92.Una semplice rosa rossa
L'assenza di Yoann in mezzo a noi pesava come un macigno. Non mi sentivo più male come prima della nostra "chiacchierata" sulla spiaggia; tuttavia, mi inquietava il pensiero che il mio amico avrebbe dovuto passare tanto tempo in mezzo a quella gente, lontano da me e Padma. Per di più, se soffrivo la sua mancanza già in quel momento in cui lui era semplicemente andato a dare conferma a Cèsar per l'iscrizione, cosa avrei provato a stare lontana da lui per mesi? Fin da quando ero "diventata" Ephura, la sua presenza al mio fianco era sempre stata una rassicurazione del fatto che non ero la sola principiante, l'unica a ignorare ancora così tanto. Anche solo quei piccoli sorrisi e quelle emozioni di comprensione che trasmetteva ogni tanto erano sempre sufficienti a farmi sentire a mio agio.
In quel momento, stipata in mezzo a Elias ed Ewan, invece, non ero mai stata più fuori posto, e continuavo a chiedermi come fossi finita in quella situazione. Quando eravamo entrati in quel vagone, la metro era ancora vuota, così, in previsione della folla soffocante che sarebbe subentrata non appena fossimo giunti nei pressi del centro città, avevo seguito l'istinto di sedermi vicino a Ewan prima che fosse troppo tardi; mai avevo compiuto azione più stupida in vita mia.
La metro non era ancora ripartita, infatti, che Elias si era già stipato dall'altro lato, facendomi così capire che gli avevo rubato il posto. Avrei voluto spostarmi, scusandomi per l'equivoco, ma, innanzitutto mi era impossibile perché ormai l'antro era strabordante di passeggeri, in secondo luogo non avevo la più pallida idea di come comportarmi con quei due. Il mio allontanamento gli avrebbe fatto piacere o, al contrario, li avrebbe indispettiti? Preferivano che lasciassi loro i giusti spazi, oppure non gli dispiaceva la mia presenza e anzi, desideravano conoscermi meglio?
L'uno mi dava l'idea di pensare una cosa, l'altro l'opposto; nell'insieme, mi facevano sentire costantemente a disagio e insicura, soprattutto quando erano insieme. Pur non avendo idea di quale fosse la vera causa, sospettavo si trattasse di Elias. Mentre Ewan solo mi irritava un po' la maggior parte delle volte che apriva bocca per via del suo comportamento sfrontato e un po' immaturo, Elias era davvero insopportabile e a tratti quasi inquietante, senza contare che non mi fidavo di lui, e sentivo che mi detestava anche se non sapevo perché. O forse semplicemente detestava chiunque non fosse suo Adelpho.
Adelphi. Era forse per via di quel legame di cui mi avevano parlato tempo fa che li sentivo così distanti e intimidatori al tempo stesso? Il loro rapporto era talmente potente da dare l'impressione di rendere insignificante qualsiasi altra relazione umana e quindi evitarla? Scacciai in fretta il pensiero, ritenendolo sciocco; non aveva alcun senso pensare che le cose fossero collegate. Eppure, una parte di me continuò a interrogarsi sulla questione per la durata di tutto il viaggio, che parve assurdamente più lungo di quanto in realtà fosse.
Quando finalmente fu la nostra fermata, mi alzai di scatto, facendo sobbalzare Ewan e sbuffare Elias, e mi diressi spedita verso l'uscita ricongiungendomi con Padma, Liss e i miei genitori, che durante il viaggio erano stati costretti a rimanere in piedi. Una volta al fianco di Padma, fu sufficiente un rapido scambio di sguardi per farmi nuovamente sentire al mio posto.
«Wow!» esclamò estasiata mamma, una volta che fummo tutti fuori.
«Stupenda!» concordò papà. «Non è vero ragazzi? Peccato solo che Yoann dovesse iscriversi proprio oggi a quel gruppo turistico fuori città!»
Nonostante la scusa che avevamo improvvisato quel mattino non fosse molto valida, non sembravano essersi insospettiti più di tanto, non, perlomeno, quanto erano dispiaciuti per il fatto che il ragazzo non avrebbe potuto visitare Casa Batlló insieme a noi.
Di Gaudì, nonostante fossimo a Barcellona ormai da un paio di settimane, non avevamo ancora avuto modo di visitare alcunché, ma finalmente eravamo riusciti a organizzarci, comprare i biglietti e... pagare un occhio della testa, soprattutto considerando che eravamo in sette. A dir la verità non trovavo la presenza di Ewan ed Elias così indispensabile per la loro copertura, ma i due, forse non percependo il patrimonio che i miei stavano spendendo per quella vacanza, non avevano neanche preso in considerazione l'idea di risparmiarci della loro deliziosa compagnia per quel giorno.
Mentre ci dirigevamo verso la coda per entrare nella casa, non potei fare a meno di lanciare un'inquieta occhiata intorno a me. L'ultima volta che mi ero trovata a Passeig de Gràcia, un'intera folla di indipendentisti accaniti aveva permesso a R.R.R. di sfuggirci per l'ennesima volta, nonché di beffarsi di noi. Non preservavo bei ricordi in merito a quella giornata.
Nonostante ciò, ora che potevo permettermi di ammirarlo con calma, dovetti riconoscere che si trattava di un corso dal fascino magnetico, molto curato e regale per via dei bellissimi lampioni che costeggiavano il viale alberato e di tutte le case signorili che lo contornavano. Queste ultime erano alternate da hotel di lusso e negozi di marche famose catalane e non solo, i quali un po' superficializzavano, insieme al sempre numeroso afflusso di auto, taxi e turisti, la quiete maestosa che a mio parere quell'ampia strada meritava.
In un primo momento, infatti, ancora provata dallo sfiancante tragitto in metro, nemmeno mi accorsi dello splendore che emanava l'edificio stesso verso cui ci stavamo dirigendo. E non me ne sarei nemmeno accorta probabilmente, se questo non mi avesse chiamata, in un modo che non trovava spiegazione razionale. Un sussurro, o forse un soffio di vento, un ringhio sommesso, uno scalpiccio di zampe, lo sciabordio dell'acqua, oppure tutte queste cose sovrapposte, che costrinsero il mio capo a piegarsi verso l'alto e a lasciarmi senza fiato in un primo attimo di stupore.
Innanzi a me si stagliava l'immenso. Era una semplice casa molto decorata, decisamente la più curata delle circostanti, eppure, allo stesso tempo, era molto più che quello. A primo impatto trasmetteva una sensazione molto simile a quella che provavo quando il mio sguardo si perdeva nel blu esteso dell'oceano, in una foresta innevata o in una collina verdeggiante: l'impressione di trovarmi a cospetto di qualcosa troppo grande, antico e maestoso per essere compreso pienamente.
Eppure, restava ugualmente un edificio costruito dall'uomo. Forse a darmi quell'impressione era stata solo la luce del mattino che risaltava le sue decorazioni floreali, o la lucentezza dei piccoli balconi a forma di sinuose maschere color avorio. Queste ultime richiamavano quella che sembrava una dentatura sovrastante delle fenditure ovali dalle forme e dai colori ossei. A contrastare il loro candore, vetrate luminose sfoggiavano un'armonia variopinta senza pari, forse ripresa solo dalla copertura con quelle tegole che apparivano come un dorso di drago dai toni azzurro-rosati, fragili come ceramica, ma inscalfibili come scaglie.
Sentii i miei chiamarmi, incitandomi a seguire il gruppo all'interno. Risvegliata dalla mia ammirazione, mi affrettai a raggiungerli e mi inoltrai all'interno insieme agli altri.
Giunta nel vestibolo, non riuscii nemmeno a prestare attenzione alle parole della guida che diceva al nostro gruppo di visita di restare unito e intanto iniziava a presentare lo spazio intorno a sé, perché automaticamente qualcosa mi si era attivato dentro. Qualcosa che mi era familiare, ma che assumeva un nuovo significato, prima velato, ora in procinto di dispiegarsi.
In automatico la mia mente prese ad analizzare la funzionalità dell'ambiente, facendomi così notare come il corrimano delle scale fosse ondulato sinuosamente, senza seguire esclusivamente l'ispirazione artistica, ma perseguendo anche e soprattutto una perfezione di comfort in grado di adeguarsi per chiunque. Lo stesso poteva dirsi dell'illuminazione, delle scale in marmo, delle semplicistiche decorazioni blu sulle pareti bianche e dell'irregolarità che ondulava e ammorbidiva ogni cosa, dandomi l'impressione di trovarmi sotto l'acqua, sensazione che ormai, ovviamente, conoscevo bene.
Si trattava del cebrim dell'architettura, compresi. Non mi era mai capitato di trovarmi all'interno di una costruzione tanto perfetta sia come funzionalità che come struttura, solo le costruzioni dell'Ephia di Barcellona si erano avvicinate. Mentre rivalutavo l'ipotesi che l'autore fosse lo stesso, mi accorsi che delle bollicine d'acqua si innalzavano dalle mattonelle azzurre, salivano lente verso l'alto, e si aggiungevano a quelle del vano scale, dove l'acqua sembrava essere molto più consistente. Battei un paio di volte le ciglia e tutto tornò alla normalità.
"L'avete visto anche voi?" chiesi agli altri Ephuri. Non era la prima volta che mi capitava di avere l'impressione che qualcosa costruito da Gaudì prendesse vita propria, era giunto il momento di verificare se si trattava di illusioni che vedevo solo io, perché la cosa cominciava a preoccuparmi.
"Visto che cosa?" rispose Liss con fare annoiato, forse spazientita dal discorso inutile della guida.
"Quello..." feci un cenno del capo verso le scale, che intanto avevano ripreso a rilucere di riflessi ondeggianti come quando la sabbia veniva raggiunta dai raggi del sole che riuscivano a infiltrarsi tra le onde del mare al mattino. Il mio cuore accelerò il battito, mentre un richiamo mi attirava verso di esse, sussurri incomprensibili che sembravano bramare proprio me. Come nell'Ephia avevo avuto la sensazione che le costruzioni mi intimassero di allontanarmi, quelle scale immerse nell'acqua immaginaria sembravano invece spingermi a salirle per rivelarmi i segreti che contenevano.
Forse quegli accostamenti all'Ephia davvero non erano casuali. Forse Antoni Gaudì era più di quel che sembrava. Forse era un Ephuro, e aveva riempito la sua creazione di illusioni, volte a nascondere qualcosa.
Dalle espressioni confuse dei miei amici dedussi che a loro, invece, non si era palesato niente. La casa chiamava me, e a me sola spettava assecondarla.
"Devo andare. Voi fingete che io sia qui" dissi, poi mi resi invisibile ai Letargianti, e creai l'illusione di me che parlavo con Padma, affidandole silenziosamente il compito di modellarla nel caso i miei genitori, al momento presi dal discorso della guida, avessero voluto parlarmi o chiedermi qualcosa.
"Liv! Che cavolo fai? E che cosa vedi? Ehi, aspetta, torna qui immediatamente! Ci devi delle spiegazioni!" insistette Liss.
"Io... vedo delle cose" dissi, prima di chiudere definitivamente la mia porta a qualsiasi insistenza da parte degli Ephuri. Avevo già salito i primi gradini quando vidi Liss e Padma scambiarsi un'occhiata preoccupata a quelle parole, forse ricordando quanto vedere delle cose si fosse rivelato problematico a Venezia.
Questa volta, tuttavia, la situazione era completamente diversa, lo sentivo: tanto per cominciare ero del tutto in grado di creare io stessa illusioni, quindi non era in atto alcuna maledizione; e poi, dovetti riconoscere, quelle che si dispiegavano ai miei occhi, per quanto le somigliassero, mi davano l'impressione di essere diverse da semplici illusioni. Erano qualcosa... di più.
Accarezzando con le dita il liscio corrimano di legno che dava l'impressione di arcuarsi sotto il mio tocco come una lunga spina dorsale di qualche essere gigantesco, mi lasciai condurre, dalle tartarughe che si dispiegavano dai lucernari, verso il primo piano, dove altre forme ondeggianti mi attirarono verso un soffitto che spiraleggiava avvolgendosi intorno a uno stupendo lampadario dorato che roteava attorno al suo asse, in movimenti quasi ipnotici. Il richiamo si fece via via più insistente, mentre sentivo vibrare di vita propria le forme ossee di pareti, soffitti e colonne. Molte delle decorazioni, mi resi conto, richiamavano raccapriccianti simboli di morte, reliquie di un mostro terrificante. Allo stesso tempo, però, non erano presentate come entità orribili, da temere, ma come parte di qualcosa di più grande e immenso, galleggiante in una realtà perfetta e per questo inesistente, che appariva quindi fiabesca come una favola per bambini.
Ebbi l'istinto di trattenere il respiro, come mi trovassi realmente sott'acqua, quando le scale mi condussero in un pianerottolo che si affacciava in uno spazio acquatico che, dal basso verso l'alto, si estendeva fino al luminoso lucernario sul soffitto. C'era una calma surreale che solo quando dagli abissi si sollevava lo sguardo verso i metri cubi che separavano dal cielo si poteva percepire, eppure perfettamente riprodotta.
Mi lasciai trasportare fino al solaio, dove i colori e i trencadís lasciavano il posto al bianco puro e semplice che caratterizzava la fila di archi catenari, tra i quali filtrava, tramite apposite piccole finestre e fori, la luce naturale del sole. Tuttavia, non avevano l'aspetto di semplici archi, ma di costole di un animale che respirava anche da morto, dandomi così l'impressione di starmi inerpicando nelle viscere di una creatura millenaria.
Quando mi si presentò l'uscita dall'essere, mi trovai non solo al suo esterno, ma al di sopra dell'intera costruzione, a ridosso della terrazza che ne costituiva il capo. Se prima di questa avevo scorto le costole e la spina dorsale, ora mi si presentava il suo dorso, che veniva infilzato da una gigantesca spada dall'impugnatura a forma di croce. Il ruggito di dolore del drago riverberava nell'aria, assieme alla frastornante consapevolezza che era stato il drago stesso colui che impugnava l'arma.
La testa prese a girare, mentre si sommavano in modo confuso tutte le illusioni di cui ero stata vittima fin da quando ero entrata in quella casa assurda: il ruggito del drago, il fruscio e il gorgoglio dell'acqua, le maschere dei balconi, le reliquie, il vortice, le immagini distorte, i trencadís...
Quando la mia mano si allungò, non guidata dalla mia razionalità, ma dallo stesso istinto inspiegabile che mi aveva indotta a seguire il richiamo della casa, per toccare una delle spine tonde che caratterizzavano il dorso, ogni cosa sembrò ordinarsi e assumere un senso.
Il drago, ora vivo e vegeto, aveva sollevato la testa verso di me, e mi fissava coi suoi occhi millenari, limpidi come l'acqua che distorceva gran parte dell'ambiente.
In quel momento, seppi, con assoluta certezza, che quello era lo stesso drago che si era sollevato dalle acque del Canal Grande a Venezia, per poi rovesciarsi su di noi. Era lo stesso drago, serpente o lucertola, che il Paladino e patrono della Catalogna, San Jordì – o San Giorgio –, aveva ucciso con la sua spada per salvare la principessa.
Ma non era veramente un drago, e non era nemmeno San Giorgio. Era tutta un'allegoria, un significato che si mascherava dietro una favola.
Una semplice rosa rossa.
San Giorgio era Arkon, e il drago era il suo potere, la sua corona, che si stava disgregando, sotto il potere della sua spada, in centinaia di piccoli frammenti che si spargevano e volavano tutt'attorno, sospinti dalle onde del mare e dal soffio del vento. Sotto forma di trencadìs si adagiavano, irregolari e bellissimi, su ogni superficie libera.
Il drago non era davvero morto e mai avrebbe potuto.
Perché il drago era tutto ed era niente allo stesso tempo, era la condanna ma anche la salvezza. Le sue reliquie erano perfette come la natura che ci circondava, erano la speranza del ritorno a un antico potere e allo stesso tempo del raggiungimento di qualcosa di magnifico che solo quando si fossero ricomposte avrebbe avuto luogo.
Quella non era semplicemente una casa: raccontava una storia, ricordava il passato; trasmetteva un messaggio invisibile, mai veramente compreso nella sua interezza; omaggiava la morte, la vita, la speranza e la silenziosa quiete nell'immobilità dell'acqua.
Mentre questa verità, che quel luogo aveva deciso di manifestare proprio a me, mi apriva gli occhi, notai un piccolo trencadìs allontanarsi dagli altri, sospinto dal vento. Distesi una mano per afferrarlo ma quello mi sfuggì tra le dita, come prendendosi gioco di me, e sparì per le strade della città. Che significato aveva? Rappresentava il frammento che cercavo? O indicava una strada da seguire che avrebbe condotto a esso?
Troppo tardi, in ogni caso. Ormai mi era sfuggito, e forse questo non era nemmeno un male.
C'era qualcosa, nel pavimento che calpestavo con i piedi, nella superficie liscia dei trencadìs che stavo sfiorando con le dita, nel soffitto che vorticava intorno a quel lampadario nel piano nobile, nell'acqua che tremolava sotto la luce del sole generando forme e colori stupendi, nelle maschere che mi osservavano da ovunque, e nella quiete di quella mattina, che mi faceva sospettare che forse ci eravamo sbagliati.
Forse ricomporre la corona non avrebbe portato alcun male.
Forse era proprio quello che andava fatto.
Lo so, è un capitolo un po' confusionale e strano, ma, mi dispiace, non poteva essere fatto diversamente. Se non siete riusciti a seguire tanto bene i ragionamenti di Liv non vi preoccupate perché è una cosa voluta quasi (cioè si deve intuire qualcosa ma non del tutto, perché è una cosa che lei intuisce dalle immagini che vede e che solo a lei possono trasmettere questi significati poi saprete perché).
Il significato del titolo è riferito invece alla leggenda catalana di San Giorgio. Si narra infatti che dal corpo del drago che uccise per salvare la principessa si originò un piccolo prato di rose rosse, che da allora sono il simbolo del patrono. Qualche rosa rossa era apparsa anche nella visione che Will aveva trasmesso a Liv per indicarle di andare a Venezia, ed è per questo che lei qui fa questo collegamento. Tra l'altro le rose rappresentano anche simbolicamente dei segreti (l'ho scoperto solo ultimamente ma vabbè), e quindi dimostrano che ci sono dei misteri dietro il tanto amato patrono della Catalogna... già, ma quali? 😇
Intanto, giusto perché non ho ancora fatto abbastanza pubblicità a Barcellona, vi metto qui sotto un video che viene proiettato dentro a Casa Batllo, che mi è stato molto d'ispirazione! Mettete Liv al posto della biondina in rosso ed ecco praticamente già scritto il capitolo🤣
Bene, ora la vera domanda che dovreste porvi: Il trencadìs volato via... DOVE SARRRÀ ANDATO??
😇😇😇
꧁ꟻAᴎTAꙅilɘᴎA꧂
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