𝟮𝟵. 𝗖𝗜𝗡𝗤𝗨𝗘 𝗚𝗘𝗡𝗡𝗔𝗜𝗢


Urla.
Si sentivano delle urla disperate.

Qualcuno stava urlando, forse una donna, la voce straziata echeggiava nel capannone buio e polveroso. Sollevai lo sguardo e incontrai covoni di fieno disposti sui soppalchi, il rosso della luce che sbatteva contro le pareti di legno creava ombre inquietanti, facendomi venire la tachicardia.

Altre urla.

Un suono simile allo sminuzzare la carne, come se qualcuno stesse tagliando qualcosa di vivo. Poi, lo stridio di un animale, un grido acuto e penetrante che mi fece rabbrividire.

Sudavo. I miei polsi erano incatenati, le caviglie dolenti per le catene strette. Sentivo l'odore del sangue, un odore ferroso e pungente.
Sì, era sangue.

Sentivo anche il lezzo di lacrime, sudore e sangue mestruale. Chiusi gli occhi, il conato di vomito mi salì in gola. Il fetore era insopportabile.

Le urla continuavano, un lamento incessante che sembrava provenire da ogni angolo del capannone. Il pavimento sottostante era freddo, e potevo sentire il rumore delle catene che mi trascinavo dietro nel tentativo di muovermi.

Un'ombra si mosse davanti a me, una figura indistinta che avvicinava lentamente. Il cuore mi batteva forte nel petto, ogni battito un colpo nelle orecchie.
Si fermò a pochi passi da me, e potei scorgere il bagliore di un coltello nella sua mano.

«Chi sei?» chiesi, la mia voce tremante e debole. Non ci fu risposta, solo il suono del respiro pesante. Il coltello brillava sotto la luce rossa, grondante sangue dalla lama.

Il terrore mi paralizzò, ma dovevo fare qualcosa.​
Con uno sforzo disperato, cercai di liberarmi dalle catene, ma erano troppo strette. La figura si avvicinò ancora di più, fino a sentire il suo respiro caldo battermi sul viso.

Chiusi gli occhi, sperando che tutto questo fosse solo un incubo. Ma era reale, fin troppo reale.
Il dolore ai polsi, alle caviglie, l'odore del sangue, del sudore, le urla...

Aveva un cappuccio sulla testa, il volto ombrato dal tessuto pesante del mantello. Raggelai, il sangue fluiva al cuore in una incessante lotta per tentare di fuggire via.

«È il tuo turno».

Prima che potessi riflettere, tirò le catene che mi legavano i polsi, strattonandomi in avanti. Mi trascinò nella zona in cui la luce rossa divenne sempre più accecante. Ogni passo era un tormento, il pavimento ruvido graffiava la pelle nuda dei piedi e delle gambe.
La luce mi avvolse, penetrando attraverso le palpebre chiuse, rendendo impossibile sfuggire al suo bagliore.

Il suono delle urla si fece più forte, un coro di disperazione che mi riempiva le orecchie. Percepivo il respiro affannoso del carceriere alle mie spalle, il grip sulle catene fermo e inesorabile.
Ogni fibra del mio essere urlava di resistere, di combattere, ma le catene erano troppo strette, il dolore troppo intenso.

Mi trascinò ancora, dove la luce pulsava in un'intensità tale da sembrare viva, quasi potesse scottare la pelle al solo contatto.

Mi costrinse a piegarmi, con le ginocchia che si impiantarono sul pavimento di pietra, duro e spietato.
Davanti a me, l'altare si ergeva maestoso e terribile. Il sangue fresco scorreva giù dai suoi bordi, gocciolando in pozze scure che si espandevano sulla pietra come macchie d'inchiostro.

Le carcasse degli animali sacrificati giacevano disposte in un ordine macabro, emanando un odore nauseante che si mescolava nell'aria. La puzza di putrefazione e morte che si insinuava nelle narici, attaccandosi alla gola.

Le figure incappucciate, radunate in cerchio, immobili e silenziose come statue di pietra, conferivano una presenza tutt'altro che inerte.

Era opprimente.

Ogni respiro, ogni minimo movimento poteva scatenare un evento di proporzioni inimmaginabili.
Sentivo i loro occhi su di me, pesanti e scrutatori, in attesa del momento giusto.

Il carceriere mi spinse in avanti, imponendomi di prostrarmi ai piedi dell'altare. Sentii il freddo del pavimento attraverso i vestiti strappati e il sangue colare dalle ginocchia.

Il cuore mi batteva così forte che pensavo potesse esplodere. Uno degli incappucciati fece un passo avanti, muovendosi verso di me con lentezza, riecheggiando sinistramente. Fece scivolare il cappuccio, rivelando il suo volto pallido e inespressivo.
Gli occhi, due pozze gelide, erano privi di emozioni umane.

«È il momento» disse con una voce che proveniva dall'altro mondo. «Il sacrificio sta per essere compiuto».

«Sacrificio?» ripetei, in un sussurro strozzato.​

Venni spintonata bruscamente. Non essendo riuscita a ripararmi il viso dai polsi incatenati, avvertii il gelido metallo conficcarsi nella carne e il naso colpire il suolo. Un grugnito soffocato mi sfuggì dalle labbra screpolate, riprendendo fiato.

Il dolore era lancinante, un'esplosione di agonia che mi fece vedere stelle. Il sangue iniziò a colarmi dal naso, un filo caldo che si mescolava con il sudore e le lacrime, tingendo il pavimento.

Lo stesso sapore metallico invase la mia bocca e ogni respiro divenne una lotta contro il dolore.
Le figure incappucciate formarono un cerchio ristretto intorno a me, i loro passi un coro mutato.

Avvertii il peso dei loro sguardi, giudicanti e impassibili, come se fossi già condannata.
Uno di loro si abbassò, agguantandomi per i capelli e tirandomi con violenza verso l'alto. Mi spinse a rivolgere lo sguardo all'altare, dal quale il sangue sgorgava giù copioso come un torrente cupo.

«Il sacrificio» ripeté freddo e distante. «Per il nostro Signore».

Sull'altare troneggiava la statua di Bafometto, nume pagano idolatrato da fedeli perversi dall'occultismo, dediti ad associarlo persino al diavolo.
La statua di pietra, un ibrido tra uomo e bestia, rappresentava un simbolo di dualismo che sfuggiva a ogni logica e moralità.

La pelle lapidea era stata elaborata con tale maestria da far sembrare che ogni muscolo e venatura pulsassero di vita propria, come se l'artista avesse cercato di infondere all'idolo una ventata di vita soprannaturale. Le ali di pipistrello si aprivano per abbracciare l'oscurità circostante, mentre le zampe di capra, massicce e possenti, sorreggevano il suo stesso peso con una forza tale da sfidare la gravità.

Nel guardarlo, un brivido corse giù per la spina dorsale. A sua volta, pareva che la statua mi spiasse, gli occhi di roccia puntati nei miei, da cui traspariva un'immagine al di là della carne.

Al centro del petto era stato inciso con una precisione chirurgica un pentacolo, il cui simbolismo era potente e ambiguo, in grado di evocare associazioni alla magia e all'esoterismo. Le mani, una puntata verso l'alto e l'altra verso il basso, rappresentavano il principio ermetico di "come sopra, così sotto", ricordando l'unione degli opposti e il segreto dell'universo. Al di sotto, un pentagono intagliato nel legno dell'altare completava l'immagine di un tempio consacrato all'arte oscura.

Rilasciò la stretta sui miei capelli e il capo balzò in avanti come una molla. Sentii un acuto dolore al collo, ma non avevo modo di rimuginarci.

Leggermente più in là dell'altare, nel momento in cui le figure ammantate si dispersero altrove, i miei occhi si soffermarono su una zona poco illuminata del posto.
Le fiamme delle candele guizzavano, gettando sinistre sfumature sui muri di pietra, creando un effetto cromatico che richiamava alla memoria il sacrificio e le sue vittime.

Una delle vittime, gettata tra le carcasse, aveva lunghi capelli biondi e ondulati, il corpo innaturalmente ricomposto, ogni filo di coscienza strappato a forza.
Il cuore mi pulsò nel petto, un sentimento di angoscia crescente che mi stringeva. Uno dei boia la agguantò alle spalle e la tirò su di peso con una rapidità inaudita.
Non appena mi accorsi di chi fosse, i miei occhi si dilatarono e le parole di un appello disperato sgorgarono spontanee.

«Heather!» urlai, la gola irritata e inaridita.
La trascinarono sull'altare.

Le catene sferragliarono, le mie urla esplosero nel momento in cui la legarono alla pietra insanguinata.
Il suono metallico echeggiò nell'aria, confondendosi al mio grido più disperato. Il sangue gocciolava dalle ferite esposte, insozzando le grigie macerie, e il cuore mi si sgretolò in mille pezzi.

«Se la toccate, giuro che non avrete pace nemmeno dopo la morte!»

Uno di loro mi schiaffeggiò; la scottatura sulla guancia pulsò, gonfiandosi.

«Le nostre azioni saranno giudicate soltanto dal nostro Signore».

Di colpo, mi sentii trainare per le catene, gettata ai piedi dell'altare alla stregua di un sacco sudicio e melmoso. Mi guardai intorno, constatando che tutti gli altri non si erano mossi di un millimetro. Colta da una strana sensazione, tentai di alzarmi a fatica.

Accovacciata ai margini dell'altare, scivolai sulle dita dei piedi.

«Heather. Svegliati». Le mie parole sommesse la supplicavano di riaprire gli occhi.

Batté le ciglia, le labbra dischiuse che farfugliavano vagamente.

Qualcuno mi catturò per la spalla, gettandomi a terra. Lui estrasse dal mantello una siringa con uno strano fluido, iniettandoglielo nel collo.

«Che le state facendo?!»

Un calcio mi colpì all'addome, provocandomi un forte dolore che mi percorse tutto il corpo. Crollai su me stessa, nel disperato tentativo di riprendere fiato.
All'improvviso, Heather si volse di lato e vomitò. Tra me e i carnefici intercorse un attimo di omertà, rotto unicamente dal suono sibilante del rigurgito.

Guardai Heather con una crescente inquietudine.

Uno di loro si avvicinò, sfoggiando un ghigno calcolatore e algido. «Questa è tutta colpa tua, capisci?» sibilò velenoso.

Deglutendo, si aggrappò alla mia nuca, costringendomi a portare la testa verso il basso. Nonostante la mia riluttanza, mi obbligò a spostarmi. Strisciai sulle ginocchia indolenzite per raggiungere la chiazza del rigurgito.

«Adesso, lo mangi!»

Sbarrai gli occhi, il cuore in gola. I miei palmi si infransero nella chiazza, il gelo e il ribrezzo mi assalirono.

«No!»

«Vuoi essere la prima?»

L'alito pesante di sigarette mi costrinse a trattenere il fiato. Interpretò il mio silenzio come un segno di cedimento. «Brava, proprio così».

Strinse forte i miei capelli, spingendomi a precipitare di faccia nella chiazza del vomito.

«Le brave cagne devono nutrirsi», affermò con un ghigno tagliente, scatenando una solenne risata dei presenti.

Il fetido puzzo mi arrivò allo stomaco e strinsi i denti per sopprimere ogni impulso di rappresaglia. Sebbene i partecipanti ridessero, volevo che tutto si fermasse.
Taluni si scambiavano un'occhiata nervosa, altri si coprivano il naso con la mano per sfuggire all'odore nauseabondo.

Gli spettatori silenziosi, malati nell'anima, soccombevano ai loro stessi peccati occulti. Ombre erranti in un teatro di menzogne, condannati a recitare in un eterno dramma della colpa.

Il suono di risate fragorose echeggiò nelle mie orecchie, aggravando la mia avvilente umiliazione.

Avevo ingoiato.
Avevo subito.

Raddrizzai il busto e, in un istante, venni strattonata a forza, le braccia serrate e le gambe all'aria. Il mio grido si dissolse nel nulla.

Due figure si manifestarono, le mani simili a tenaglie bloccarono le mie braccia e una terza imprigionò le mie gambe che scalciarono nel vuoto, bloccandomi a una sedia. Ma tutto risultò vano.

Il leader, il cui viso si rivelò in un lampo di lucidità, indossava un ghigno beffardo, pressoché divertito per la mia sorte.

I suoi occhi neri e struggenti, contornati da rughe maligne, rilucevano di una crudeltà senza età. Il naso adunco e l'odore aspro di sigaretta che proveniva dalle sue dita giallognole erano dettagli che si sarebbero impressi a fuoco nella mia memoria.

Particolari che avrei custodito, giurando che gli avrei inflitto un destino analogo al mio.

D'improvviso, mi rovesciò la testa all'indietro, afferrandomi il collo in una morsa ferrea. La fredda lama dell'imbuto mi lambì le labbra per poi scivolare giù per la gola, suscitando in me un'ondata di panico.
L'aria mi mancò, ogni sforzo di respirare fu inutile. Nella stanza si udivano suoni ovattati dei miei gorgoglii matti e disperati, nella lotta vana per sottrarmi a una morsa mortale.

Il leader, il cui respiro greve e impregnato di tabacco fu come una botta in pieno cuore, si piegò su di me.

«Questo è solo l'inizio» sussurrò con una nota minacciosa.

Le parole mi gelarono il sangue mentre il terrore si annidava in ogni fibra del mio essere. Un serpente impetuoso si arrotolava attorno alla mia anima.
Non appena l'imbuto affondò nella mia gola, sentii che iniziava a scorrere un liquido viscoso. Il gusto acido e pungente mi provocò dei conati, ma non potei far altro che mandare giù il boccone. Ciascuna goccia densa e abbondante era un'agonia senza fine. La mia mente si offuscava sempre di più.

Buttai un'occhiata sul pavimento: il condotto si stava intasando dell'orrendo liquame. Strinsi gli occhi, imponendomi di non rigurgitare per non rischiare di morire asfissiata.

Scavai le unghie nei braccetti di ferro della sedia, percependo la pressione che cedeva. Il dolore acuto mi portò a percepire il sangue che zampillava copioso, caldo e viscoso, man mano che le dita affondavano nel materiale.

Arricciai le dita dei piedi, alla ricerca di un sostegno, di una stabilità che mi eludeva. La gola si muoveva in spasmi involontari, inghiottendo ripetutamente nel tentativo disperato di sopravvivere.

Le mie spalle, prima solide, adesso parevano sciogliersi, come preda di un fiume invisibile che le stava erodendo pian piano. Un liquido caldo e preoccupante iniziò a scorrermi giù per le cosce, depositando una scia umida che sfiorava le piante dei piedi.

«Si è pisciata sotto.» Avevo sentito dire da qualcuno, che aveva interrotto l'infiltrazione.

Il tubo venne estratto dalla gola graffiandone le pareti. Gli spasmi percorsero il mio corpo, la bocca e il mento, sozzi del liquame e della mia saliva, permettendomi di riprendere fiato. Non volevano uccidermi, intendevano solo verificare quanto sarei riuscita a sopportare.

Tossii, la testa china; l'orrendo miscuglio mi schizzò il volto, e solo volgendomi dall'altra parte riuscii a non mandarlo negli occhi. Le gambe e le braccia tremavano così intensamente che chi mi aveva afferrato abbandonò la presa, sciogliendomi definitivamente.

Ero paralizzata, impossibilitata a muovermi o a pronunciare una singola parola. L'atto era stato così efferato che avrei voluto collassare a morte.

Era la crudeltà degli umani a terrorizzarmi.
Erano loro a instillarmi la paura.

Ancora un urlo lacerò lo spazio.

Un membro della setta, silente e minaccioso, si era avvicinato inosservato. La sua presenza appariva come una macchia scura nel tessuto della mia realtà. Aveva afferrato le cosce di Heather, strattonandola giù e allargarle.

Due di loro, sulla falsariga di quanto avevano fatto in precedenza, agirono con forza sulle braccia di Heather, inchiodandole senza indugio. Lei, in pieno panico, lanciò urla agonizzanti a singhiozzi disperati, di fronte ai quali io restai immobile, assistendo con orrore all'atroce devastazione di quella scena.

La puzza di sangue mestruale si respirava, l'interno delle cosce di Heather si macchiava del suo stesso sangue.

Si dimenò disperata, il suo piccolo e fragile corpo si contorceva in una danza d'angoscia.
I gemiti, puri e infantili, si levavano nell'aria, sciogliendosi nell'eco remota in una valle dimenticata.
Piano piano, sollevò la testa per guardarmi, i suoi occhi azzurri, riflessi del cielo al tramonto, erano dilatati dal terrore e bagnati dalla supplica. Occhi che mi risultavano così familiari, che avevo imparato a osservarli ogni volta che mi specchiavo, riflessi di un'anima che conoscevo benissimo.

Le mani immobilizzate, le dita formicolanti che provavano a protendersi verso di me, tremavano come frasche in una tempesta, alla ricerca disperata di un salvavita. Urlò con l'ultimo briciolo di forza che le restava, supplicandomi di tirarla in salvo prima che fosse troppo tardi, prima che i ricordi si trasformassero in spine durevoli, radicate nel profondo.

Per la prima volta, ero avvolta dall'impotenza.

Gridai, contorcendomi sulla sedia, le catene strette ai polsi che mi segnavano la pelle. Ma il dolore fisico non era nulla in confronto all'angoscia che straziava la mia anima.



Che cosa sei, Padre?
Un giusto che si maschera da malvagio, o un malvagio che si traveste da giusto?
Mi sono affidata all'eternità, come un cieco che insegue la luce.
Ho ascoltato le tue parole e le ho fatte mie: scudi e principi, come un guerriero che si arma per la battaglia. Ho cercato di essere equa, quando la giustizia non bastava, come un giudice che districa la verità in un mare di menzogne.
Ho sopportato, mi sono illusa, e tu hai goduto del tuo trono, come un re che si compiace del suo dominio.
Mi hai proiettata in lei. Come un burattinaio che gioisce nel manipolare i suoi pupazzi.
Non sarò più un tuo giocattolo, né uno scudo, né un soldato.
Sarò padrona del mio destino, costruendo un futuro dove le ombre danzeranno a ogni mio passo.


Il palmo massiccio le afferrò la gola, le labbra si incurvarono, tenendola ancorata all'altare.

Heather tentò di voltarsi, ma un pugno sulla nuca glielo impedì. Sussultai quando l'uomo gridò ai suoi collaboratori di mantenerla inchiodata. Egli non tenne conto delle mie minacce, né dei mugolii incontrollati di lei, strappandole la stoffa delle mutandine. Il rumore forte della lacerazione causò un'altra vampata di orrore sul mio corpo.

Con una sola spinta, sprofondò in lei.

Le mie lacrime si mischiarono alle sue grida smorzate, ma nei suoi occhi intensi non c'era altro se non la rassegnazione.

Affondò una... e poi altre volte ancora prima di tirarsi fuori e sporcarla del suo seme. L'aguzzino si allontanò rapidamente, prendendo in mano una coppa. 
I suoi rantoli diventarono le note più aspre e roche dell'Inferno.

Abbassai gli occhi, stringendo le dita, le sole ancora libere e integre. La disperazione non colpì gli astanti, perché senza indugio mi afferrarono i capelli sudici, costringendomi a rovesciare ancora la testa all'indietro.

«Guardala» mi comandò con voce imperiosa, i suoi occhi neri di furia puntati nei miei.

Stringendo le labbra, sentii le narici dilatarsi, mentre mani insensibili mi costringevano a tenere gli occhi spalancati di fronte all'orrore. «Ha fatto in modo che una di voi due guarisse» disse con tono sprezzante, mentre i miei occhi lucidi seguivano il movimento di un terzo che gli porgeva il calice. Il respiro mi usciva forte dal naso, e tenevo la bocca serrata, decisa a non lasciare che mi costringessero a bere quel liquido.

Mi immobilizzarono il mento con una morsa decisa. Con gesti misurati, portarono il margine freddo del calice alle mie labbra. Versò il liquido con urgenza, costringendomi a bere.

Mentre il contenuto fluiva, emisi dei mugolii soffocati; il liquido ferroso e caldo scivolava giù, irritandomi leggermente la gola.

Più inghiottivo, più l'aria sembrava uscire dai miei polmoni.

Bevvi fino all'ultima goccia, ogni singola stilla scivolava come piombo fuso.
Bevvi fino a sentire l'impulso di urlare.
Bevvi fino ad aumentare il mio odio.

L'ultima cosa che vidi fu l'immagine di Heather, la schiena chiazzata, le gambe chiuse e insanguinate e l'aria di chi aveva rinunciato a combattere.

Giaceva lì, indifesa, un involucro vuoto privo di qualsiasi segno di vitalità, come se la sua anima avesse già intrapreso il viaggio verso l'ignoto, abbandonando soltanto il ricordo di quello che era stata.

Una vittima.



𝐓𝐄𝐑𝐙𝐎 𝐏𝐑𝐈𝐍𝐂𝐈𝐏𝐈𝐎

𝑆𝑒 𝑙𝑎 𝑀𝑜𝑟𝑡𝑒 𝑜𝑠𝑎 𝑠𝑓𝑖𝑑𝑎𝑟𝑒 𝑙'𝑎𝑢𝑡𝑜𝑟𝑖𝑡𝑎̀ 𝑑𝑒𝑙 𝑃𝑎𝑑𝑟𝑒, 𝑠𝑒 𝑜𝑠𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑖𝑒𝑟𝑒 𝑢𝑛 𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑏𝑒𝑙𝑙𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑒 𝑡𝑟𝑎𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑠𝑖 𝑡𝑟𝑜𝑣𝑒𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒 𝑎 𝑓𝑟𝑜𝑛𝑡𝑒𝑔𝑔𝑖𝑎𝑟𝑒 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑝𝑢𝑛𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑐𝑎𝑠𝑡𝑖𝑔𝑜.
𝐸, 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑓𝑖𝑛𝑒, 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑢𝑚𝑎𝑡𝑎 𝑑𝑎𝑙 𝑝𝑒𝑠𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑠𝑢𝑒 𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖, 𝑣𝑒𝑟𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒 𝑟𝑖𝑑𝑜𝑡𝑡𝑎 𝑖𝑛 𝑐𝑒𝑛𝑒𝑟𝑒.

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