1.

Quanto dura un secondo?

Per me, un secondo era in grado di durare un istante oppure un attimo eterno. Ci sono momenti della nostra vita, frammenti di ricordi, voragini interminabili di solo pochi attimi, che sono in grado di ripercuotersi per tutto il resto della nostra vita.

Ci sono istanti eterni in grado di durare per sempre.

Ed era per questo che, ogni giorno, ogni volta che aprivo gli occhi e la luce del sole si mostrava al mondo, le immagini di quel misero secondo tornavano con l'irruenza di un uragano nella mia mente. Era stato un briciolo di tempo, uno scoppio di un proiettile, un battito d'ali di una farfalla, che però continuava a vivere in me in eterno.

Infatti, quella mattina, la prima cosa che vidi appena aprii le palpebre, non fu la luce del giorno che illuminava la mia stanza. No. Ma furono le fiamme dell'inferno che divamparono intorno a me. Sentii persino la sensazione del calore sulla pelle, il bruciore feroce di una scottatura che mi marchiava per sempre.

Ero costretta a rivivere per l'eternità un solo attimo di tempo.

«Selene, scendi subito o farai tardi!»

Per fortuna, a riscuotermi da quel tepore, fu la voce stridula di mia madre che mi imponeva di fare colazione.

Ci misi un secondo a realizzare che quel lunedì sarebbe stato il primo giorno del secondo anno di college, e ci misi ancora meno tempo a sentirmi euforica per questo, ad alzarmi dal letto alla velocità della luce e mettermi di fronte allo specchio per vestirmi.

Fortunatamente, ero una persona ben organizzata, quindi avevo già preparato, posizionati sopra la scrivania, i vestiti che avrei indossato oggi. Così, misi i jeans neri e larghi che praticamente indossavo ogni giorno da quando li avevo comprati al mercatino della città, una maglietta del medesimo colore che, seppur attillata, non sembrava volgare e non mi metteva particolarmente in mostra, nonostante il mio seno fosse abbastanza importante.

Sistemai le ciocche ribelli dei miei capelli ramati in una coda alta e decisi di non truccarmi. In fondo, non era il primo giorno del primo anno, potevo permettermi di lasciarmi un po' trasandata.

Scesi al piano di sotto, dove trovai mia madre intenta a preparare una tazza di caffè bollente che posò sopra il tavolo.

Lei era già ben sistemata, con i suoi abiti scuri e i capelli corvini perfettamente lisci fino alle spalle. Il viso truccato, con un bel rossetto rosso fuoco che le colorava le labbra carnose.

«Tieni. E vedi di sbrigarti, che devo correre al lavoro oggi» m'informò con la sua solita voce fredda e atona.

Certo, come sempre, mamma.

Poi, il suo sguardo si posò su di me e bastò questo per farle arricciare le labbra in una smorfia di disgusto. «Ma come ti sei conciata? Oddio, Selene, ti rendi conto che hai vent'anni e non più sedici?»

Ovviamente, non mancò la scena melodrammatica in cui si portò le mani sul viso con fare disperato.

Alzai gli occhi al cielo. «Mamma, il fatto che io abbia una certa età non mi costringe ad indossare tacchi alti e abiti formali.»

Lei alzò un sopracciglio, contrariata. «Ah, no? Ti costringe a mettere vestiti da ragazzina? Non capisci che devi sistemarti un po' meglio, per essere notata dai ragazzi?»

Oh, no, ci risiamo.

Sbuffai. Erano le otto del mattino e già mi sentivo piena di stanchezza, oltre che di malumore. Ma lei era così, era in grado di essere la donna più benevola del mondo e, allo stesso tempo, poteva diventare la regina dell'inferno.

«E chi ti ha detto che io voglia essere notata?»

Bevvi il caffè in un sorso e mi alzai dal tavolo per andare a lavarmi i denti, stanca di questa conversazione, ma lei non sembrava intenzionata a demordere.

«Io mi sono sposata a ventidue anni, Selene.»

«E si vede com'è andata a finire, infatti.»

La sua espressione s'incupì di getto. I suoi occhi color nocciola, così simili ai miei, persero immediatamente la loro luce, il che mi fece sentire stranamente in colpa, un piccolo macigno si fece strada sul mio cuore.

«Questo non c'entra niente. Non è colpa mia se tuo padre voleva divertirsi con le ventenni» si difese, ma la sua voce ormai era carica di tristezza.

«Mamma, non volevo dire...» Mi avvicinai a lei, ma con un gesto della mano mi allontanò.

«Lascia perdere, so quello che volevi dire», mi fermò. «Ora lavati i denti o faremo tardi. E mettiti un po' di correttore, quantomeno.»

Era tornata la stronza, bene.

Tornai al piano di sopra come un fulmine, mi lavai i denti con decisione, come facevo sempre. In effetti, era una mia piccola fissa: strofinavo ogni dente finché le gengive non sanguinavano chiedendomi pietà, poi sputai nel lavabo e mi asciugai le labbra con l'asciugamano. Mi diedi un'ultima sciacquata al viso e accontentai la pazza al piano di sotto mettendo un filo di correttore nelle occhiaie violacee che mi contornavano gli occhi. Presi lo zaino in spalla e mi fiondai nell'auto, dove mia madre già mi attendeva con impazienza.

Lei mi fece una piccola radiografia, increspando le labbra e inarcando le sopracciglia per memorizzare ogni singolo dettaglio del mio viso. «Vedo che mi hai ascoltato, menomale», osservò prima di mettere in moto e partire.

Mi stravaccai sul sedile del passeggero e liberai un respiro. «Mi vieni a prendere tu, dopo?»

«Puoi chiedere un passaggio a Emily? Non so se faccio in tempo con il lavoro...»

Lavoro, tasto dolente per mia madre. Per quanto avesse ricercato per anni una stabilità economica ora era in grave pericolo. Si, aveva ancora un lavoro e, fortunatamente, un tetto sopra la testa, ma da quel che avevo capito era molto in bilico.

A volte, tornava a casa dal lavoro con le lacrime agli occhi, anche se cercava di mostrarsi sempre molto forte. Però io l'avevo notato, e temevo moltissimo che le cose non andassero bene, non volevo finire sul lastrico e non volevo che ci finisse nemmeno lei.

Dio, meglio non pensarci.

Annuii. «Chiederò a Em.»

Emily era la mia migliore amica da quando ne avessi memoria. Avevamo frequentato lo stesso liceo e, fortunatamente, avevamo scelto la stessa università, così da poter continuare a vederci anche se frequentavamo corsi differenti.

Lei era stata con me nei miei momenti peggiori, ed io con lei.

Arrivammo al campus nel giro di qualche minuto e sospirai quando mi ritrovai di fronte al grande giardino che si distendeva intorno all'edificio, che emergeva con le sue mura bianche e la grande scalinata che, solo a vederla, già avevo il fiatone, di fronte alla porta d'ingresso enorme e già spalancata.

Scesi e farfugliai un «ciao» a mia madre che scappò dopo solo qualche secondo.

Mi ritrovai immersa tra gli studenti che, frenetici, correvano a destra e sinistra, con i libri in mano o con un caffè d'asporto.

Respirai a pieni polmoni mentre il profumo dei fiori del giardino mi inebriavano i sensi. Mi era davvero mancato tutto questo, per quanto possa sembrare surreale. Per me, il college era sempre stato un qualcosa che adoravo, studiare e crearmi un buon futuro era la mia ambizione più grande.

Stavo per incamminarmi verso l'entrata, quando vidi Emily raggiungermi con una corsa. La chioma bionda ricciolina ondeggiava a destra e sinistra mentre correva, gli occhi color mare puntati su di me e un sorriso che gli tingeva le guance di rosso acceso.

Sorrisi di rimando mentre continuavo a guardarla. Lei era sempre stata bellissima, con quella spruzzata di lentiggini sul nasino alla francese, il fisico atletico e le gambe chilometriche. C'era stato un periodo, al liceo, in qui avrei davvero voluto essere come lei, invece ero esattamente l'opposto.

Emily amava la vita, adorava ballare fino a tarda notte e divertirsi con gli sconosciuti, finire in camere da letto che il giorno dopo non avrebbe ricordato e ubriacarsi fino a non capire più nulla. Indossava sempre abiti succinti, gonnelline corte e top che lasciavano ben poco all'immaginazione, mostrando il seno tondo e perfetto, le cosce sode e snelle, i fianchi pronunciati che le davano un'aria molto sexy.

Mentre io... be', io ero quella che si metteva un paio di pantaloni della tuta, si conciava i capelli come meglio riusciva ma, alla fine, finivano sempre ad essere legati in una crocchia disordinata. Ero quella che si truccava poco e finiva per non essere notata. Almeno, finché non mi ritrovavo al suo fianco, perché ogni essere vivente dotato di un apparato riproduttivo maschile finiva con gli occhi puntati su Emily Baker.

«Ehi», mi salutò una volta arrivata, con la voce affannosa e le gote arrossate. Si sistemò una ciocca color cenere dietro l'orecchio e mi sorrise ampiamente, mostrando la dentatura perfetta e le labbra carnose. «Liam dov'è?»

Mi guardai intorno. In effetti, del nostro amico non c'era la benché minima traccia.

«Arriverà.»

Liam era come Emily per me. Lo conoscevamo entrambe dal liceo, seppur l'avessimo conosciuto verso il secondo anno. Infatti, lui si era appena trasferito da Seattle ed era stato molto difficile ambientarsi, soprattutto per i suoi gusti un po'... eccentrici. Era solito ad indossare vestiti colorati e fluorescenti, qualcosa che non lo faceva mai passare inosservato e che, purtroppo, molti dei nostri compagni criticavano.

Em mi posò una mano sulla spalla. «Meglio. Devo raccontarti un sacco di cose top secret», mi disse all'orecchio.

«Andiamo a prendere un caffè così me le racconti prima di entrare», consigliai e, dopo un suo cenno affermativo, ci dirigemmo verso il bar alla destra dell'ateneo.

Anche qui, una mandria di studenti erano intenti a parlottare tra loro. Passammo in mezzo alla folla senza farci notare, per quanto possibile, poi l'odore di paste appena sfornate e di caffè mi inebriò i sensi e ci posizionammo di fronte al bancone per ordinare.

A raccogliere i nostri ordini era Molly, una ragazzina minuta con una lunga chioma scura e gli occhiali da vista dalla montatura rossa e tonda che gravavano sul suo piccolo nasino all'insù. Faceva la barista dal primo anno ma ero certa che fosse più piccola di noi.

«Ehi, Molly, bentornata!» gracchiò Emily con un sorriso in volto, il classico che la contraddistingueva. Era una caratteristica che amavo di lei, il fatto che fosse sempre felice e all'apparenza spensierata. Speravo che non fosse solo una facciata, la sua.

La ragazza sorrise e si sistemò gli occhiali pesanti sul naso. «Ehi, bentornate a voi! Cosa vi porto? Il solito cappuccino con la panna?»

«No... per me senza panna, sono a dieta», la informai, prima di beccarmi un'occhiataccia da parte della mia amica.

«Ma quale dieta? Sei diventata tutta stupida?» mi redarguì inarcando un sopracciglio folto e chiaro.

«Sono ingrassata quest'estate.»

Lei fece un gesto della mano come a scacciare via una mosca fastidiosa. «Ma sentila! È andata fuori di testa. Comunque, metti la sua panna anche nel mio, che non sono a dieta proprio per niente.»

Certo, per te è facile, sei bellissima con quel fisico a clessidra e la pancia piattissima. Ma dove li tieni gli organi?

Molly sparì dietro al bancone e tornò pochi istanti dopo con le nostre bevande, che iniziammo a sorseggiare subito, data l'ora tarda.

«Dai, raccontami, sennò facciamo tardi», la spronai.

Lei fissò gli occhi nei miei. Portò la lingua sulle labbra per raccogliere la panna che le sporcava l'angolo sinistro e iniziò a parlare. «Allora... ci sono buone e cattive notizie, quale vuoi prima?»

«Buone», risposi di getto.

«La buona è che sono andata a letto con un figo da paura, Selene. Uno davvero fighissimo!» cinguettò euforica. «Si chiama James e frequenta questa università da quest'anno.»

«Sono felice per te. E la brutta?»

Non ero stupita del fatto che aveva fatto sesso con un ragazzo, non capivo quale fosse la grande notizia, dato che lo faceva molto spesso.

«È che è amico di due che sono appena usciti dal carcere e che verranno anche loro quest'anno», sputò di getto.

Aspetta, cosa?

Increspai le sopracciglia e serrai le labbra in una linea retta. «Ma che dici?»

Carcerati? Che verranno a frequentare il college?

«Si, si chiamano Hayes e Harvey Myers.»

Il mio cuore perse un battito.

Sentii un'ondata di gelo scorrermi nelle vene, mentre la testa iniziò a girarmi come se fossi sulle montagne russe.

Mi irrigidii. «Ma che dici...» farfugliai, ormai convinta di aver capito male.

Non poteva essere. Hayes e Harvey Myers erano spariti da anni ormai, di loro non si sentiva parlare da troppo tempo. Non potevano essere loro.

Ma come potevo aver capito male?

Lei mi guardò, un'ondata di preoccupazione le si dipinse nel volto candido. «Stai bene? Che c'è?»

Ma io ormai stavo tremando. Sentivo le gambe farsi di argilla e le dita che non riuscivano a stare ferme. Ero convinta di avere gli occhi sgranati e un'espressione del tutto spaventata, o forse preoccupata.

«Niente... io... sei sicura che siano Hayes e Harvey i loro nomi?» chiesi con un filo di voce appena udibile.

«Si, credo di sì. Ma che hai? Li conosci?» La mia amica stava andando in paranoia, lo notai da come sbatté il bicchiere con il cappuccino sul tavolo e puntò lo sguardo su di me. «Selene...»

Scossi la testa. «No» mentii, perché in quel momento non sapevo che altro fare.

Alla fine, non li conoscevo davvero. Non più, perlomeno.

«E allora che ti prende? Stai tremando.» Posò entrambe le mani sulle mie braccia ricoperte di brividi e le strofinò come a volermi scaldare.

Ma non era il freddo a farmi rabbrividire.

«Niente, mi gira solo un po' la testa. Sarà il troppo zucchero», minimizzai con un gesto della mano, cercando di placare il respiro e calmare i battiti del mio cuore spaventato.

«Ma se non ce l'hai messo...»

«Sto bene, Em» cercai di convincerla. «Ora è meglio se andiamo in classe, poi a pranzo mi racconterai di questo James.» Mi dipinsi un sorriso tirato in volto e sperai di risultare un minimo credibile, ma dall'espressione di Emily capii di non averla fatta franca, eppure mi lasciò andare.

«Va bene. Ci vediamo dopo...» accettò con riluttanza, osservandomi con curiosità e sospetto finché non mi allontanai del tutto e feci per raggiungere la mia aula.

Camminai a passi svelti lungo il corridoio, tentando di tenere lo sguardo basso verso le mie Converse nere per non rischiare di incrociare sguardi indesiderati. La paura mi attanagliava le ossa, avevo il terrore di impigliarmi negli occhi di quei due fratelli che non vedevo da anni, e temevo che potessi affondarci di nuovo.

La verità era che non potevo crederci. Nella mia mente, ancora non stavo realizzando che quei due fossero davvero qui. Cercavo di convincermi di essermi sbagliata, di aver capito male.

Sentivo i palmi delle mani sudarmi, scivolose e bagnate.

Temevo per me, a dirla tutta.

Mi fiondai nell'aula appena la vidi e corsi in prima fila. Non era presto, ma nemmeno così tardi da non potermi permettere i primi banchi.

Tirai fuori un quaderno e una penna dallo zaino, oltre alla mia bottiglietta d'acqua, e attesi che la stanza si riempì di bisbigli e suoni che mi facevano intuire che stavano entrando delle persone.

E proprio quando cominciavo a pensare di averla scampata, la classe si ammutolì. I sussurri cessarono e un silenzio assordante si diffuse tra le quattro mura, vuotandomi lo stomaco e riempiendolo di ansia. Mi voltai di scatto, in direzione della porta d'ingresso che sbatté furiosamente sul muro, creando un rumore sordo che riecheggiò tra le pareti del mio stomaco in subbuglio.

Ed era lì che li vidi.

Con la loro altezza smisurata e il loro fisico possente, i fratelli Myers emergevano fieri nell'aula, attirando l'attenzione di ogni singolo essere vivente presente in questa stanza.

Presi un bel respiro mentre le mani iniziavano a tremare nuovamente.

Non volevo guardarli. Non volevo davvero, ma erano così diversi da come li ricordavo, così... strani.

Il primo che attirò il mio sguardo fu Hayes Myers, alla sinistra del fratello.

Mi si mozzò il fiato.

Un cespuglio di capelli castani e ricciolini gli solleticavano la fronte corrucciata, qualcuno finiva pure davanti agli occhi chiari, quasi trasparenti. Ricordavano il colore di un lago ghiacciato d'inverno, erano così celesti e, allo stesso tempo, tenebrosi che mi fecero venire la pelle d'oca. Non guardava me, ma fissava davanti a lui con lo sguardo carico di fierezza e prepotenza, il classico che lo contraddistingueva anche anni orsono.

Le sue iridi mi erano sempre sembrate uno specchio dannato, un pozzo profondo in cui sarei potuta affondare senza nemmeno accorgermene. Sembravano rispecchiare la sua anima e anche quella di tutti gli altri. Se li osservavi per troppo tempo, rischiavi di vedere i demoni della tua mente prendere forma all'interno di quegli iceberg tenebrosi.

Scesi fino alla mascella contratta, ricoperta da un accenno di barba scura, dello stesso colore dei capelli, fino alle labbra carnose e rosate strette in una linea retta.

Indossava una felpa grigia che, all'apparenza, non sembrava nulla di che, ma che riusciva a valorizzare il suo fisico statuario. Le braccia erano strette nel tessuto leggero e si riusciva a percepire i muscoli flessi degli avambracci. L'addome era piatto e il bacino stretto, fino alle cosce muscolose ricoperte dal tessuto dei jeans neri.

Hayes era un adone, alto ed erculeo, mentre Harvey più basso di qualche centimetro e aveva un fisico più atletico e slanciato, meno muscoloso rispetto al fratello.

Erano gemelli, sembravano quasi identici per ogni cosa, se non fosse per il colore degli occhi. Harvey li aveva scuri come una notte senza stelle, un cielo oscuro che faceva venire i brividi solo a guardarli.

Erano il ghiaccio e il fuoco.

Il bianco e il nero.

Così simili, eppure così diversi.

Ma ero sicura che dentro avessero lo stesso inferno.

Distolsi lo sguardo rapidamente e mi costrinsi a portarlo sulle mie ginocchia, tutto pur di non affogare in quelle iridi che sembravano volermi attirare come una calamita.

Tirai un sospiro di sollievo quando i sussurri ricominciarono, perché ciò significava che i fratelli avessero preso il loro posto, lontano da me, e che non mi avessero vista, o quantomeno riconosciuta.

Era possibile, che non mi riconoscessero?

Una ruga m'increspò la fronte a questa domanda, ma decisi di ignorarla quando arrivò il professore di Diritto penale, in giacca e cravatta, pronto a iniziare la lezione.

«Buongiorno a tutti, ragazzi» disse l'uomo sulla quarantina. Non era il classico docente che si vedeva nei film, quello vecchio e raggrinzito, bensì un uomo molto bello e affascinante, con i capelli corvini che gli ricadevano lisci sulla fronte e gli occhi di un castano così chiaro che sfociava nel verdognolo.

Be', almeno la lezione sarà più interessante.

«Sono il professor Hunt e oggi inizieremo a parlare di Diritto penale. È una materia abbastanza difficoltosa, ma anche essenziale per la facoltà che avete scelto.» Si bloccò per un istante, i suoi occhi fluirono veloci in mezzo alla folla di studenti, in un punto indefinito da dove proveniva un certo vociferare. «Ehm...mi scusi, signor?»

«Myers» rispose con una risata il ragazzo, e il mio cuore sussultò.

Eccoli, già dovevano rovinare la lezione iniziata da cinque minuti.

Non erano così diversi da come li ricordavo, allora...

«Signor Myers, se vuole parlare con la ragazza lì di fianco, potrebbe anche uscire dall'aula per non disturbare gli altri.» Il tono del professore era scocciato, infastidito da quella piccola mancanza di rispetto.

Mi voltai per osservare ciò che stava accadendo e vidi Hayes intento a discutere con una ragazza con il caschetto moro e le labbra carnose tinte di rosso, che non sembrava molto imbarazzata nonostante fosse al centro dell'attenzione.

Se fosse successo a me, ora sarei paonazza.

Lei continuava a ridacchiare, allegra a spensierata, mentre Hayes le sussurrava qualcosa all'orecchio.

Dei risolini presero vita all'interno dell'aula, tutti li stavano guardando.

«Oh, certo, professor Hunt, esco subito...» disse con tono lascivo, prima di prendere la ragazza per mano e fiondarsi fuori dalla stanza.

Che schifo, saranno andati in qualche bagno squallido del college.

Hunt sospirò. «Bene, visto che abbiamo già tolto i problemi, iniziamo.»

Ed io, nel frattempo, avevo capito una cosa fondamentale: dovevo stare alla larga dai fratelli Myers. Perlomeno, da quello con gli occhi chiari che sembravano due specchi rotti. 

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