiesto pietà ai miei genitori. La loro clemenza.

Iniziai a piangere e a singhiozzare in silenzio.
Cazzo, questa era l'unica via di uscita che potevo avere, non ne avevo altre.

Come può una figlia chiedere di essere salvata ai propri genitori?
Non dovrebbero essere loro a salvare me, nonostante tutto?
Perché non mi sentivo abbastanza per loro?
Perché non mi volevano?

Loro non erano mai stati così. Da quella notte era cambiato il loro modo di vedermi.
Ma cosa potevo farci io se Lui aveva scelto me. Se solo avessi saputo a cosa andavo incontro.

I miei genitori erano cambiati quella sera, ma non capivano che lo ero anche io.
Ero stata io a subire il mostro, ero stata io, in questi due anni, a sognarlo ogni notte. Ero stata io a cadere nel baratro. Non loro.
Io.

Mio padre si alzò da terra e mi guardò con occhi lucidi e lo sguardo di chi era impotente.
Girò su se stesso e si dileguò nel nostro giardino per buttare i cocci che aveva raccolto.

Dal suo volto avevo capito benissimo che si sarebbe dileguato per non guardarmi, lo faceva sempre.

Mia madre invece mi mostrò il lato che da un po' mi rivolgeva quando papà non era nei paraggi.

Il suo sguardo lo sentivo sulla mia pelle.
Freddo, come se mi avessero avvolto intorno una coperta fatta di ghiaccio. Mi intimoriva, mi gelava ogni volta.
Abbassai il viso, ma lo rialzai immediatamente guardando dietro di lei, non meritava di vedere la mia debolezza in quel momento.
In fondo non si era mai soffermata a osservarmi veramente.

Era inutile evitare la sua furia però, sarebbe arrivata in un modo o nell'altro.
Me la faceva pagare sempre.

Allora presi coraggio e piantai i miei occhi nei suoi con ferocia.
I suoi però, erano il riflesso dei miei.
Nei miei, vedevo rabbia per non essere capita.
Nei suoi, quel sentimento era circondato da cattiveria e da qualcos'altro.

Un altro sentimento che nascondeva, qualcosa di profondo e puro. Sembrava odio.

Lo avevo già visto nei suoi occhi in questi due anni e molte volte mi faceva una profonda paura.

Tutto questo non prometteva nulla di buono.
Quell'odio solo per una semplice domanda?
Non riuscivo a capirla ultimamente.
Cosa c'era di sbagliato in quello che avevo chiesto?
Cosa c'era di tanto grave da farla reagire così, ogni santa volta?
Cosa c'era di sbagliato da farle odiare me, sua figlia?

Sapevo benissimo che ne avrei pagato le conseguenze.
Ma in fondo al mio cuore volevo credere che c'era speranza.
In me, in lei.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top