Capitolo 9.

Era di nuovo a casa sua, dopo aver dato un esame di pedagogia. Finalmente poteva spegnere il cervello e chiudersi nel suo mondo. Non ci capiva più nulla. Era bloccato ancora sulla data del 22 gennaio, dove descriveva di nuovo il loro rapporto sessuale. Non riusciva a leggerlo senza essere percorso da brividi e tremare dalla vergogna. Era in continua ricerca di motivazioni e spiegazioni, però in quelle pagine dove lei scriveva le sue sensazioni sotto il suo tocco... Quelle pagine non riusciva a leggerle. Si sentiva un adolescente in preda dagli ormoni. Guardava fisso il soffitto, stando sdraiato sul divano. La luce del lampadario a piatto lo accecava leggermente, ma evitava di farci troppo caso. Era troppo preso dai suoi pensieri, che si attorcigliavano tra loro, fino a togliergli il respiro e farlo annegare nella marea della sua mente. Si sentiva un oceano, all'apparenza pacato e silenzioso, ma che nascondeva, sotto chilometri di acqua, degli abissi mostruosi e terrificanti. Aveva paura di scoppiare e d'iniziare a urlare contro tutti, di esplodere, di straripare e inondare tutto di verità agghiacciante e allontanare tutti da lui.

Aveva bisogno di staccarsi dal suo passato, di cambiare vita e ambiente, ma sapeva che non era giusto, perché per colpa delle sue azioni una ragazza si era quasi tolta la vita, continuando a scrivere sul diario di odiare a morte chi le fece tutto quello. Se solo avesse avuto il coraggio di essere sincero con lei, di raccontarle tutto e dirle che era enormemente pentito del male che le aveva recato. Se non fosse stato per la sua codardia innata e la sua faccia finta da angelo, a quel punto sentirebbe di meno quel nodo allo stomaco. Non si sarebbe sentito sbagliato per averla toccata più del dovuto, più di quanto ne avesse bisogno. Alzò le mani e le guardò a lungo. Con le stesse aveva esplorato ogni millimetro della sua pelle, toccato il suo fiore e con le stesse le aveva inflitto dolore. Nessuno avrebbe potuto capire le sue motivazioni, anche perché non c'era molto da capire. Il suo fu un capriccio di un sedicenne ribelle e incattivito dal suo ambiente. Si posò le mani in faccia, strofinando gli occhi.

Doveva mettere da parte il suo rimorso e rimettersi a leggere. Doveva capire chi fosse Samir, cosa fosse successo a Elisa e dove poteva trovarla. Decise di alzarsi, bere un caffè e rimettersi a studiare quelle pagine incise. Si era promesso che l'avrebbe trovata e solo allora le avrebbe detto la verità.

Prese la tazza di caffè latte nello studio, avvicinò la lavagna bianca. Tornò in cucina per procurarsi dei plumcake e finalmente si sedette alla scrivania. Inspirò ed espirò rumorosamente un paio di volte e poi riprese a lettura.

***

[...] In poco tempo sono attaccata a lui, premendo le mie labbra sulle sue. Gli stringo i bordi del suo maglione marroncino, spingendolo verso il divano. Siamo solo io e lui in questo momento, non voglio fermarmi. Non voglio cedere alla razionalità e staccarlo da me, perché sarebbe come staccare la mia stessa pelle. Mi sono invaghita troppo, da crearmi una dipendenza dal sesso con lui.

Mi lascia viziosi baci sul collo, stringendomi a lui, togliendomi il fiato. Sento sfuggirmi un gemito, quando con le labbra sfiora la mia clavicola destra, giungendo alla mia zona erogena. Mi irrigidi- [...]

***

Allontanò bruscamente il diario, sentendo la sua libido crescere. Si ricordava pure lui tutte le volte in cui lui ha potuto assaporare il suo corpo. Conosceva ogni zona erogena, ogni punto debole e ogni modo per riuscire ad arrivare a quel punto, ma con lei era sentito leggero come una piuma che cade dal cielo. Si sentiva sempre mancare il fiato come un ragazzino, mentre sulle sue lenzuola aveva una sedicenne che lo provocava. Non era vero che lo avesse provocato, era sempre stato lui a catapultarsi verso di lei, per svariati motivi, quando erano soli. Era sempre lui a sedurla, a cercare in lei qualcosa che forse non gli avrebbe mai dato a mente lucida. Lo sapeva da sempre, ma giacere nel suo stesso letto gli sembrava facesse rallentare il tempo e ogni volta era buona per evitare i momenti di silenzio. Alla fine si sentiva come le rondini in volo, mentre continuava una danza più antica dell'uomo e consumava il suo diamante, avaro.

Con una mano si sistemò l'erezione nei jeans neri. Continuò a leggere il diario, mentre l'orologio ticchettava. Il respiro si faceva affannato, la concentrazione iniziava a mancare e con la mano accarezzava la protuberanza da sopra i vestiti, cercando di calmarsi. Più si addentrava nella scrittura, più si immaginava il suo corpo esile e delicato, i capelli corvini sciolti che contornavano gli occhi verdi smeraldo con uno sfumatura lussuriosa e giocosa.

Il profumo di muschio bianco e sigaretta gli invase le narici, anche se sapeva che fosse solo un tranello della propria mente, però gli piaceva quella sensazione. Gli metteva i brividi, lo confondeva e agitava. Come del resto fu sempre stato, lui adorava quando il suo profumo annebbiava il suo ragionamento. Lo portava a provare un'eccitazione che partiva dalla testa e poi arrivava alla sua libido.

Con ancora gli occhi puntati sul diario, scandiva ad alta voce le parole di Diamante, come una soffocata preghiera alle divinità dell'amore che di certo lo stavano spingendo a quella follia. Si sentiva Bacco alle spalle ridere, mentre iniziava a sentire la propria testa vuota e si spingeva al rituale erotico.

Una mano slacciava i jeans, l'altra abbassava l'elastico dei boxer, tirando con se i pantaloni scuri. Non riusciva a pensare razionalmente, più leggeva, più la sua mente lo illudeva di sentire il suo profumo e i suoi gemiti. La percepiva più vicina di sempre. Le lancette dell'orologio continuavano a farlo impazzire, temeva di perdere del tutto la sua umanità. Ad aggiungersi c'era l'odore del caffè sulla scrivania davanti a lui.

La mano sinistra accarezzava tutta la lunghezza dell'erezione, gli occhi continuavano a seguire la delicata calligrafia, che lo aveva portato fino a quel punto. Ogni gemito era stato trascritto, gli venne da sorridere: era l'unico dettaglio che trascriveva a perfezione quando stavano assieme. Iniziava a convincersi di essere stato lui quello soggiogato fino a essere usato come un giocattolino sessuale, ma a lui non dispiaceva. Avrebbe accettato tutto pur di poter godere ancora dei suoi gridolini, quando la sollevava da terra e la poggiava ovunque si potesse ballare in aria come le rondini. Ogni azione da parte di Diamante sarebbe stata ai suoi occhi giustificata, bastava che non lo lasciasse più solo in balia dei suoi peccati. Si sarebbe accontentato anche di un silenzio, però lei doveva stare al suo fianco.

Stava mentendo a sé stesso. Non sarebbe mai stato abbastanza: voleva usarla, abusarla, sfinirla. L'istinto primitivo di trattenerla prigioniera delle sue fantasie sessuali era sempre più evidente. Lo rendeva un animale inferocito, una bestia priva di umanità e la cosa lo faceva impazzire. Probabilmente era sempre stato così, già da quando lei aveva dodici anni e cominciava ad avere i primi profumi invitanti di una donna dopo la menarca. Aveva sempre avuto questo potere su di lui.

La mano iniziava a stringere leggermente la libido, continuando a salire e scendere per simulare un atto sessuale. Immaginava i suoi occhi verdi guardarlo supplicanti di non lasciarla più, di continuare a stringerla tra le sue braccia e affondare nel suo corpo caldo e accogliente. Ogni volta sempre di più, sempre più violenti, più affamati di stare assieme senza vestiti a dividerli. Passavano più tempo da nudi, prendendosi ognuno qualcosa dell'altro. Si definivano esibizionisti, sempre più cattivi, più arrabbiati, fino a farsi male. Ancora aveva i segni delle sue unghie sulla schiena, sul collo, sulle braccia.

Iniziò a schizzare del liquido seminale, mentre la mano sfregava con più velocità. Non aveva fretta, ma la sua mente lo convinceva che forse Diamante era con lui, che non fosse solo autoerotismo. Cominciava a sentire i suoi gemiti nella testa, alterando ancora di più la sua tranquillità. Lui era la bestia e lei era sempre stata la sua vittima. Da sempre lui era padrone di quello che le succedeva. Era sua, avrebbe fatto di tutto per legarla di più a sé. Nessuno avrebbe dovuto vederla nel suo stesso modo, volerla come la bramava lui o assaporarla come se stesse per sbranarla viva. Sua. Diamante era il suo gioiello più prezioso, la sua gioielleria preferita.

Il suo corpo prese ad avere delle piccole contrazioni, riversando il suo seme sulla sua mano aperta.

Si pulì la mano con un fazzoletto, tirò su i pantaloni e si diresse verso il bagno, non voltandosi nemmeno una volta verso il diario. Era la terza volta che succedeva. Perdeva l'autocontrollo, facendo riflessioni malate e possessive. Si sciacquò il volto, stringendo i pugni poggiati sul lavandino di marmo bianco, leggermente coperto di polvere. Era proprio di questo che aveva paura: mostrare a tutti la bestia che era stata cresciuta in cattività da Marica, la famiglia Ugolini e suo nonno. Perché un Bertolini doveva per forza essere forte e perfetto, altrimenti l'intera famiglia precipita con lui.

Lui, però, non sentiva questa forza, piuttosto avrebbe voluto chiudersi in sé e non lasciare entrare più nessuno. Non voleva vedere questa parte di lui, non poteva più permettersi che un pensiero su Diamante lo portasse a tirare fuori qualcosa che non era.

Non era il ragazzino sedicenne, lui era Massimo Bertolini, uno studente universitario, che aveva una splendida carriera davanti. 

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