37. Inferno di fuoco




But I saw you there
Too much to bear
You were my life
But life is far away from fair

No Time To Die - Entropy Zero

Londra si srotolava dietro i vetri oscuranti dell'auto. I polsi dolevano da quanto era stato stretto il laccio con cui me li avevano tenuti legati fino a poco prima. Ma era una sofferenza opaca e distante, era un pizzicore silente che mi aiutava a rimanere presente. Così come quello alle costole, alla spalla destra e dentro il petto.

Ero ricolma di ammaccature fisiche che mi distraevano dalle lacerazioni interiori.

Nicholas...

La sua bocca screpolata che si depositava su pelle che non era la mia.

Non riuscivo...

Le fossette di Ivan mi promettevano salvezza, il desiderio finale di chi si appresta a sacrificarsi.

Non potevo...

I capelli le danzavano intorno alle spalle, leggiadri, delicati, così come quel timido calore che i suoi occhi sottobosco trasmettevano, ricolmo di vergogna e parole non dette, ormai disperse nelle strade errate che ci avevano separate.

Mamma...

Profumo legnoso, barba rossastra, naso contro naso. «Tu non sei sbagliata, vai bene così come sei.»

Papà...

Occhi nocciola che pretendevano da me ciò che io non sapevo dar loro, parole affettate; sorriso candido, note che mi abbracciavano il cuore. Alice, Emily...

Non riuscivo...

Il mondo era un gorgo, io una scialuppa, le acque mi sommergevano. Non respiravo. Mi tirava giù, ero impotente. Aria. Non avevo appigli, non avevo scampo. Nessun corpo, nessun polmone. Aria.

Annaspavo.

Avevo bisogno di ossigeno, di gonfiarmi di vita... ma non mi sentivo. Dove sono i polmoni, dove sono...

Io...

...ci sono?

«Ehi!»

Un dolore lacerante alla gota mi stordì, gettandomi il volto di lato. Sollevai il mento, confusa; il pulsare gravoso del sangue che si addensava nel lato della faccia colpita. Un saporaccio mi irrorò le papille gustative.

«Respira?» indagò qualcuno dal sedile anteriore della vettura.

L'uomo accanto a me aveva la barba ispida color cenere e due occhi incavati che mi scrutavano con insistenza.

«Sì.» I tratti duri, separò le labbra, lo sdegno ad arricciargli il labbro superiore. «Non ci riprovare.»

Mi massaggiai la mandibola pulsante, la pelle era bollente dove doveva avermi dato il ceffone.

Quando sollevai lo sguardo mi accorsi che ancora mi stava fissando e qualcosa era mutato in quegli occhi incavati, a tratti illuminati dalle lame di luce artificiale che si infiltravano dall'esterno.

«Guarda fuori.» Indicò con il mento oltre il finestrino. «Concentrati sul mondo fuori se quello dentro è una merda.»

Aggrottai le sopracciglia; la pelle delle dita era scivolosa, sudata ma fredda. I muscoli dei polpacci erano rigidi, come se li avessi tenuti in contrazione fino a poco prima, così come le spalle.

«Non lasciare che vincano» bisbigliò la guardia, un accento gorgheggiante, un trotterellare sulla sillaba centrale.

Lo fissai, confusa. «Chi?»

Non mi guardò quando, sempre in tono basso, rispose: «Gli attacchi di panico.»

Inspirai, la lingua si incastrò nel palato tanto era arido. Non me ne ero accorta... non avevo capito. Aprii e chiusi le dita svariate volte.

Così feci come mi aveva detto: portai l'attenzione sulle sagome familiari dei palazzi che si sovrapponevano l'un l'altro oltre i vetri, le persone che camminavano sui marciapiedi nell'aria serale primaverile, forse godendosi vite piene e futuri ricolmi di aspettative. Lampioni antracite, chiese dalle guglie appuntite e aspramente gotiche che sembravano ravvivarsi nell'incanto della notte, luci calde fuori dalle vetrate stratificate dei pub.

«D-dove siamo?»

Il lato del viso mi pulsava con insistenza. L'uomo alla mia sinistra calò il mento, ma non rispose.

Erano passati minuti o ore da quando eravamo saliti in macchina?

«Ci apprestiamo al punto d'incontro» scandì la voce dell'uomo alla guida.

La strada davanti al cruscotto era sbarrata da un imponente transenna dove alcune persone sostavano, ne distinguevo a malapena le silhouette irradiate dalla luce dei fari.

Appoggiai la nuca all'indietro. Avrei solo atteso, non avevo nient'altro da fare. Ivan, mia madre... in fondo era colpa mia tutto quello che era successo. Chissà dove erano ora, se stavano bene. Sicuramente se l'erano cavata senza di me. In fondo ero sempre stata io a metterli in pericolo. Solo io.

«Confermo, autorizzazione completata. Posto di blocco superato. Imbocchiamo Putney bridge.»

Da quando in piena Londra veniva chiuso il traffico su un ponte?

Domande... sempre domande... troppe domande.

Calai le palpebre. La vettura partì scivolando silenziosa sull'asfalto. Inclinai il mento sulla spalla e osservai i parapetti bassi ed esili in muratura, lampioni a tre bracci costeggiavano la carreggiata deserta da entrambi i lati.

L'illuminazione principale si trovava all'esterno del muretto; impossibile da osservare in modo diretto, ne subivamo solo il dirimpetto di ombre.

Putney bridge. Papà mi aveva raccontato che l'illuminazione a led che lo costeggiava dall'esterno per tutta la lunghezza era fatta apposta per le barche che di notte dovevano passare dal basso attraverso gli archetti. Papà.

La guardia alla mia sinistra accartocciò la fronte e si sporse verso il sedile davanti a noi. La tensione si accumulò nell'abitacolo, entrambi gli uomini con me parvero irrigidire i muscoli e trattenere il respiro.

Provai a raddrizzarmi sulla seduta. L'auto rallentò.

Il tempo stesso si dilatò mentre mi sporgevo anch'io.

«Ma cos-»

Il boato fu improvviso e ci colpì in pieno. Un'ondata accecante e luminosa, il contraccolpo mi gettò all'indietro.

Sbattei con forza inaudita contro il sedile, fondendomi col tessuto; qualcosa mi colpì in faccia, alle gambe, alle spalle. Il frastuono mi colmò i timpani fino a silenziarli.

Il mondo divenne quieto... o ronzava?

Sentivo... caldo?

Vedevo nero.

Provai ad aprire gli occhi, sollevare le palpebre, ma erano così pesanti, così gravosi e io così stremata. Il ronzio nelle orecchie divenne sibilante, snervante.

Provai a respirare più a fondo, un dolore lancinante mi trafisse le costole. Mugugnai di dolore, inspirai con forza e tossii mentre un odore acre e asfissiante mi riempiva le narici. Allora annaspai. Spalancai le palpebre.

Il mondo riemerse con i suoi rumori, in un crescendo frastornante. Lo scoppiettìo gutturale del fuoco era così crepitante, intenso, così vivo.

L'auto si srotolò nella mia visuale, ma qualcosa non andava.

Sembrava il ricordo di una vettura: il parabrezza era crepato in più punti e le lingue di fuoco sulla strada oltre di esso illuminavano l'interno di colorazioni arancio intense. Enormi palloni gonfiati invadevano i posti anteriori; la lamiera del tetto era sprofondata e tutto aveva assunto un'intensa e macabra colorazione bordeaux, come se il tramonto avesse infuocato Londra e il ponte su cui ci trovavamo.

Spostai lo sguardo, il fumo mi appannò la visuale facendomi lacrimare. Riuscii poi a mettere a fuoco dinanzi a me la sagoma della guardia che aveva riconosciuto il mio attacco di panico.

La sua figura era irrorata di quel colore bruciante che gli screziava il volto esanime. Un pezzo di vetro gli sbucava dal petto, un odore pungente e ferroso si mescolò a quello del fumo. Gli occhi vitrei, spalancati e senza vita erano rivolti verso di me. La pelle del volto deturpata da schegge di vetro che avevano lasciato squarci da dove scivolavano rivoli di sangue.

Singultai, arrancai, appoggiai i palmi sul sedile ma il dolore alle mani fu immediato. C'erano schegge ovunque, pezzi di oggetti anneriti e bollenti.

«Sam!» Il mio nome arrivò vicinissimo.

Mi voltai alla ricerca della portiera dell'auto. Ero rannicchiata in una posizione innaturale sul sedile, provai a tirarmi su a sedere. Riuscii a sostenermi con un gomito, ma la testa sfiorò quella dell'uomo morto e il terrore mi paralizzò.

Quando l'odore acre del sangue mi penetrò le narici mi piegai di lato e rigettai fuori tutto ciò che il mio stomaco aveva da offrire.

Serrai le palpebre, inspirai placando la nausea, lottai contro il panico che mi stava inondando le vene e arrancai aria nel disperato tentativo di non soffocare. Mi bruciava la gola, mi raschiava il palato, mi doleva tutto.

Sollevai una gamba, l'unica che mi rispose, e iniziai a spingere col tallone contro la portiera. Una volta, due, tre, i muscoli risposero alla mia richiesta.

Cigolio di lamiera. La portiera si spalancò.

«Ivan...»

Il suo voltò annerito e terrorizzato entrò nel varco aperto, incorniciato dal buio della notte alle sue spalle.

«Aggrappati a me.»

Digrignai i denti, implorai ogni muscolo di rispondermi e gridai per lo sforzo. Mi avvolse le spalle, il fiato caldo mi inondò il volto ormai ricolmo di sudore e mi trascinò fuori dalla vettura.

I frammenti sotto di me mi graffiarono le ginocchia, si impigliarono nel vestito, sfregarono contro la pelle nuda delle cosce.

Cademmo all'indietro, sull'asfalto, la brezza della notte mi avvolse, mi gonfiò i polmoni e alla fine inalai con bisogno, sentendo quel nuovo ossigeno dolermi il petto. Tossii svariate volte, appoggiandomi con la fronte al petto di Ivan che si alzava e abbassava contro di me. Sapeva di fumo, di bruciato, di sale; la stoffa era umida, pregna di sudore.

Ma era lì, era vivo.

«Forza, dobbiamo andarcene, Scheggia.» Ansimò.

Provai a mettermi in piedi, ma un capogiro mi colse impreparata a quella scena. Una carcassa, di quello che doveva essere stato un camion, era in fiamme al centro del ponte, irradiando tutta la zona circostante di vampate calde come l'inferno.

«Che cosa è successo?» rantolai stringendo con le dita la maglia di Ivan.

Mi sostenne in vita mentre con lo sguardo sondava tutta la zona intorno a noi, le fiamme cremisi gli macchiavano il volto tumefatto. Gli sfiorai un alone nero che gli circondava l'occhio destro.

«Ivan...»

Riportò l'attenzione su di me. «Non abbiamo tempo, Scheggia. L'intelligence sta arrivando, il diversivo non li terrà fuori gioco a lungo. Abbiamo poco tempo.»

«Sei stato tu?»

Ero sgomenta. Un rumore gracidò nel silenzio mentre qualcosa cadeva in mezzo al fuoco.

«Non proprio.» Mi tirò verso l'inizio del ponte dove un capannello di uomini gridava a gran voce. «L'intelligence sapeva dove ero: avevo un chip nascosto che ho attivato quando ci hanno presi all'aeroporto. Era il mio piano di riserva.» Si voltò a farmi un sorriso sghembo e macchiato di rassegnazione. «Will aveva il compito di tenerlo sott'occhio. Se lo avessi attivato significava che le cose erano andate male e doveva rivelare tutto all'intelligence e contattare tua nonna.»

Inciampai in qualcosa di grezzo che somigliava a un enorme mattone, i vetri scricchiolarono sotto le suole.

«Non me l'avevi detto...»

«Scheggia, non te l'ho detto perché avevo timore che avresti continuata senza di me per paura di essere fermata. Sapevo che avresti salvato tua madre a ogni costo e, se io ti avessi rivelato il mio piano di riserva, magari tu avresti pensato che non ero dalla tua parte...» Sorrise ma una smorfia di dolore gli strappò l'ironia e gli oscurò le iridi rese fiammeggianti dal fuoco alle mie spalle.

«Tu davvero hai pensato che non ti avrei creduto?»

Non disse niente ma tese le labbra in un sorriso amaro che espresse anche troppo.

Sì. Non si era fidato di me.

Inciampai e Ivan mi afferrò al volo mentre il sudore che avevo sulla schiena si raffreddava via via che ci allontanavamo dall'incendio.

«Tu... ti sei liberato da solo di BlackMoon?»

«Sono un agente dell'intelligence, Scheggia.»

«Ma-»

Un'esplosione mi fece sussultare e barcollare. Ci voltammo verso la carcassa infuocata, le lingue di fumo avvolgevano l'ambiente e il fuoco occupava gran parte della carreggiata.

«BlackMoon sarà qui a momenti.» Fissò le sagome dei due camion che sul lungo Tamigi si stavano avvicinando al posto di blocco che avevo superato in auto per immettermi sul ponte.

Ivan si staccò da me e mi fissò negli occhi mentre il suo sguardo scattava dalla carcassa infuocata ai camion che si avvicinavano.

«Tieni.» Tirò fuori dalla tasca posteriore dei jeans una piccola pistola e me la passò.

«Io, non...»

Me la spinse contro il petto. Mi prese i polsi e mi strinse le dita su di essa, fino a quando non acconsentii.

«La mira è la stessa dell'arco. Nathan ha sempre detto che ci sai fare. Tira all'indietro la levetta nella parte alta per togliere la sicura, poi posiziona la parte alta verso di te per caricare la canna con le munizioni. Mira come con l'arco e premi il grilletto per sparare.»

Accompagnò tutta la spiegazione frettolosa con le dita che si appoggiavano su ogni elemento nominato e mimavano il movimento.

Ivan estrasse un'altra arma da dio sa dove e la impugnò con una familiarità disarmante.

Ci voltammo verso l'inizio del ponte: i furgoncini neri si erano fermati al posto di blocco.

Quella era la nostra unica via di fuga.

«Andiamo!» Ivan mi tirò per un gomito nella direzione opposta.

La notte mi abbracciò la pelle sudata e appiccicosa, asciugandola e frustandomi il viso mentre lo seguivo, correndo e inciampando. Ci stavamo dirigendo verso la carcassa.

«Ivan...»

«Dobbiamo superarla.»

Sgranai gli occhi, ma non ebbi tempo di dire altro, cercando di stargli al passo e stringendo la pistola a me, per non farla cadere. Più ci avvicinavamo, più la vampata calda mi intiepidiva il volto e il crepitio delle fiamme si intensificava.

«Oltre il parapetto c'è un rialzo, dobbiamo usarlo per passare oltre. È l'unica via di fuga, Sam» mi implorò urlando per sovrastare il gracchiare delle fiamme. Poi si sporse oltre il parapetto e con un unico agile salto lo superò.

Appoggiai i palmi aperti sulla muratura ruvida, il Tamigi nero come l'inchiostro che scorreva placido sotto di esso. Il bordo su cui mi attendeva Ivan era così fine, così sottile.

«Ora, Sam!»

Scavalcai con le gambe che tremavano, strusciai contro tutta la lunghezza, le braccia irrigidite per lo sforzo, fino a quando non appoggiai la punta degli stivali sul cornicione. Il vento che saliva dal fiume mi fece ondeggiare il vestito e incastrare la stoffa tra le cosce.

«Un piede dietro l'altro, non guardare giù» gridò Ivan, la sua figura davanti a me che mi apriva la strada.

Incamerai aria, scacciai l'acre odore del fumo e iniziai a camminare con cautela, i granelli sopra la muratura che scricchiolavano a ogni passo che facevo. Mi tenni ben aderente al parapetto che mi arrivava alle spalle con una mano, mentre con l'altra continuavo a stringere la pistola al petto.

A ogni passo Ivan mi spronava. A ogni passo gettavo lo sguardo nelle acque sotto di noi e le osservavo fluire.

«Ancora. Manca poco!»

Ormai dovevano averci raggiunto, ma non sentivo le loro voci, troppo intenso il crepitio del veicolo in fiamme.

Dovevamo sbrigarci...

Ma non avevo paura. Non sentivo dolore. Niente battito accelerato. Non sentivo niente...

Osservai i miei piedi colmare quello spazio minuscolo di muratura sotto di me. Il vento mi sferzò il viso, una ciocca mi danzò dinanzi alla visuale. Vedevo solo lo strapiombo sotto i miei piedi, i metri di dislivello che mi separavano dal cadere nelle acqua nere e mi chiesi cosa si provasse... a tuffarsi da lassù.

«Scheggia?»

Sollevai la testa, Ivan era dall'altro lato del parapetto e mi stava tendendo la mano.

Mi afferrò il polso opposto a dove tenevo ancora la pistola e mi tirò su: la stoffa raschiò contro il parapetto, strappandosi e la pelle si graffiò. Ci lasciammo la carcassa fumante alle spalle.

Dinanzi a noi il resto del ponte era sgombro. Una promessa di libertà. Ivan intrecciò le dita grandi con le mie; un'ancora di speranza o un salvagente per non sprofondare?

Iniziò a camminare, accelerò il passo, mi tirò dietro di sé, aumentò la velocità, incalzando il tempo, macinando asfalto, iniziando a correre. La stretta di Ivan sempre più salda.

Si bloccò all'improvviso, gli andai a sbattere contro la schiena e poi guardai oltre, spaesata.

Uno strattone all'altezza dell'ombelico.

Sfumature annebbiate di grigio. In quel limbo tra luci e ombre. In quella tempesta di giusto e sbagliato, bene e male, abbracci e pugnalate. Emozioni annebbiate dalla caligine, storpiate dalla nebbia.

La gioia mi aggrovigliò lo stomaco, il sollievo mi appannò la vista.

E il giudizio finale rischiarò la foschia ingannevole che aveva distorto e annerito, ingigantito e storpiato le mie emozioni... per lui.

Infondo la nebbia copre, ma non fa scomparire.

«Papà...»

Mi esplose il cuore. La barba gli adornava le guance incavate, il fuoco gli dipinse ombre sotto gli occhi scuri.

Avanzai oltre Ivan, l'animo di figlia della luna che mi spingeva nelle luci dell'alba di mio padre. Ivan mi stritolò le dita, bloccandomi, tirandomi all'indietro.

Mi voltai sbalordita, fissai i lineamenti duri del volto, il fuoco che ne incorniciava il patimento sulle guance, adombrando le lentiggini.

«Ivan...»

«Ha ragione, Sam» acconsentì papà.

Voltai la testa con i capelli che mi finirono sulle labbra e si incastrarono sotto le ascelle. Papà estrasse le mani dalle tasche dei pantaloni verde militare che gli fasciavano i fianchi. Aprì i lembi della giacca di jeans che indossava, come per mostrarci il suo interno. Estrasse un'arma e la portò verso l'alto per metterla ben in vista, la canna rivolta verso il cielo, le dita ad avvolgere il calcio della pistola, lontano dal grilletto.

«Ho solo questa, Ivan. Hai ragione a dubitare di me: mi cercate da mesi, sono sparito senza dire niente.»

Avanzai di un altro passo, tendendo il braccio la cui mano era ancora stretta dal mio amico, senza sbattere le palpebre, nel timore di perderlo di vista.

«Non sospetto di te, Nathan. Mi sono sempre fidato. Sono contento che tu stia bene» esalò Ivan lasciandomi andare la mano.

Non attesi, non importava niente, se non di quelle braccia che si spalancarono verso di me, di quel familiare arricciare il labbro superiore in un sorriso intimo che a lungo aveva rischiarato le mie stranezze.

E non c'era nebbia nei miei pensieri, non c'era fumo nel mio animo. C'era solo il suo nome e il sole che in me aveva sempre irradiato.

Mi gettai tra le sue braccia con tutto lo sbaglio che ero sempre stata e che lui aveva sempre insistito a rendere unico.

Tuffò il volto nei miei capelli, premendomi sul cuore. Affondai con i polpastrelli della mano libera nel retro della schiena, come volendo constatarne la consistenza, la vera presenza, il calore.

Appoggiò la fronte sulla mia. I pollici che mi accarezzavano le spalle.

«Quando la luce si spegne?» mi chiese, un bisbiglio caldo sul naso.

Una promessa. Un patto che avevamo a lungo custodito.

«Si ammirano le stelle.»

Distese le labbra, pigro e moribondo, un'emozione senza tempo. Il suo profumo di sandalo, legnoso, muschiato, mi investì.

Separò la fronte dalla mia, serrò le labbra sottili e le sopracciglia fini si avvicinarono tra di loro. Ma il mondo era crudele e il tempo era il nostro peggior nemico.

«Dovete andarvene, delfino mio.»

Mi spinse via. Una dolorosa rassegnazione negli occhi castani. E notai solo allora come il suo viso si fosse smussato, abbandonando quella forma ovale che io avevo ereditato.

Quella cicatrice sul sopracciglio era sempre stata così evidente?

«Papà...»

«È una trappola. Dovete andarvene.» Guardò oltre me. «Loro mi aspettavano, Ivan. BlackMoon mi ha attirato qui.»

Il fuoco alle mie spalle parve sciogliermi gli abiti. Davanti avevo gelo, dietro un bruciore viscerale e dentro... dentro ero una stella che si contraeva per l'esplosione imminente.

«Ti ho visto, Sam, nella foto. Eri così terrorizzata. BlackMoon doveva sapere che ero a Londra. Sapevano che se avessero reso pubblica una notizia con te stretta tra di loro in quello stato, sarei venuto allo scoperto. Mi dispiace così tanto.»

Mi accarezzò la fronte con un pollice.

«La foto...»

Un attimo di certezza, di comprensione improvvisa. Mi avevano fatto la foto con Trevor e Charles, qualcuno aveva detto di metterla online. Lo avevano fatto apposta.

«Ho cercato di non coinvolgerti, ci ho sempre provato.»

Un mondo che mi aveva sempre nascosto, una doppia vita di cui mi aveva sempre tenuto all'oscuro... e che alla fine assumeva un senso. Le lamentele di mia madre, la sua vita vissuta a metà.

Chi aveva avuto torto? Chi aveva ragione?

«Mi spiace di aver fallito. Farò sì che non succeda più, delfino mio.»

«Non è colpa tua, papà.»

I suoi occhi mi sondarono, osservando il vestito che indossavo, i capelli arruffati, il viso che sapevo esprimere tutto quello che avevo passato e che stavo ancora subendo. Desiderai nasconderglielo ma il senso di colpa gli stava già scavando le pupille.

Un frastuono alle nostre spalle, oltre la carcassa dell'auto.

«Andate!»

Mi spinse via, mi allontanò.

«Ivan, andatevene adesso

Ivan mi afferrò le spalle e mi trascinò in avanti. Le mie dita divaricate e vuote strepitarono dell'assenza di mio padre; il suo profumo venne sostituito dall'acre del fumo, la dolcezza sul suo viso venne rimpiazzata dallo scempio della carcassa in fiamme. Mi cigolò il cuore mentre mi voltavo e lo seguivo con gli occhi, opponendomi a Ivan.

No, non di nuovo, non ancora, non anche lui...

Delle sirene squarciarono l'aria notturna.

«Scheggia! Stanno arrivando!»

Ivan intrecciò le sue dita con le mie, ingabbiandomi, non lasciandomi manovra d'azione, non lasciandomi libera.

Le sirene sul ponte, nella direzione in cui tirava Ivan, in quella verso cui eravamo diretti, si avvicinarono. L'intelligence era arrivata? Avevano trovato il segnale di Ivan?

Ma il passo che avrei dovuto fare per lasciarmi trascinare lontano da mio padre, da quell'inferno di fuoco e distruzione, non lo feci.

Bastarono due parole.

«Ti aspettavo» gridò mio padre.

A chi si riferisse lo sapevo già prima di voltarmi.

Perché il mio animo si stava sgretolando, sfilacciando, strepitando.

La stella stava implodendo e il mio cuore brillava del suo nome...




NDA: (breve)

Nathan Cross. Lo so che è dall'inizio che lo aspettavate, mille teorie su di lui...

Eccovelo. Ma come sono lui e Sam... :')

NOTIZIONA: siamo alla fine.

🌘 Che cosa succederà su questo benedetto ponte?

🌘 Avete capito la foto che hanno fatto a Sam che scopo aveva?

🌘 Charles aveva architettato tutto?

🌘 La madre di Sam che fine ha fatto? L'intelligence?



A presto,

Silvi

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