10 - Capricci e proiettili

Mi riscossi quando qualcuno alzò la voce. Mi ero addormentata su una poltroncina nella sala d'aspetto dell'ospedale, in attesa che il mio tutore legale firmasse le carte per potermene andare. O così aveva detto il giovane poliziotto che mi aveva fatto visita nel mio letto, mentre ero ricoverata. Diceva che sarebbe arrivato a momenti, ma alla fine anche lui aveva preso a sonnecchiare a due posti lontano da me.

Un uomo con un completo grigio si avvicinò alla reception. Emetteva un leggero odore di sigaretta, mischiato a qualcosa di dolciastro, che lo avvolgeva mentre si sporgeva a parlare con l'infermiera, facendo oscillare il cappotto scuro sbottonato. La donna dietro il bancone non capiva, o forse era troppo stanca anche lei a causa del turno notturno, ma l'uomo alzò gli occhi al cielo e senza dire nulla si guardò intorno, alla ricerca di qualcuno.

I suoi occhi scivolarono sull'ufficiale di polizia che era sgraziatamente crollato sulla poltroncina e mi fissarono. Tirò su leggermente i bordi delle labbra, per poi allungare la mano con il palmo verso su, rivelando un pesante anello all'indice. «Victoria, suppongo».

Lo squadrai per un po', con la testa che oscillava. Ero spaventata, ma non da lui: i pochi contatti umani che avevo avuto ancora non mi avevano fatto crollare, ancora non ero scoppiata a piangere dopo la notizia che mi era stata data. Sembrava quasi come se lo avessi già accettato dentro di me, e questo mi faceva pensare che ci fosse qualcosa che non andava con i miei sentimenti.

«Wladimir», sussurrai, riconoscendo il dritto naso che gli capeggiava in mezzo al viso: lo stesso di Alexander. Lui annuì, per poi tamburellare invano le dita sulla spalla del poliziotto.

«Sono il contatto di emergenza», spiegò, tornando a prestarmi attenzione. Gli fui grata di non aver fatto nomi, ma non avevo ancora le forze per tirarmi su o porgergli la mano per stringerla. Volevo solo che la notte non finisse più, che il buio mi ingollasse e che la mia memoria sparisse. «Vieni, hai bisogno di un letto».

«No, invece». Ancora oggi, a ripensare a quel momento, non so cosa mi prese. Sentivo che fosse sbagliato andare con lui, anche solo rivolgergli la parola, dopo tutto quello che i miei genitori avevano detto su di lui, dopo tutti gli sforzi che avevano fatto per tenermi lontana da lui.

«Cosa proponi?», disse lui senza scomporsi, tirando fuori da un taschino un accendino e un porta sigarette. Dopo averne estratto una lunga e nera, la incastrò tra le labbra e la accese, senza mai togliere gli occhi da me.

Un inserviente si avvicinò per informarlo che era vietato fumare in ospedale, ma lui gli lanciò un'occhiata che inchiodò il ragazzo sul posto, facendogli addirittura balbettare delle scuse. Ammetto che anche a me fece quell'effetto, nonostante fosse indirizzata ad un altro. Era questo quello che i miei genitori intendevano per pericolo? Se con un'occhiata poteva fare quell'effetto, figuriamoci a parole... o a fatti.

«Voglio tornare a casa». Mi sentivo una bambina mentre lo dicevo, ma davvero il mio unico desiderio era quello: così semplice, così scontato, eppure irrealizzabile.

Inspirò a lungo, fino quasi a consumare la sigaretta con un solo respiro, e la gettò a terra, senza premurarsi di spegnerla con la suola della scarpa. «Posso portarti alla tua nuova casa».

«No».

Alzò gli occhi sopra di me, dove un grande e bianco orologio rompeva la semplicità della parete. «L'aereo ci attende, non ho tutto il tempo che vorrei per convincerti a seguirmi».

«Buon viaggio, allora».

«Victoria, quale parte di "sono il tuo tutore legale" non ti è chiara?». Si tirò il collo della camicia, dimostrando indisponenza. I suoi occhi scuri mi incollarono alla poltroncina, facendomi sentire insignificante.

Non risposi, guardando da un'altra parte per non permettergli di avere potere su di me. Ora capivo cosa intendessero quando parlava della sua pericolosità, e non dubitavo che Cordelia fosse stata costretta a sposare lui. Anche la voglia di scappare di Alexander si faceva sempre più chiara ai miei occhi, e non volevo entrare nella gabbia che lui aveva lasciato libera.

Wladimir diede un calcio ai piedi del poliziotto, che erano a penzoloni per la posizione scomoda che aveva assunto. Lui sobbalzò, spalancando gli occhi e rilassandosi quando vide chi lo aveva svegliato. «Signor Bloodwood, buongiorno, signore».

L'uomo incrociò le braccia e fissò il poliziotto che prendeva coscienza della realtà intorno a lui. «Beh», tossì, «Victoria, come ti avevo anticipato sarebbe venuto il contatto di emergenza indicato dai tuoi genitori per la tua nuova sistemazione, finché non sarai maggiorenne».

«Lui non può essere il mio contatto di emergenza!», balzai in piedi per allontanarmi. Non volevo avere nulla a che fare con quell'uomo, men che meno condividere un anno in attesa della mia libertà legale. «È stato lui ad ucciderli!». Tutti in quella sala d'aspetto si girarono, ma nessuno si fece avanti per aiutarmi.

Wladimir sbuffò e il poliziotto di scusò con lui in maniera profusa, tanto da farmi sospettare che in precedenza si fosse beccato una delle sue occhiatacce. «Deve essere lo shock», continuava a ripetere, ma l'uomo non gli stava dando troppa attenzione, lanciando occhiate sempre più frequenti all'orologio sulla parete.

«Signor ufficiale, cosa succede se Victoria si rifiuta di venire con me?».

«Oh», la testa del ragazzo in uniforme anticipò le sue parole, scuotendosi, «non può. Per legge siete voi il suo custode».

«A meno che...?», tentai di imboccarlo io, nella speranza che continuasse la frase con qualcosa in mio favore.

«A meno che tu non mi faccia fare tardi: in quel caso non ci sarebbe nessuno a cui fare da tutore», sbuffò Wladimir, accendendosi un'altra sigaretta. Mi lanciò di nuovo quell'occhiata di fuoco, ma stavolta mi trovò preparata: non abbassai lo sguardo, ma lo sostenni finché lui, annoiato, non congedò il poliziotto. Il ragazzo guardò prima lui e poi me poco convinto, ma non disse nulla e semplicemente uscì dalla sala d'aspetto: non era più un suo problema.

«Su, Victoria, non fare i capricci, dobbiamo andare». Feci un passo indietro, scontrandomi con la poltroncina dietro di me e perdendo per un attimo l'equilibrio. Wladimir alzò gli occhi al cielo, prima di sbuffare. «Verrai con me, con le buone o con le cattive, ma preferirei non mi facessi sgualcire il completo».

Guardai dietro di lui, nella speranza di trovare qualcuno di robusto che potesse difendermi da lui o un'uscita secondaria da imboccare all'improvviso, ma erano tutti dormienti o infermi in attesa di essere ricevuti. Persino la donna all'accettazione non sembrava incline a seguire il nostro piccolo scontro, molleggiando la testa mentre sfogliava una rivista scandalistica.

«Victoria», ammonì, flettendo la voce come quando si rimprovera una bambina capricciosa. «Non farmi fare cose che mi farebbero saltare qualche bottone».

Accanto a me si aprì una porta che non avevo notato e ne uscì una donna delle pulizie, feci uno scatto prima ancora di pensarci per entrare, sfruttando le basse possibilità che avevo di coglierlo di sorpresa. La porta si sarebbe chiusa, e la donna si sarebbe rifiutata di digitare il codice per aprirla a un non addetto. Era un piano perfetto nella mia mente, ma non appena feci un passo in quella direzione Wladimir mi afferrò la manica del giacchetto e mi strattonò verso di lui.

«Ti sto solo portando dai tuoi parenti, non devo venderti gli organi al mercato nero», sbuffò prima di lasciarmi andare. «Sì, non mi guardare così. Pensavi volessi tenerti come soprammobile nella dependance? Il fratello di tua madre ti sta già aspettando».

«Ne-nella Capitale?».

«Sì», il suo tono si fece meno scontroso quando mostrai titubanza. «Vieni, o l'aereo perderà il permesso di decollare». Mi tirò leggermente per la manica quando impuntai i piedi.

«Cosa mi fa pensare che davvero mi porterai dai miei parenti?».

Alzò gli occhi al cielo. «Perché, tu hai voglia di continuare a passare del tempo insieme?». Infilò una mano nella giacca e mi ritrassi istintivamente, quando poi tirò fuori una pistola tentai proprio di allontanarmi da lui. «Tieni, santo cielo. Prendila e mettila dove non possono vederla, se ti fa stare più tranquilla».

Nel panico, lanciai uno sguardo all'ambiente intorno a noi: nessuno ci stava prestando attenzione, per cui allungai la mano tremante verso di lui. Era qualcosa di pericoloso, di inusuale e che mi faceva sentire a disagio – anzi, paradossalmente mi sentivo peggio con quell'arnese in mano che prima che mi mostrasse di essere armato, ma dovevo avere qualcosa per difendermi da lui.

«Ora, per favore, tieni il passo».

Con la mano che teneva la pistola infilata dentro la giacca, ad ogni passo sempre più pesante, lo seguii. Camminava svelto, ma aveva una postura molto elegante, con le schiena ben dritta e la testa alta. Non si girò mai a controllare se fossi ancora dietro di lui, neppure quando attraversammo l'ingresso dell'ospedale tappezzato di moquette, che rendeva silenziosi i miei passi. La pistola fece per scivolarmi per le mani troppo sudate, ma tentai di tenerla contro le costole.

Appena fuori, nel bel mezzo della piazzola di manovra attendeva una limousine con i vetri oscurati. Lui aprì la portiera e attese che entrassi, per poi fare lo stesso e sedersi di fronte a me. L'ambiente lì dentro era più grande di quanto pensassi, con bottigliette di acqua frizzante tra un sedile di pelle e l'altro.

Wladimir abbassò il finestrino, probabilmente infastidito dall'odore di nuovo che permeava nel piccolo spazio. «Ora, devo sapere cosa ti hanno raccontato precisamente, così da non doverlo ripetere».

Non risposi, più per principio che per orgoglio di confessare che non mi avevano detto nulla, e quel poco che avevano tentato di trasmettermi lo avevo rifiutato bollandolo come pazzia.

Lui non insistette, limitandosi solo a dire che in quel viaggio era il mio Caronte, non il mio Virgilio, per cui non gliene fregava nulla se fossi preparata o meno a ciò che mi attendeva. E io non chiesi.

I minuti passavano e io non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso. Davvero lui era il problema, la causa di tutto? Era stato lui a togliere la fidanzata a mio padre e a rendere i miei genitori dei fuggitivi? Oppure mi stavo solo facendo influenzare da quello che era successo, dando credito a quelle che erano bugie dette solo per farmi stare tranquilla. Ben presto Wladimir si stancò del mio sguardo su di lui e mi lanciò un'occhiataccia, che però non mi fece desistere. «Sì», disse, mentre si accendeva una sigaretta nera, «gli occhi saranno pure di Maximilian, ma il carattere è indubbiamente quello di Geltrude».

Mostrai i denti di riflesso. «Non osare nominarli».

Sospirò, spegnendo la sigaretta appena accesa. «Mi rendo conto che superare un trauma del genere e...».

«Non parlarmi di traumi», biascicai. «L'hai creata tu questa situazione».

Sbatté le palpebre e si mise una mano sul petto. «Io?».

Strinsi più forte la pistola sotto la giacca. Sentivo il sangue pulsare troppo velocemente nei polpastrelli che tenevano ben salda l'arma, in attesa di una qualche mossa minacciosa dell'uomo. Il cuore batteva forte ed una parte di me pensava che tutto quello fosse sbagliato, che provocarlo mi avrebbe portato sottoterra, ma un'altra rivendicava l'aria che respiravo e voleva onorare la ribellione dei miei genitori.

A Wladimir non sfuggì il mio movimento della mano, ma non si lasciò intimidire. «Sul serio pensi che se li avessi voluti morti, avrei atteso che ti facessero il mio nome? Mi sarei presentato come contatto di emergenza per farti da tata mentre tu pensi di impallinarmi?», si lasciò andare ad una profonda risata. «Sei cresciuta proprio tra i selvaggi». Quelle parole mi fecero vacillare... detestavo ammetterlo, ma le sue parole avevano senso.

La mano però non si allentò intorno alla pistola. Diamine, ma che stavo facendo? Non sapevo neppure come impugnarla correttamente, volevo sul serio sparargli in un punto non vitale? Con la fortuna che mi trovavo sarei riuscita a farla rimbalzare da qualche parte e colpirmi da sola.

«Tranquilla, quella pistola è finta», disse con tono leggero, guardando fuori dalla finestra.

Sentendomi una stupida la estrassi tremante dalla giacca per esaminarla. Era fredda e pesante, possibile che fossi così impreparata? Quando cominciai ad analizzarla mi resi conto di tutto: di quello che era successo, di quello che stavo pensando, di chi avevo di fronte, non so come ma qualcosa nella mia testa scattò.

Volevo piangere, urlare e dare addosso a quell'uomo, che era la causa di tutto. Ma non potevo mostrargli una debolezza simile o si sarebbe insinuato, o forse no? Quell'ignoranza sulla mia stessa famiglia pesava quasi più del lutto: come potevano avermi lasciato alla mercé di quello da cui fuggivano?

Lasciai che la pistola cadesse dalle mie mani ed atterrasse sul tappetino dell'auto, sentendomi più leggera. Mi ripromisi di piangere quando fossimo arrivati, ovunque mi stesse portando.

«Questa Capitale ha un nome?», tentai di distarmi, ma sentivo la mia voce troppo instabile per una domanda più lunga e articolata, che lo avrebbe lasciato parlare per un po' e distarmi.

«Un tempo lo aveva, ma ogni tanto ci piace cambiarla e si fa confusione tra una vecchia Capitale ed una nuova, se le si affibbiano nomi». Tirò fuori di nuovo il pacchetto delle sigarette e me ne offrì una, che declinai. «Fai bene, è proprio un brutto vizio», rise mentre se la metteva tra le labbra e cercava l'accendino.

«Dove si trova?».

«Non molto lontano da qui».

«Avevi detto che ci attendeva un aereo».

Fissò l'estremità della sigaretta mentre metteva una mano a coppa per non lasciare che la fiamma dell'accendino si spegnesse per via del finestrino che aveva appena tirato giù. «Dico un sacco di cose, Victoria, ma non significa che ne terrò fede».

«Allora perché dirle?».

«Hai mai sentito parlare di Machiavelli?».

«No».

«Diciamo solo, allora, che si tratta di una strategia che mi fa comodo per ottenere tutto quello che voglio». Si abbassò per prendere la pistola e, mentre la tirava su per mostrarmela, aprì il caricatore mostrando dei proiettili. Sorrise quando vide la mia espressione contrariata: era sempre stata vera. «Una di queste mi avrebbe fatto davvero male».

«Perché rischiare?». Mi stava confondendo, e sicuramente era una sua trovata per ottenere qualche informazione da me. «Avrei potuto spararti».

«Il rischio è ciò che rende vivo un Demone». Quell'ultima parola mi fece sussultare e distolsi lo sguardo.

Non avevo avuto modo di pensare a quello che mi aveva detto papà dopo aver saputo quello che gli era successo. Mi rifiutavo di credere che se aveva avuto ragione sulla pericolosità di restare a casa, l'aveva anche per quella storia. Continuavo a non sentirmi diversa dagli altri, non avevo nulla di strano. Che fossero tutti pazzi?

O forse io ero morta con i miei genitori e quello era tutto un grosso incubo, o l'inferno. Sì, inferno: dove mamma e papà non c'erano, la mia quotidianità veniva spezzata, i miei amici mancavano...

«Che ne sarà dei miei amici? Mi cercheranno».

«Diremo loro la verità: che il tuo tutore è venuto a prenderti e ti ha portato nella sua città per continuare gli studi lì».

«Sì, ma potrebbero...», tastai la mia tasca alla ricerca del cellulare.

«No, Victoria, non potrebbero chiamarti o mandarti un messaggio. Dove stiamo andando non c'è connessione, ed anche se ci fosse non ti sarebbe concesso usarla».

Se c'erano ancora pezzi di me che potevano essere asportati senza costringermi a piangere seduta stante, quella frase se li portò via tutti. Persino quello spiraglio della mia vita veniva murato. Pensai a Sam, a come fosse stata così vicina a me, a come non vedessi l'ora di incontrarla a scuola per poter sapere come andassero le cose con James. Pensai alle occhiate omicide che lanciavo a Tyler, che invece rideva e tentava di pungolarmi ancora... Tutto svanito, tutto.

Morsi ferocemente l'interno della guancia mentre sentivo le lacrime scendere. Non ora, dai. Arricciai le dita dei piedi per tenermi in tensione e non scoppiare a piangere: aveva sempre funzionato e funzionò anche allora. Una piccola e stupida cosa che mi faceva sentire ancora me stessa.

Qualcuno lassù mi concesse una piccola dose di fortuna, perché Wladimir non mi stava guardando per concentrarsi sull'ambiente fuori dalla limousine. «Siamo arrivati». Senza attendere una mia risposta aprì la portiera e scese, lasciandomi sola in quel piccolo ambiente buio, dove concessi ad una lacrima di scendere.

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