Dragoncello 1
C'era una volta una ragazza, che viveva in un piccolo paesino di campagna, coi tetti di paglia e le strade di fango. Era la figlia del mugnanio, e in paese l'avevano soprannominata "La Bianchina" perché era sempre coperta di bianco, dalla punta del naso a quella delle babbucce; quel nomignolo le era rimasto appiccicato bene quanto la farina, tanto che nessuno ricordava più il suo nome. La Bianchina sembrava quasi un fantasma, persino la sua gonna blu era costantemente candida, e lo stesso valeva per i suoi bei capelli neri.
La ragazza era profondamente infelice: non le piaceva lavorare al mulino, non le piaceva quel soprannome, non le piaceva la farina e non le piaceva l'impasto che si ritrovava addosso quando cercava di farsi una doccia. Così un giorno decise di partire: non sapeva bene dove andare, o perché; sapeva solo che cercava un posto dove non ci fossero farina e compaesani dal dubbio gusto in fatto di nomignoli. Sistemò in una borsa un piccolo otre pieno d'acqua, un pezzo di polenta fredda e del formaggio avvolti in un panno insieme a qualche tozzo di pane - lei lo avrebbe evitato volentieri, ma sapeva che non le conveniva, perché il pane si conserva meglio e riempie la pancia - e uscì di casa in silenzio, con il cappuccio già appena spolverato di farina calcato sopra la testa.
Tutti nel piccolo paese erano affaccendati, e pochi prestarono attenzione alla Bianchina che se ne andava quatta quatta. Forse pensarono che stesse andando a fare una passeggiata, o che stesse andando dai suoi genitori, fatto sta che nessuno le disse nulla o la seguì. La Bianchina sorrise: era finalmente libera!
Cammina cammina, la ragazza si ritrovò nella boscaglia. Era estasiata da quel mondo ancora tutto da scoprire, ma anche spaventata in qualche modo, perché si stava facendo buio e il bosco era pieno di rumori. Per farsi coraggio la Bianchina iniziò a raccontarsi delle storie, delle leggende sentite dalle vecchie di paese quando era bambina. Cercare di ricordarle la aiutava a non pensare ai pericoli intorno a lei, e percorse così un bel tratto di strada. Poi, proprio nel bel mezzo di uno dei racconti, decise la sua destinazione: la grotta dei sogni.
La leggenda era estremamente antica, a quel che dicevano le comari del villaggio, tanto da risalire ai nonni dei nonni dei loro nonni, e quelle donne erano molto vecchie. La Bianchina si era in qualche modo convinta che in una storia tanto antica dovesse per forza esserci una qualche verità, e così aveva deciso di cercare la grotta: secondo la leggenda, bisognava seguire la strada delle anatre fino alle montagne; lì, i viaggiatori che lo desideravano erano condotti dal fato alla grotta. Nella caverna un immenso drago dai colori magnifici (troppo magnifici, per poterli descrivere) si occupava di mandare i sogni nel mondo. E chi fosse arrivato da lui, avrebbe potuto avventurarsi in un sogno particolare: un sogno così vivido da essere vero, e sostituire tutto ciò che è preoccupante, e far comprendere la strada a chi è perduto.
Così, la Bianchina aveva guardato il cielo. La luna era una falce, e lei aveva sonno. Di uccelli non ce n'erano, quindi si stese a terra, sbocconcellò un po' di polenta fredda e bevve un po' d'acqua e si addormentò.
Al risveglio, la luce tenue del sole filtrava tra le foglie vive degli alberi. Si arrampicò un po', cercando di vedere oltre la chioma. Il cielo era terso, gli uccelli volavano in formazione. Rimase a bearsi della luce per un po', fissando l'azzurro in attesa di uno stormo; poi eccole, tredici anatre in fila! Puntavano verso il limitare della foresta, e lì puntò anche lei, appena fu scesa dal ramo.
Camminò per molto, ogni tanto si fermava a raccogliere una foglia o a mangiare un pochino, o a bere.
Ci vollero un paio di giorni, e lei era molto stanca e il cibo quasi finito, ma alla fine vide le montagne. Si sedette a terra e aspettò, certa che il fato sarebbe arrivato. Ma giunse la notte, e nessuno arrivò.
Attese ancora e ancora, finché non finì l'ultima briciola di pane. Allora pianse. Pianse a lungo, perché era sicura ormai che la leggenda fosse una menzogna. E già si stava alzando per tornare a casa, che un violento temporale si abbatté sulla foresta. La Bianchina sapeva che non era sicuro andare vicino agli alberi quando piove, e cercò riparo tra le rocce della montagna.
Finalmente vide una grotta e, congelata fino al midollo, entrò per asciugarsi.
C'erano tanti sogni appesi a quel soffitto ed erano cullati dal respiro freddo del grande drago di cui parlava la leggenda; tra pochi minuti ne sarebbero caduti alcuni sul pavimento.
La Bianchina rimase imbambolata, interdetta: non credeva ai suoi occhi. Il drago era immenso, le sue squame rilucevano di mille colori, e i sogni luccicavano sul soffitto come cristalli, appesi lì da fili di ragno, intagliati nelle pietre preziose con le forme più strane. Sentì una grande gioia riempirla, e gli occhi umidi.
Poi il drago aprì gli occhi, la guardò con il suo sguardo dorato e argentato e di mille colori, e disse, con una voce così profonda da scuotere tutta la caverna e far cadere dei cristalli, che si infransero e liberarono i sogni perché andassero lontano lontano: «Cosa cerchi, umana?»
La Bianchina era spaventata, il drago sembrava arrabbiato; ma si fece coraggio e rispose, con voce tremante: «Grande drago, io cerco le risposte. Vorrei avere un sogno per condurmi al mio destino.»
Il drago annuì solennemente con la grande testa. «E sia! Arrampicati sulla mia schiena, prendi un sogno, uno solo, esci e spezzalo! Il sogno ti condurrà dove tu vorrai.»
La Bianchina obbedì e si arrampicò, prendendo un piccolo sogno rosa a forma di fiore. Poi ridiscese, ringraziò il drago e uscì tutta felice.
Il sogno era magnifico, pieno di polvere d'oro, e le entrò nelle orecchie e nel naso facendola ridere, e poi la addormentò. E la Bianchina sognò di tornare a casa, e preparare delle torte con la farina, che non le si posava più addosso, ma solo sul grembiule, e di abbracciare di nuovo i suoi genitori, che le mancavano terribilmente, e l'aveva capito solo ora.
E così, quando la Bianchina si svegliò, si mise in viaggio verso casa. Lungo la strada mangiò dei frutti trovati nel bosco, che sembravano lì per lei. Poi arrivò a casa, e tutti le fecero festa. Aprì una pasticceria, la Pasticceria del Grande Drago, e si fece chiamare Rosa, come quel sogno che le aveva portato tanta fortuna... e visse felice e contenta, preparando dei dolci per tutto il paesino con i tetti di paglia e le strade di fango.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top