ANTEPRIMA: Capitolo I
Legnano, 29 maggio 1176
Lo squillo delle trombe risuonò nella piana. L'esercito imperiale, privato della sua nera aquila, era in rotta.
Richard von Thann sentì solo le urla di angoscia, i calpestii concitati, il nitrire dei cavalli che fuggivano in preda al terrore. Siegfried von Lebenau lo afferrò per la cotta d'arme con la mano guantata e lo strattonò, gridando parole che furono inghiottite dal clamore. Richard non ebbe tempo di pensare; sapeva solo che doveva correre, fuggire al più presto per evitare che i milanesi lo catturassero o lo uccidessero.
Anche nelle retrovie gli uomini abbandonavano i loro posti, lasciando ai nemici armi, provviste, bagagli, perfino i feriti. Per terra giacevano gli scudi sfondati dei tedeschi, i cui colori e simboli erano ormai irriconoscibili. Le rosse bandiere di sangue venivano calpestate.
Scorse un cavallo sbandato, già bardato e sellato, che si aggirava all'ombra degli alberi. Non si domandò nemmeno di chi fosse: gli saltò in groppa e lo spronò verso una distesa d'erba alta, facendo cenno al compagno di seguirlo.
"Più veloce! Li abbiamo alle calcagna!" gli urlò Siegfried.
Richard si guardò alle spalle, la fessura dell'elmo gli restituiva frammenti di scene che si confondevano e si sovrapponevano. Vide alcuni cavalieri fuggire con gli scudi alzati, incalzati dai milanesi che gridavano insulti e minacce nella loro lingua. Uno cadde a faccia in giù nell'erba, colpito alla schiena da una picca. I suoi compagni si gettarono nel fiume con tutte le armi e scomparvero inghiottiti dai flutti, annaspando e sputacchiando. Altri, come bestie braccate, si sparpagliarono a cercare riparo nella foresta.
Siegfried lo chiamò, agitando la mano; dietro di loro i lombardi continuavano a urlare. Richard diede di nuovo di sprone, piegandosi sul collo del cavallo contro il vento che lo spingeva all'indietro.
Quando fu certo che lo scalpiccio degli zoccoli alle sue spalle si fosse affievolito, strinse le ginocchia, scavalcò un fosso e si lanciò a rotta di collo attraverso un campo di spighe dorate.
"Siegfried?"
La sua voce rimbombò nel silenzio. Si voltò di scatto: non c'era nessuno, né amici, né nemici. Era da solo.
Richard tirò bruscamente a sé le redini. Folle di terrore, il cavallo sgroppò e si impennò sulle zampe posteriori, calciando l'aria. Il ragazzo si lasciò scivolare giù dall'arcione col cuore che gli martellava nel petto, e non poté far altro che rimanere a guardare impotente mentre il cavallo galoppava via, tagliando i campi tinti dalla luce dorata del tardo pomeriggio.
"Siegfried!" gridò di nuovo, col poco fiato che gli restava. Gli rispose il gracchiare roco di un uccello.
Richard, le spalle gravate dal peso dell'usbergo e il volto grondante di sudore, si sfilò l'elmo e si guardò intorno. Era circondato da cespugli di rovi ed erbacce. Un refolo di vento scosse le fronde in una quiete che, dopo la battaglia, appariva presagio di morte. Lo scenario era mutato nei particolari ma simile a tanti altri che aveva già incontrato in quelle zone: il verde della pianura era interrotto qua e là da macchie di castagni e campi coltivati, intorno ai quali sorgevano piccoli agglomerati di casupole. Non avrebbe saputo dire dove si trovasse, né se fosse già passato da lì.
Ma Siegfried, che fine aveva fatto? Perché non lo aveva seguito? E suo padre, dov'era? Che ne era stato del loro esercito? Incalzato da quei pensieri, si rimise in cammino cercando di ripercorrere a ritroso il tragitto fatto all'andata, mentre il chiarore già scemava all'orizzonte.
Non avrebbe saputo dire da quanto tempo camminasse, quando intravide il campo sovrastato dalla cappa sanguigna del crepuscolo. Ovunque, facce sfigurate dall'agonia, le membra mutilate, carcasse di animali, elmi sfondati, scudi spezzati, il fetore nauseabondo della morte. Affondò i piedi in un pantano d'erba e fango, mentre i lamenti riecheggiavano nella piana desolata. Qualcuno stava già saccheggiando i cadaveri e le loro ombre si allungavano in forme contorte, il ferro delle armi era scuro come piombo.
Sentì gocce di sudore freddo imperlargli la fronte, ma cercò di dominarsi: passare da lì era l'unico modo per ottenere risposta alle sue domande. Scrutando i volti dei morti, i suoi occhi si piantarono su un uomo coperto da uno scudo rosso e blu. La banda bianca al centro era attraversata da cinque abeti, schizzati di sangue e trafitti da molte frecce.
Con un balzo, il ragazzo scavalcò un paio di cadaveri di lombardi e si chinò sul corpo: una lancia gli trapassava il petto. Rabbrividì al pensiero di scorgere sotto quell'elmo il volto di suo padre; glielo sfilò con mani incerte e si ritrovò il sergente Hildebrand che lo fissava con una sorta di vitreo stupore. Si ritrasse di scatto: dov'erano finiti gli altri? Che doveva fare? E se...
"Juncherre..."[1] gorgogliò una voce vagamente familiare.
Richard si voltò e vide un altro degli armigeri di suo padre, riverso al suolo con una profonda ferita all'addome. Dal sangue che impregnava l'erba e le sue vesti, realizzò subito di trovarsi di fronte a un moribondo. Deglutì, si turò il naso e gli si avvicinò. "Dov'è mio padre?"
L'uomo sollevò una mano e indicò un punto indefinito tra gli alberi. "È andato... laggiù..."
"Laggiù? Perché?" lo incalzò il ragazzo.
"L'hanno inseguito... c'era anche..." furono le uniche parole che il soldato riuscì ad articolare, poi piegò la testa di lato e rimase immobile. Richard sentì crescere dentro di sé il disagio e il senso d'impotenza: ormai il cielo era una distesa di cobalto screziato, e lui era l'unico vivo ad aggirarsi tra cadaveri insepolti, con nugoli di corvi che volteggiavano sul suo capo. Presto avrebbero banchettato con le loro carni, così come gli uomini lo avevano fatto coi loro averi. Si guardò per un'ultima volta alle spalle e si allontanò a grandi falcate.
Il punto indicato dall'uomo si perdeva nell'oscurità. Nessun indizio, nessun segnale che gli suggerisse la direzione da prendere, ma Richard non osava immaginare che alternativa lo aspettasse se non l'avesse trovata. Un tizio con la croce rossa di San Giorgio sul petto lo afferrò per una caviglia e fece per piantargli la daga nel ginocchio. Il ragazzo si divincolò con un calcio e corse via.
Le radici sporgenti sembravano tendersi come per fargli lo sgambetto mentre arrancava e incespicava, i rami bassi gli frustavano il viso e s'impigliavano tra i suoi capelli. I pipistrelli svolazzavano nervosi; i gufi emettevano cupi richiami mentre i loro occhi luminosi lo fissavano nel buio.
A ogni passo, sentiva la tensione accorciargli il respiro, come se la selva volesse chiudersi intorno a lui. Andava avanti orientandosi coi vaghi riflessi della luna, spinto dalla sola consapevolezza che se si fosse fermato sarebbe morto.
Aveva ormai perso il senso del tempo quando intravide una macchia di luce ignea tra gli alberi. Due o tre ombre si muovevano nel suo alone palpitante. Si accostò al tronco nodoso di una quercia, la destra sull'impugnatura della spada, e aguzzò la vista: doveva star attento a non farsi scoprire nel caso fossero stati lombardi, ma non avrebbe potuto stabilirlo se prima non si fosse avvicinato abbastanza.
C'erano due soldati, vestiti di semplici gambeson: uno porgeva un otre a una figura china; l'altro teneva alla briglia un cavallo da guerra. Un terzo, più in penombra, portava l'usbergo e una semplice cintura di stoffa bianca da scudiero sulla cotta d'arme gialla. Era lui che reggeva la torcia. Non poteva vederlo in faccia, ma riconobbe i riflessi dorati dei capelli, che gli incorniciavano il viso come una chioma leonina. Si sporse con cautela per guardarlo meglio. Un rametto scricchiolò sotto i suoi piedi e il ragazzo biondo si voltò nella sua direzione, confermando le sue supposizioni: era lui.
Richard rilasciò il fiato, uscì allo scoperto e si palesò. "Dov'è mio padre?"
"Eccoti, finalmente!" esclamò Siegfried, andandogli incontro. L'espressione preoccupata che aveva in viso si distese in un sorriso appena accennato. "Ti stavamo cercando..."
"Cos'è successo?" Senza perdersi in convenevoli, lo sorpassò e irruppe al centro della radura. "Mio padre, dov'è mio padre?" Prima ancora che qualcuno potesse rispondergli, i suoi occhi ricaddero sul ferito: il conte Eberhard von Thann era seduto su un sasso, le dita che sfioravano l'impennaggio di una freccia che gli trapassava la spalla. Era più pallido del solito, coi capelli scuri appiccicati alla fronte e una vistosa chiazza di sangue che imporporava il blu della cotta d'arme. Quando lo vide, drizzò la schiena e gli rivolse un'occhiata accigliata.
"Padre!"
"Figliolo, si può sapere che fine avevi fatto?" fu la tagliente replica.
Richard ricambiò lo sguardo -- avrebbe voluto rivolgergli la stessa domanda -- ma l'uomo scrollò la testa e sollevò una mano per prevenirlo. "Ne parliamo più tardi, è pericoloso stare qui. Adesso aiutatemi a rimontare a cavallo, dobbiamo tornare al campo." Tentò di rialzarsi, ma ricadde all'indietro barcollando. "Forza, che state aspettando?" abbaiò ai due uomini che gli stavano tendendo il braccio per sostenerlo.
Raggiunsero in fretta l'accampamento imperiale e adagiarono il conte nella sua tenda, affidandolo alle cure dei medici da campo. Fu lui stesso a congedare Richard e Siegfried, quasi infastidito dalla loro presenza, dopo aver rivolto al figlio un'interminabile serie di domande.
"Nemmeno durante le udienze coi ministeriali si comporta così," commentò il ragazzo.
"Si è beccato un colpo di balestra sulla spalla," spiegò Siegfried, con un'ultima occhiata verso il padiglione. "I genovesi ci hanno inseguiti fin nella foresta e lui ne ha fatti fuori tre, uno dopo l'altro. Si è accorto che era ferito solo quando se ne sono andati, ma era infuriato per la sconfitta e continuava a borbottare perché pensava che ti fosse successo qualcosa. Era preoccupato."
Richard annuì; non riusciva ancora a spiegarsi come avessero fatto a perdersi di vista. "Perché non mi hai seguito?"
"Non hai sentito mentre ti chiamavo? Avevo tre lombardi alle costole, stavo per voltarmi e affrontarli quando ho visto il vessillo di tuo padre." La sua voce vibrò di una nota di fierezza, ma la frase scolorì in fretta nella delusione. "Avrei voluto tornare indietro a cercarti, ma lui mi ha urlato di raggiungerlo."
"Tu, affrontarli da solo?" Richard simulò una risata, ma anch'essa suonò scialba, forzata. "Non prendermi in giro."
"Dici così perché non mi credi capace o perché eri preoccupato per me?"
Richard tacque, mentre uomini feriti e spaventati continuavano a giungere in piccoli gruppi, recando notizie funeste ai sopravvissuti radunati intorno ai fuochi. Anche Siegfried era stranamente silenzioso. Si diceva che l'imperatore fosse morto, fatto a pezzi dalla furia sanguinaria dei lombardi; lamenti e grida di sconforto si sollevavano dai padiglioni. Richard li squadrò severo, puntando le mani contro i fianchi. "Cosa pensano di risolvere, se continuano a piangersi addosso?"
Un gruppetto si stava avvicinando, chiacchierando fitto. Riconobbero la figura di Otto von Wittelsbach, conte palatino di Baviera, che camminava a grandi falcate affiancato da due prelati. Era un uomo robusto, con folti riccioli neri spruzzati di bianco e il naso schiacciato. "Lodigiani voltagabbana!" lo udirono brontolare, il volto paonazzo di rabbia. "L'imperatore avrebbe dovuto spargere sale sulle rovine di quella città maledetta, invece di aiutarli a ricostruirla! Si sono approfittati del nostro aiuto e poi si sono rivoltati contro di noi! Ma io scommetto che dietro tutto questo c'è il papa... se l'imperatore non avesse fermato la mia mano, io gli avrei staccato quella testa dal corpo, e queste beghe sarebbero finite vent'anni fa!"
"Lodi delenda est," ridacchiò un giovane chierico, "potrei scriverlo nella mia Chronica..."
I due ragazzi si scambiarono un'occhiata. "Ora la stacca a lui, la testa dal corpo..." commentò Richard a bassa voce, e l'altro gonfiò le guance per reprimere una risata.
Ignaro del loro scambio, il conte palatino continuò a inveire contro il pontefice, il duca di Baviera e chiunque avesse rifiutato di seguire l'imperatore a Legnano, finché la sua voce, ormai lontana, non si perse nella calca.
Nel frattempo s'iniziò a diffondere l'odore della carne arrostita sugli spiedi, e i due ragazzi si allontanarono per lasciare ai servi lo spazio per allestire le tavole. Siegfried si diresse verso le barricate, seguito a pochi passi di distanza da Richard, e si affacciò sulla piana che si stendeva ai loro piedi. Le tenebre la inghiottivano in un nero abisso che pareva estendersi per miglia e miglia. Una leggera brezza sussurrava tra le spighe; l'aria era satura del frinire degli insetti. "Mi chiedo se si potesse fare qualcosa per evitare questo disastro," disse infine.
"Oh, sì," rispose Richard, sarcastico. "Rimanere in Germania."
Siegfried finse di non aver sentito. "Abbiamo visto cadere l'imperatore, siamo stati abbandonati dai nostri stessi alleati... vorrei sperare in una nuova occasione di riscatto, ma non ci crede più nessuno."
"Non so cosa avesse intenzione di ottenere l'imperatore con questa spedizione, ma di sicuro non si aspettava che quella marmaglia di plebei armati potesse sbaragliare la nostra cavalleria. Nessuno se lo aspettava."
"Tu no?"
Richard si strinse nelle spalle, volse lo sguardo altrove e non disse niente.
"Tuo padre sapeva già che sarebbe stata una battaglia persa in partenza."
"Ma non avrebbe potuto opporsi ad alta voce. Aveva già dato la sua parola all'imperatore, prima ancora che il duca Enrico e gli altri signori si tirassero indietro. A quel punto, non poteva più rimangiarsela."
"Mia madre dice che mio padre avrebbe fatto lo stesso. Non stento a crederlo, anche se non ricordo quasi nulla di lui. Era uno dei più ferventi sostenitori dell'imperatore, lo è stato fino all'ultimo... ed è morto proprio qui, in Italia." Con un sospiro, alzò lo sguardo verso il cielo, dove le stelle splendevano silenziose e immote. Una volta aveva sentito dire che le anime virtuose salivano fino all'empireo, dove potevano dialogare con gli angeli e godere della luce eterna degli astri. In momenti come quelli, sentiva riaffiorare tutte le aspettative, le pretese e la diffidenza che gravavano su di lui solo perché portava lo stesso nome di suo padre. Il conte bambino di Lebenau, il figlio della Leonessa...
Si voltò verso Richard e lo fissò serio. "Sì, avrei voluto combattere, anche se tuo padre dice che non siamo ancora pronti. Non c'è niente di peggio che vedere così tanti uomini valorosi morire di una morte così ignobile, senza poter fare niente."
"Anch'io avrei voluto. Aspetto da anni quel momento, ma sembra non arrivare mai."
Siegfried scrollò la testa; osservò gli stendardi che pendevano flosci dalle aste, testimoni della disfatta, poi il suo compagno. "Stavolta la sconfitta si è abbattuta su di noi, ma avremo altre occasioni per farci valere. E allora combatteremo," concluse, in tono deciso.
✠
La notte precedente avevano ottenuto ospitalità in un monastero benedettino. L'imperatore Federico aveva parlato, rassicurando i suoi uomini, ed essi si erano addormentati confidando in una vittoria sicura.
Solo Richard e Siegfried avevano atteso l'alba trepidanti, a parlare a bassa voce sotto le coperte del giaciglio che condividevano con gli altri scudieri. Non avevano mai visto una battaglia prima di allora, ma erano ormai abituati ai racconti dei veterani e alle imprese favolose cantate nelle canzoni. Anche se sapevano che sarebbero rimasti nelle retrovie, cercavano di immaginare come sarebbe stato se vi avessero preso parte.
Si erano messi in cammino all'alba. Richard, Siegfried e il conte Eberhard seguivano la schiera di cavalleria guidata dal conte Berthold von Andechs. Lo stendardo azzurro con un leone e un'aquila d'argento segnalava la sua posizione. Si muovevano lungo sentieri che passavano tra vigne, colture di cereali e legumi, intervallate da boschi e campi incolti. Il cielo iniziava a schiarire appena all'orizzonte.
Giungevano confuse le notizie dei primi scontri tra gli esploratori tedeschi e le avanguardie della Lega. Le staffette andavano e venivano. Eberhard von Thann esortava alla prudenza, ricordando che gli alleati pavesi dovevano ancora raggiungerli, ma la staffetta era giunta al galoppo riferendo che Federico, senza esitare, aveva dato ordine di caricare, gridando che l'imperatore dei Romani non si sarebbe lasciato intimidire da una scaramuccia di poco conto.
Quando, più tardi, aggirarono la foresta e videro mozziconi di lancia coi vessilli di San Giorgio ai lati della strada, realizzarono che gli assalitori erano stati messi in fuga.
Ritti sulle staffe, Richard e Siegfried osservarono col fiato sospeso i cavalieri che avanzavano compatti, le mani strette intorno alle aste, per andare incontro ai nemici. Il lento e cadenzato scalpiccio degli zoccoli riempiva il silenzio d'aspettativa.
Oltre la barriera di lance, elmi e vessilli colorati, comparve il carro dei lombardi. Era enorme, sormontato dagli stendardi con la croce di San Giorgio, rossa in campo bianco, e da una croce di legno rivestita in lamina d'oro, che mandava riflessi alla luce del sole di quel mattino di fine maggio.
La linea dei fanti schierati formava una muraglia di picche e scudi bianchi con la croce rossa.
Poi Federico sollevò alta la lancia, la calò e diede l'ordine di attaccare. Gli uomini spronarono i cavalli, le lance tese in avanti, e si lanciarono alla carica. Un grido di battaglia sgorgò da migliaia di petti, sollevandosi verso il cielo. La cavalleria imperiale si schiantò sugli avversari con l'impeto di una valanga e travolse i fanti che si stringevano intorno al carro, scompaginando le pariglie di buoi. Il clangore del ferro contro ferro, le grida e i nitriti dei cavalli, il pestare degli zoccoli sulla terra riecheggiavano in una cacofonia assordante. L'aquila nera su campo dorato sventolava orgogliosa in cielo.
"Sige oder tôde!"[2] urlarono i cavalieri nelle prime file, sguainando le spade. "Sige oder tôde! Dio ci aiuti! San Michele!"
I fanti lombardi fecero loro eco, levando le picche. Si strinsero a semicerchio sull'orlo del dirupo, a difesa del Carroccio, costituendo un muro di scudi e aste puntate contro il nemico. Il cocente sole di mezzogiorno splendeva sulla distesa di elmi che sbarravano il passo, mentre le bandiere bianche con la croce di San Giorgio garrivano nel vento. I lombardi erano lì, spalla contro spalla, scudo contro scudo, determinati a resistere fino all'ultimo uomo.
Quando un fante cadeva, ne subentrava un altro; quando una fila veniva travolta dagli urti, le picche e gli scudi dietro di essa respingevano l'attacco, e il muro resisteva fiero e minaccioso. "Mort! Mort! Per Ariberto e San Giorgio!"
Richard von Thann non sapeva da quante ore stessero combattendo: si sentiva indolenzito e stanco, e la fronte madida di sudore gli faceva aderire il cappuccio imbottito alla testa. Siegfried si era versato addosso un otre d'acqua ed era corso a prendere una nuova lancia per il conte Eberhard. I cavalieri si rimisero in formazione e partirono alla carica, per l'ennesima volta: la terza fila di lombardi venne sopraffatta, e la quarta selva di lance avanzò, trafiggendo uomini e cavalli -- quando, improvvisamente, il rombo potente come di un terremoto squassò la pianura.
Richard chiamò Siegfried, senza fiato per il caldo e il troppo urlare, ed entrambi si arrischiarono al galoppo fino ai fianchi dello schieramento. Tutto ciò che riuscivano a vedere era un guazzabuglio confuso, dove solo con un'osservazione attenta riuscivano a distinguere gli amici dai nemici. Il terreno, scivoloso e devastato, faceva impantanare gli zoccoli dei cavalli rendendo difficile ogni manovra.
"Attenti! Allontanatevi! Via!" gridò un uomo. Siegfried diede un colpo sulla spalla di Richard, che si voltò nella direzione che l'amico gli indicava: il fiato gli si mozzò in gola quando vide un'immensa nube di polvere avvicinarsi.
"Andiamocene! Presto!" La polvere s'insinuava nei loro elmi, facendoli tossire. Fuggirono via al galoppo; una freccia colpì il collo del cavallo di Richard e il ragazzo rovinò addosso alla bestia agonizzante, sull'erba martoriata dagli zoccoli.
I lombardi si riscossero, lanciando un grido trionfante nel loro volgare; un uomo suonò la campana posta sul pennone del grande carro. Richard non ebbe il tempo di accorgersi se si fosse fatto male; il fragore degli zoccoli faceva tremare la terra sotto di lui e lo incalzava come una minaccia di morte. E poi arrivarono gli altri: una carica di migliaia di cavalieri si abbatté contro i fianchi e le retrovie dell'esercito tedesco al devastante grido di "Mort!". Era l'unica parola che Richard conosceva nella lingua dei lombardi, e ne comprendeva perfettamente il significato: tôde.
La pianura si tinse di rosso. Gli fu chiaro che ormai si combatteva per la vita o la morte, ché ogni speranza di vittoria era sfumata.
"Vittoria! Vittoria! Per la vittoria e la morte!" urlavano i milanesi, "Per Ariberto e San Giorgio!"
La battaglia inghiottì il ragazzo come un gorgo infernale. Raccolse da terra una picca abbandonata e afferrò lo scudo che teneva a tracolla, mentre due milanesi lo accerchiavano. Lo scudo si spezzò, facendolo piegare in due con un grugnito strozzato. Il lombardo lo stava per afferrare, ma un'ascia gli piombò tra capo e collo. L'uomo cadde in avanti e la sua testa recisa rotolò per terra, zampillando sangue.
Richard arretrò con un sobbalzo, trovandosi di fronte il leone argentato di Diepold von Valley. Gli occhi azzurri brillarono sotto il nasale dell'elmo e le labbra si piegarono in un sorriso sardonico. "Va', presto!" gli gridò il giovane.
Richard si allontanò quasi strisciando, come stordito. Qualche istante dopo, si sentì trascinare via da Siegfried, che lo riparò dietro uno scudo da fante.
Si diffuse la notizia che l'imperatore era caduto da cavallo ed era scomparso, inghiottito dalla mischia di fanti e cavalieri furibondi a difesa del Carroccio. Il panico iniziò a dilagare tra le truppe imperiali, che avventarono sui nemici: di nuovo al riparo delle retrovie, Richard e Siegfried videro molti di loro morire sotto le armi dei lombardi mentre gli uni inneggiavano a San Giorgio e gli altri a San Michele.
Il portatore dello stendardo finì faccia in giù nel pantano umido di sangue, trafitto da una lancia. Siegfried crollò in ginocchio e si coprì il volto, mentre Richard rimase immobile, paralizzato dall'orrore.
Dopo un'attesa densa e opprimente, il suono acuto delle trombe imperiali squarciò l'aria e i sopravvissuti si sparpagliarono attraverso la pianura. Il caos si impossessò delle retrovie. Entro la metà del pomeriggio, anche il fiume schiumava sangue.
L'Aquila spezzata giaceva abbandonata nel sangue e nella polvere.
✠
All'indomani della battaglia, sull'accampamento insonne sorse un'alba grigiastra, accompagnata dal calore dell'estate incipiente. Fuori dal padiglione del conte Eberhard von Thann, giungevano già le voci dei servi e il picchiare ritmico dei maniscalchi intenti a ferrare i cavalli.
"Per un attimo, comunque, ieri mi hanno trascinato nella battaglia. Ho quasi combattuto a fianco di tuo cugino Diepold," disse Richard a Siegfried, mentre si allacciava la cintura. Nel proferire quelle parole, controllò che suo padre non fosse in vista.
"Io ho colpito con la spada un fante che voleva spaccarmi la mazza sulla testa," replicò Siegfried. "È caduto per terra come un albero abbattuto."
"E l'hai ucciso?"
L'altro non rispose subito; lo scrutò di sottecchi, poi sollevò la testa. "Lo avrei fatto, se non mi avessero cacciato via."
"Meglio così, non siete ancora pronti: troppi canti cavallereschi e poca pratica," intervenne il conte in tono categorico, affacciandosi dalla tenda che separava l'alcova dal locale centrale: aveva una mano fasciata e una benda alla testa, e il suo volto era scavato dal turbamento. I due ragazzi sussultarono e arretrarono verso l'uscita, scambiandosi occhiate furtive. "Prima imparate a convivere col pensiero che in guerra non c'è posto per l'ambizione, meglio è. Dovete prima imparare a capire quando è bene snudare la spada e quando sarebbe meglio non fare nulla di avventato: è quella la cosa più difficile di tutte, ve lo assicuro. Troppi giovani fanno una brutta fine, solo perché accecati dalla fame di gloria." L'ultima frase gli uscì dalla barba come un borbottio indistinto. "È un miracolo che non vi siate fatti niente."
Richard aprì la bocca per rispondere, ma il conte aveva già cambiato discorso, corrugando la fronte. "Mi è giunta notizia che i lombardi hanno catturato Berthold von Andechs."
"Berthold? Addirittura?" esclamò il ragazzo.
"L'ho visto cadere per terra sbilanciato dall'urto di una lancia, e a quanto mi risulta si è risvegliato tra le grinfie dei milanesi. Ho preso io il comando della schiera."
"Dei miei parenti di Valley sapete qualcosa, signore?" chiese Siegfried von Lebenau.
Una voce, proveniente dall'esterno, precedette la risposta del conte: "È permesso?"
"Entra pure."
Sollevando il drappo all'entrata del padiglione, comparve un uomo dai capelli color nocciola lunghi fino alle spalle e una barba corta, striata di grigio. Sulla sua cotta d'arme bianca era cucito un drago dalle ali spiegate. Teneva la mano sinistra appoggiata al pomo della spada che gli pendeva dalla cintura. Richard non vedeva il conte Siegfried von Peilstein da diversi anni, ma gli parve uguale a come lo ricordava. L'uomo salutò i due ragazzi con un cenno del capo, frutto di un'antica consuetudine, e si informò della salute di Eberhard.
"Ho avuto giorni migliori," rispose lui. "Non ho più il vigore di una volta."
"Nessuno è immune allo scorrere del tempo," replicò Siegfried von Peilstein, con un sorriso disincantato.
Eberhard scrollò le spalle, si sedette sul suo scanno e cambiò discorso. "Ho saputo quello che è successo ai tuoi nipoti." Indicò una sedia anche all'altro, ma egli rimase in piedi, appoggiato al palo della tenda.
"Vedo che le loro prodezze fanno notizia ovunque essi vadano." L'ospite rise sommessamente, con amara ironia. "Heinrich l'hanno tirato giù da cavallo mentre urlava e scalciava come un ossesso. Quella testa calda di Fritz -- era lui che portava lo stendardo del duca -- si è buttato sui lombardi con la spada sguainata... non so cosa gli passasse per la testa, lui da solo contro almeno dieci uomini che tenevano fermo suo fratello disarmato... per poco non si è fatto ammazzare."
"Immagino già quando Konrad verrà a saperlo."
"Spero il più tardi possibile. Lo saprà quando tornerò in Austria, se mi resteranno ancora soldi per il viaggio dopo che avrò riscattato quei due. Tra tre giorni andrò a Milano per rinegoziarne la restituzione."
Eberhard annuì. "In tal caso, buona fortuna."
Siegfried von Peilstein lasciò vagare distrattamente lo sguardo attraverso la tenda, quindi concluse: "Sì, forse ne avremo bisogno. Dopo questa sconfitta, l'unica cosa che ci resta è l'onore."
"Forse ha ragione chi dice che l'umiliazione di Alessandria non ha eguali, ma dubito che ci rialzeremo da questa sconfitta in breve tempo. Troppi errori sono stati commessi in una sola volta. Era la nostra occasione di riscatto e l'abbiamo sprecata."
"Siamo stati traditi e abbandonati dai nostri alleati. Ma forse è un segno dei tempi: da tempo le città lombarde non credono più nell'impero, vogliono indipendenza, hanno un governo di popolo, vivono di commerci e dissacrano le insegne imperiali."
"Investire tempo ed energie in questa causa è stata la rovina di Federico. Morto in terra straniera perdendo di vista i problemi che da troppi decenni vessano la Germania... ci aspettano tempi ancora più bui, adesso."
Rimasero in silenzio per qualche istante, ognuno assorto nei propri pensieri. Sembravano essersi dimenticati della presenza dei due ragazzi, seduti su una panca in un angolo ad ascoltare la conversazione mentre piluccavano ciliegie.
"Comunque, come ti dicevo, ho deciso di tornare in Austria," riprese von Peilstein, a bruciapelo. "È la cosa migliore da fare."
Eberhard assunse tutto d'un tratto un'aria guardinga. "Ah, sì? Sempre per quella faccenda? Hai scoperto qualcosa?" Solo in quel momento parve accorgersi che i ragazzi erano ancora lì, e ingiunse loro di uscire con un cenno brusco.
"Pare di sì." Il conte austriaco fece una smorfia tirata, quasi reticente, senza aspettare di rimanere da solo con lui. "Ne riparliamo un'altra volta però, qui non è il posto giusto per discuterne. Poi sai come la pensa mio fratello..."
Richard, perplesso, si chiese a cosa si riferissero, indugiando per poco ancora sulla soglia. Vide suo padre annuire senza fare ulteriori domande, e la conversazione fu interrotta da uno squillo di trombe che richiamò tutti quanti fuori dalle tende.
Un messo imperiale varcò l'entrata al galoppo, rischiando di travolgere un armato che passava di lì. "L'imperatore è vivo!" annunciò, mentre il suo cavallo si impennava. "È ferito, ma in buone mani!"
I suoi esploratori, seguiti da cinque lombardi in abiti civili, vennero introdotti nell'accampamento e si schierarono dietro di lui. Quello che reggeva lo stendardo, una croce bianca in campo rosso, si fece avanti e disse, in un tedesco biascicato e inframezzato di espressioni latine: "Confermo, è arrivato a Pavia ieri sera tardi. Gli uomini della mia città si stanno occupando di lui. L'imperatrice manda i suoi saluti."
"Avete sentito, signori? L'imperatore è vivo!" ripeté il tedesco a cavallo.
"Salute all'imperatrice! Viva l'imperatore!"
Siegfried von Peilstein fu il primo a uscire dal padiglione. "Dunque l'aquila è spezzata, ma non del tutto sconfitta."
"Se non fosse un giorno di lutto per tutti noi, sarebbe una notizia lieta," concluse Eberhard.
[1]: giovane signore, appellativo che si rivolgeva agli scudieri e ai giovani nobili non ancora investiti cavalieri (ai quali invece spettava l'appellativo herre).
[2]: Vittoria o Morte. Questo grido di battaglia, così come quello dei lombardi, è un'invenzione narrativa.
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