20 Tale padre tale figlio✔️

(Breatha Madiev)

Buio.

Era tutto ciò che vedevo, che non vedevo. Mi circondava, mi abbracciava e mi teneva immobile in una culla di silenzio e tristezza. Avvertivo il mio corpo, ma non lo sentivo mio. Era come se fossi dentro me stessa o fuori, non lo so, eppure tutti i nervi e tutte le articolazioni fremevano in subbuglio.

Mi sentivo rilassata, ma non calma. Era come se avessi dovuto aspettare qualcosa, e quel qualcosa era terribile e insopportabile. Non avevo coraggio di muovermi. Non so se ci sarei riuscita, e in ogni caso ero pronta ad aprire gli occhi?

Non sentivo freddo, ma un leggero fastidio alla schiena e alle gambe. Ero stesa su qualcosa di morbido, o almeno così mi pareva.

Ero avvolta dall'oscurità, ma non mi disturbava.

All'improvviso delle veloci luci presero a vorticarmi davanti agli occhi, accecandomi. Poi iniziarono a formarsi delle immagini sfocate, ma erano troppo confuse e veloci per poterle capire, seguiti da qualche voce nel mio inconscio oramai dimenticata.

Erano dei ricordi.

Il primo ero io a quattro anni, da sola a mangiare all'asilo. Il mio cestino del pranzo era arancio con la figura di un coniglietto stampata sopra. Ironia della sorte, stavo mangiando proprio delle carote e delle patate. Il tavolino di plastica giallo era all'aperto e tutti i bambini si stavano divertendo a giocare e a chiacchierare dell'ultimo cartone animato visto in televisione. Fu lì che incontrai Paige. Venne da me e mi spinse giù dalla sedia, accomodandosi lei. Si mise a mangiare i suoi pomodorini rossi con disinvoltura e io ero lì per lì dal piangere. Mamma mi aveva sempre detto di essere gentile con tutti, di non alzare mai le mani, ma io ero davvero arrabbiata. Papà mi diceva che non dovevo essere cattiva, ma che dovevo sapermi difendere e rispettare. Così mi alzai e spinsi giù Paige dalla mia sedia e mi rimisi a mangiare composta. Lei mi guardò per un attimo e fece una smorfia, poi si alzò e mi si sedette vicino. Ci scambiammo il pranzo e diventammo inseparabili.

O almeno fino a quella sera.

Non avevamo mai litigato in quel modo, prima di allora. E per Michael. Michael!

Il secondo che vidi fu in un giorno di inizio primavera, qualche anno prima. Ero con Paige e Lavanda in un negozio di animali e trovammo due ragazze intente a dare un'occhiata alle vetrine con gli animali. La ragazza con i capelli rossi, Alice, rimase affascinata dalla grossa iguana dentro una teca e provò a toccarla. Anche se era vietato, Paige la seguì. Sharon, l'altra ragazza, infilò una mano nella vaschetta dei topi e ne prese uno per la coda, alzandolo. Lavanda saltò indietro e fece cadere per terra una gabbia di pappagalli, i quali uscirono e volarono per il negozio per ore. Alla fine li ripresero grazie all'intervento della protezione animali. Io, le due ragazze, e le mie amiche fummo duramente punite. Mi ricordo che Sharon si portò via il topino.

Dopo vennero il primo giorno di scuola e l'incontro con Mark, la gita a Brisbane, il primo bacio a Tommy Smith, e persino quando provammo a fumare di nascosto in camera mia, ma la sigaretta bruciò il tappeto e mia madre se ne accorse.

Alla fine venne Luke Leeroy.

C'erano due cose che mio padre amava fare, oltre a vedere il rugby in televisione: a) registrare con la sua videocamera e b) pescare. Lui amava la pesca. Se avesse potuto scegliere di avere le pinne e le squame sarebbe rimasto per sempre in uno dei suoi laghi. Quasi ogni domenica, verso l'imbrunire, mi portava con sé. Io lo odiavo. Preferivo di gran lunga restare a casa e guardare le serie della sera, ma lui no. Odiavo l'odore dei laghi, la puzza, mi annoiavo e lui era sempre zitto. Però non mi rifiutai mai di andare con lui, nemmeno una volta.

Volevo bene a mio padre. Ero convinta che avrei fatto di tutto pur di rivederlo, ma in quel momento non ne fui così sicura. O almeno non più. Non ero pronta alle sue domande sospette sui Petronovik, su quello che era successo con Dominik, alle sue occhiate e alla sua fatica a parlare.

Ne fui certa: mi avrebbe odiato per quello che era stato fatto.

Io ero la sua bambina, la sua principessa, ma la torre in cui ero stata rinchiusa aveva due guardie armate dai capelli neri e gli occhi azzurri. Il drago era rosso, con gli occhi verdi. Il mio regno era troppo lontano. Nessuno avrebbe superato l'oceano di spine e fuoco, nessuno ci sarebbe riuscito.

Mugugnai.

Aprii gli occhi a fatica, sbattendoli più volte per mettere a fuoco quel po' che riuscivo a vedere. Ero ancora in quella maledetta cantina degli orrori, una catena pendeva dalla rete del letto verso di me e io non mi mossi. Una debole luce rosse filtrava da qualche parte, non capii dove e non mi interessò, ma diede ad ogni oggetto una luminescenza in più.

Doveva essere pomeriggio.

Mi doleva tutto il corpo, soprattutto le gambe, il collo e la schiena. La testa, stranamente, era così intorpidita da non sentire niente. Dentro era un buco nero, vuoto e incolto. Non riuscivo a pensare a niente, era come se non volessi farlo. Mossi piano le dita delle mani e dei piedi, tastando la sensazione del lenzuolo sotto la pelle. Provai a mettermi seduta in un lamento e subito notai una testa abbassata, schiacciata contro la pediera del letto. Mi misi seduta e qualche muscolo intorpidito si svegliò dal letargo. Le molle del letto cigolarono e il ragazzo si mosse.

No, quello era il demonio in persona.

Dominik voltò la testa di poco, aveva tirato lontani i suoi capelli dal volto e ora lo potevo guardare chiaramente. Per un secondo fu come se nulla fosse successo, come se fosse venuto a tirarmi qualche frecciatina mattutina, ma poi il mio stomaco si contorse e sentii un pizzicore al bassoventre.

Ricordai tutto.

Si mosse, piegò un braccio per allungarlo, e io scattai all'indietro come se mi avessero messo davanti ad un animale pericoloso. Mi appiattii contro le sbarre di metallo del letto, il cerchio di una manetta mi premeva contro una scapola, ma fu come essere in un altro pianeta parallelo. Il dolore mi riportò cruentemente alla realtà dei fatti.

Mi accorsi che ero ancora nuda e non volevo ancora i suoi sporchi occhi addosso. Tirai il lenzuolo, sfilandolo dalla curva del materasso, per coprirmi e proteggermi, eppure appena notai la chiazza scura, oramai secca e coagulata di sangue, lo gettai via. Non mi interessava come fossi apparsa, se lui mi stesse ancora guardando il corpo o la mia aria smarrita, ma non volevo quel coso addosso. Oramai era il segno indelebile di ciò che era successo, di quello che avevo perso e di chi me l'aveva rubato.

Volevo credere ancora che nulla era successo. Avevo bisogno di crederlo. Mi dissi che mi aveva solo riportata a casa, che mi aveva messa a letto e basta. Non servì. Fu come farsi il solletico da soli; la mia mente sapeva che stavo mentendo e non mi diede pace.

Dominik mi aveva fatto soffrire.

Lui si alzò e la mia bocca diventò arida e asciutta. Era palesemente esausto, gli occhi erano sporgenti, afflitti e iniettati di sangue, due grosse borse scure li incorniciavano. La schiena era curva, la testa china. Pareva che in un silenzioso mantra mi stesse chiedendo perdono. Sapevo che non era così. Lui non sapeva cos'era il perdono.

Fece un passo e io aprii la bocca in un gemito spaventato. Non potevo andare oltre il muro, altrimenti l'avrei fatto. Lui si fermò. Non avanzò per non allarmarmi oltre. Che importanza aveva oramai? Dio, era così stupido!

Indicò un vassoio con del cibo a lato del letto, sul piccolo comodino di legno. C'era della frutta, un bicchiere di latte e persino una brioche. Lo guardai restia. Cibo? Di sicuro avvelenato! Tornai a guardare Dominik. Lui abbassò la mano e si morse il labbro. Non doveva aspettarsi che avrei toccato cibo perché i suoi occhi non cambiarono e non osò insistere.

Come poteva sperare di cancellare tutto quello che aveva fatto con una stupida colazione?

Mi aveva fatto del male, mi aveva picchiata, umiliata, costretta a guardarlo negli occhi mentre era su di me e ora voleva che lo scusassi.

Balle.

Non lo avrei mai fatto. Lui, con la sua famiglia, mi aveva portato via tutto. Non avrei rivisto più mia madre, non avrei mai potuto toccare la sua tomba o consolare mio padre, o Sue. Sapevano quello che era successo e i telegiornali quali notizie stavano distribuendo sui nostri conti? La nostra vita privata oramai doveva essere diventata di dominio pubblico. Immaginai i fiori a Old Lord, le candele accese sul pianerottolo di casa, la faccia pallida di mio padre e quella di Paige. Stava piangendo? Mark le era rimasto vicino o dopo le sue parole mi aveva definitivamente abbandonata?

Mark non lo avrebbe mai fatto. Sarebbe sempre venuto a parlarmi e a chiedermi spiegazioni. Io gliele avrei date. Anche questa possibilità mi fu negata.

Grazie, Gilbert.

Grazie, Michael.

E, soprattutto, grazie, Dominik!

Lui, il peggiore, mi aveva rubato la cosa più preziosa che avevo, che ogni ragazza ha, senza porsi alcun pensiero. Era stato rude e animalesco. Non persi la verginità come si perde un mazzetto di chiavi tra la folla. Lui se la prese con la forza.

«Chanel...» mi chiamò.

Vomitai. Il mio corpo ebbe uno spasmo, gettai la faccia oltre il letto e vomitai. Non avevo mangiato un pasto decente da molto, perciò ne uscì una poltiglia incolore. Tremavo, mi facevano male gli occhi e gli arti. La testa si accese come se avesse premuto un interruttore e la barra venne settata su "pericolo imminente". Troppo vicino. Troppo presto.

Lui si allarmò e fece per avvicinarsi. Io alzai subito una mano, bloccandolo.

«Non avvicinarti» lo avvertii fredda. «Non osare!»

Lui emise un singhiozzo affranto. «Ti prego, io...»

«Devi andartene via!» strillai. Voleva davvero scusarsi? Patetico! Stupido! Bestia! «Lasciami in pace, vai via! Non voglio vederti mai più, mai più! Se ti azzardi ancora a guardarmi o a toccarmi, ti giuro che ti ammazzo! Io ti...»

Una fitta improvvisa all'inguine mi fece smettere di parlare. Cominciai allora a dondolarmi su me stessa, catatonica, il viso cereo. Dominik mi guardò con vera tristezza. Sapeva chiaramente perché stavo così male. Mi ricordavo benissimo cos'era successo la sera prima, e così anche lui. Qualcuno lassù aveva voluto punirlo, il bastardo.

«Muori, muori, muori» ripetevo piangendo, dondolandomi senza tregua.

Ebbe un attimo di incertezza: avrebbe rischiato i miei pianti e urli avvicinandosi e tentando di consolarmi, curandomi le ferite, esterne ed interne? Indietreggiò. Sempre di più, un passo alla volta. Si passò una mano sugli occhi, asciugandoseli, e mi diede la schiena.

Con i miei pianti isterici di sottofondo, afferrò la maniglia e aprì la porta. Quasi cadde all'indietro quando vide la piccola calca di servetti ammassati lì vicino, come una piccola siepe grigia. Lo guardarono in silenzio e non andarono via. Se fosse stato Gilbert lo avrebbero fatto senza pensarci troppo, ma era Dominik. E Dominik era un "solo Dominik".

Loro non si mossero, dovevano essere poco più di una decina e tutti parevano aver piantato le loro mansioni per venire, per capire l'origine di quel pianto. Dovevano saperlo da soli. Molte donne avevano uno staccio umido in mano, un altro aveva le mani sporche di terra.

Tutti, indifferentemente, appena uscì Dominik, lo evitarono duramente come se fosse stato affetto ad qualche malattia altamente trasmissibile. Come Mosè e le acque, la piccola folla si aprì in due, facendolo passare senza fare o dire nulla. Non mi aspettai il contrario: erano servi, nulla più. Gilbert mi aveva già spiegato il loro ruolo all'interno della sua famiglia.

Gilbert era stato furbo. Li aveva presi tutti dalla strada quando ancora questi non avevano niente e nessuno, lui diede loro un posto in cui stare, cibo e calore costante, sempre a patto del loro silenzio. Io non valevo così tanto.

Nessuno mi avrebbe abbracciata. Nessuno avrebbe fatto niente.

Quando incominciai a vedere le prime teste brune sbirciare nella stanza, mi appiattii contro il letto e incominciai a piangere ancora. Piansi per più di un'ora. Alla fine entrarono tutti e, senza guardarsi intorno, circondarono il letto e aspettarono. Qualcuno mi posò una mano sulla schiena.

Riuscii a pensare solamente ad una cosa: «E adesso?»

Adesso, che Dominik finalmente si era preso tutto, che Gilbert mi avrebbe lasciata in pace, che non avrei più potuto andare via, cosa sarebbe successo? Per cosa, alla fine, lo aveva fatto?

Per te.

La sua voce mi rimbombò nella testa. Che patetica messinscena!

Il lenzuolo era a terra e io ero accasciata sul materasso, arrotondata su me stessa come un animaletto. Avevo gli occhi aperti e avevo smesso di piangere da un pezzo, da quando avevo capito che non sarebbe servito a niente. Non avrei riavvolto il tempo, non avrei ottenuto le sue scuse, non mi sarei sentita meglio. A conti fatti, perciò, stavo perdendo tempo.

Una delle tante domestiche vide il vassoio sopra il mobile e se lo mise sulle gambe. Mi porse il bicchiere di latte. Lo presi e lo gettai via. Una urlò, forse perché avrebbero dovuto pulire quel disastro, ma non me ne importò di loro.

«Vy dolzhny yest'» disse lei, rimanendo immobile con il vassoio.

Non le parlai.

Dopo portarono varie coperte e mi ci avvolsero. Non parlarono con me, ma tra di loro, come per darsi delle istruzioni a vicenda. Una portò via il vassoio del cibo, constatando che mai lo avrei toccato se prima c'erano le mani di Dom. Una mi avvolse la coperta sulle spalle e mi mise i capelli dentro. L'ultima mi accompagnò al piano di sopra.

In un primo momento pensai volessero portarmi da Gilbert e chiedere a lui stesso indicazioni, invece mi portarono nel bagno padronale. Da sotto la porta di legno bianco si levava del caldo vapore. Lì furono ammesse solo donne e non avrei dovuto dividerlo con nessuno.

La donna che mi teneva sotto braccio aprì la porta, come se pensasse che ero troppo debole per farlo, e mi fece entrare. La accompagnarono altre due, le quali mi indicarono la grossa vasca già riempita d'acqua calda e di schiuma chiara. Mi aiutarono ad entrarci e buttarono la coperta a terra, come un tappeto. Alcuni secondi dopo mi resi conto di essere di nuovo nuda di fronte a tre estranee, ma la mia reazione non ebbe cambiamenti. Dovevo essere impazzita, altrimenti. In Australia, però, non mi sarei mai comportata così.

Il bagno era grande, forse il doppio della mia camera. Aveva delle piastrelle lucide, bianche color latte, con piccoli ghirigori ad angoli alternati. La vasca era davanti ad una finestra che dava sul giardino interno della Villa. Non lo avevo mai visto. Le tende erano tirate, rasentavano il pavimento come la veste di un fantasma. Non c'era poi molto. Tutti gli altri oggetti erano posati su mensole e ripiani. Si vedeva che non c'era l'affetto di una donna.

Mi guardai intorno, poi immersi le mani sott'acqua e aspettai che la sgradevole sensazione di caldo scomparisse.

Le donne aprirono un armadio e immersero nell'acqua alcuni sali colorati che la dipinsero leggermente di rosa. Mi lavarono piano, con calma, passandomi una spugna gialla sulla schiena e sulle braccia. Mi disinfettarono la ferita al labbro e il piccolo taglio che avevo sulla mano. Quello non me lo ricordavo. Mi misero un cerotto impermeabile e, con efficienza ospedaliera, mi spalmarono sui polsi e sulla spalla sinistra un unguento. Profumava o puzzava, non seppi riconoscerlo. Usarono uno shampoo alla mela verde per togliermi i nodi e pettinarmi i capelli. Addosso sentii un odore familiare. Era lo stesso shampoo di Michael.

La pelle si irritò in fretta nell'acqua e il pizzicore dell'unguento si fece sentire presto. Me ne lamentai, ma loro parvero dire che era normale. Mi accorsi che tenevo furiosamente le braccia attaccate al corpo.

Mi portarono dell'altro cibo, ma ancora il mio stomaco era troppo chiuso per voler mangiare. Scossi la testa. Di sicuro non avevano fatto avvicinare Dominik a niente, eppure io non lo volevo comunque, non mi importava se lo avesse toccato, guardato, comprato o altro. Sul secondo vassoio c'era una piccola fiaschetta di medicina rosa.

La giovane donna, o almeno quella fra le tre, si chinò vicino a me, fuori dalla vasca. Si alzò la veste lunga per non bagnarla a terra e si appoggiò con le ginocchia, sporgendosi in avanti. Mi prese la mano per attirare la mia attenzione. La sua pelle era leggermente ruvida, con i calli del lavoro, ma era calda e profumata.

Indicò il piatto e la medicina.

«Dlya vas» disse.

La prese in mano. Era più piccola di una mentina, di un colore rosa scuro, ovale. Capii velocemente di cosa dovesse trattarsi. La guardai e poi rivolsi i miei occhi alla finestra, sperando che qualcuno l'aprisse e facesse entrare un po' d'aria fredda. C'era una luce forte, intensa, e le piastrelle bianche parevano brillare tra i riflessi e la schiuma colata in giro. Cominciavo ad avere decisamente troppo caldo.

«Chanel» mi chiamò la domestica vicino a me. «Pozhaluysta.»

«Non la voglio» mi spazientii.

Lei aprii la bocca. «È per la tua salute» disse.

«No, invece. È per la sua» risposi.

Mi resi conto in quel frangente che non sapevo se Dominik avesse usato delle precauzioni con me. Paige mi aveva detto che la prima volta è difficile rimanere incinte e che il preservativo è molto scomodo, ma la cosa non mi aveva mai interessata. In ogni caso, il problema era mio, non di Dominik.

Mi bagnai il viso con le mani e mi strofinai gli occhi per il sapone che ci era andato. La donna rimase con il palmo della mano aperta, attendendo pazientemente qualche secondo prima di alzarsi e dare a una sua compagna il medicinale ancora intatto. L'altra la guardò con dubbio, ma lei alzò le spalle e le disse qualcosa. Non insistettero più.

Le altre due donne cominciarono a pulire il bagno, a mettere via le cose e a pulire l'acqua che avevo fatto colare giù dalla vasca. Mi gettarono occhiate stizzite dal mio comportamento e confabularono tra loro in russo. Sapevo che stessero parlando di me, era ovvio.

Io mi domandai: Cosa pretendete?

Non erano loro senza famiglia, senza amici e senza poter parlare la propria lingua. Non erano state rapite, portate qui e costrette a restarci. Loro avevano deciso di restare. Non erano state picchiate, insultate e legate, quindi cosa pretendevano da me?

Rimasi chiusa in me stessa, a fissarmi le unghie a mollo nell'acqua e la pelle delle dita oramai piena di grinze. La donna di prima venne ancora vicino a me e mi accarezzò nuovamente la mano.

«Come ti senti?» mi domandò.

«Parli la mia lingua?» le domandai.

«Più o meno. Loro no. Come stai?» ripeté. Alzai le spalle. Capì che non sarebbe andata a parare da nessuna parte, quindi alzò una mano e me la porse. «Breatha.»

Cosa? Era il suo nome? Evidentemente.

Le strinsi la mano.

«Chanel.»

Quanto ero stupida? Ero la figlioccia del suo capo, era ovvio che conoscesse ogni cosa di me. Lei comunque mi sorrise e fece finta di non conoscermi. Un gesto carino.

«Chanel, devi mantenerti in forze» mi fece notare. «Devi mangiare qualcosa.»

«Non ho fame in questo momento» mi scusai.

«Lo so, ma il tuo corpo ne ha bisogno. Devi stare meglio» mi spiegò.

Per chi? Per quale motivo dovevo stare meglio? Cosa mi aspettava una volta guarite le ferite? Un duro e freddo mondo da affrontare? Io non volevo.

«Ora sembra dura ma... prima o poi tutte ferite si rimarginano, anche le più profonde. Ci vuole tempo.»

Breatha. Che nome buffo, vecchio, quasi da nonna. Era una bella donna, quasi sulla trentina. La sua pelle era color caramello intenso, un viso delicato e leggermente allungato, gli occhi dal tratto occidentale, tra il marrone e il verde e le labbra carnose e marroni. Teneva i capelli legati, ricci e folti. Doveva essere proprio bella e non capii proprio come avesse fatto a trovare questo posto oscuro. La divisa che portavano tutte le domestiche era la stessa, grigia, con un grembiule bianco e la gonna ingombrante.

«Tempo» ripetei.

«Da. Sì.»

«Tempo.»

«Tu non... devi sentirti triste, o usata. Provi dolore. È normale, tutti lo provano. Tu pensi che questa è la fine, anche io l'ho pensato tante volte, ma è come stare a mollo in una vasca. Rilassati, metti la testa sotto l'acqua. Lascia entrare il dolore dentro di te, come l'acqua nel naso. So che hai paura di affogare, ma vedrai che imparerai anche tu a muovere le braccia e a nuotare. È così, te lo giuro. Ogni respiro e ogni bracciata ti renderà più forte e intrepida. Di sicuro batterai il dolore che provi.»

Io avrei voluto capire dove sbagliavo, dove avrei trovato la voglia di alzarmi la mattina, di parlare e di vivere la mia vita futura? Se lei diceva così doveva essere vero. Io fino a quel momento stavo girando in torno, perdendo tempo. Non volevo più farlo. Non seppi se sarebbe stato un fatale errore o se quella donna mi aveva appena dato un ottimo consiglio, ma dentro di me sentii che ero stufa di sentirmi triste e debole. Volevo essere finalmente felice e poter dimenticare ogni cosa. Volevo sentire la speranza.

«Tempo» ripetei. «Come si dice in russo?» domandai.

«Vremya.»

Complicato.

«E acqua come si dice?»

Lei ci pensò. «Te lo dico se mangi qualcosa» mi propose e ci pensai.

«Ho voglia di una mela» dissi.

«Mela. Yabloko.»

Io ripetei la parola. Dovevo aver storpiato qualcosa perché lei ridacchiò e le altre due ragazze alzarono la testa senza capire. La strada era davvero lunga e in salita, ma mi era stata data l'opportunità di ricominciare a vivere e non volevo sprecarla per restare nel buio e nella paura.

Breatha scese di sotto, non correndo ma quasi, e quando rientrò in bagno aveva una grossa mela rossa in mano e nell'altra un coltello. Le altre due donne la lasciarono a me, pressoché sollevate. Si sedettero sospirando, sollevando l'orlo della pesante gonna e sottogonna grigia sotto, per evitare che si bagnasse per via del pavimento umido.

Breatha prese uno sgabello di legno e paglia intrecciata, lo posizionò accanto a me e, sbucciando in sottili spicchi la mela, me li passò. Li smangiucchiai piano, costatando che il sapore non era poi così male. Era ancora succosa, anche se notai che aveva un che di diverso dalle altre mele che avevo mangiato in Australia.

Ad ogni spicchio mi diceva una parola che le chiedevo.

«Finestra?»

«Okno.»

«Specchio?»

«Zerkalo.»

«Bagnoschiuma?»

«Oh. Quello si chiama zhemchuzhnaya vanna.»

Strizzai gli occhi.

«Lo so» mi anticipò ridendo e io le feci un sorriso timido.

Usava il grembiule bianco legato attorno alla vita come una piccola tovaglietta. Pareva una nonna a vederla così, l'attenzione e l'amore che metteva in quel semplice gesto, per me, era lo stesso e gliene fui grata.

Improvvisamente la porta del grande bagno si spalancò e sbatté forte contro il muro. Le due ragazze saltarono in piedi, spaventate e una cesta dei panni cadde. Maestosamente, e con passo pesante, entrò Gilbert. La prima cosa che vidi, eclissando completamente la sua cicatrice, fu la benda avvolta attorno alla sua testa e un pallottola di cerotti e garze vicino al suo orecchio destro. I suoi capelli rossi erano scompigliati e senza la sua solita ed ordinata piega. Pareva un mostro creato dal dottor Frankestein.

Mi inquadrò subito e io rimasi a bocca aperta. Breatha si alzò e, di fretta e guardando da tutte le parti, cercò un qualcosa per coprirmi. Trovò appena un asciugamano quando Gilbert, indicandomi, fece spazio a due uomini vestiti di bianco. Questi entrarono in gran fretta, evitando di scivolare, mi afferrarono per le braccia e mi sollevarono di peso. Nessuno di loro badò al fatto che fossi nuda. Breatha rimase a bocca aperta, provò a rincorrermi per lanciarmi un asciugamano e starmi vicino, ma Gilbert la bloccò e lei dovette fermarsi chinando la testa. Le altre due, intanto, erano scappate con il viso rosso, temendo l'ira del loro padrone.

I due uomini erano forti, sorvolavo perfettamente il pavimento e venni trasportata in camera mia. Stesero un telo sul mio letto e mi ci immobilizzarono sopra. Gridai più forte, scalciando. Gilbert entrò nella mia stanza senza dire niente e pensai che avesse voluto ammazzarmi lì, senza sporcare il suo amato parquet, per ciò che gli avevo fatto.

Al suo capezzale ne seguì un uomo. Era basso e tarchiato, avanti con l'età e con pochi e bianchi capelli in testa. Si sistemò gli spessi occhiali sul naso adunco e indossò dei guanti sterili blu. Parlò con Gilbert, agitando le mani qua e là, e l'uomo con i capelli rossi si limitò ad annuire.

«Lasciatemi!» strillai angosciata.

Gilbert mi guardò. «Così non ne caverà niente. La sedi» ordinò.

L'ometto strizzò gli occhi, balbettò qualcosa, una specie di «non serve» in russo, ma Gilbert insistette con i miei strilli acuti e prolungati. Annuì e silenziosamente aprì la sua borsa di pelle scura, tirandone fuori una boccetta bianca e una siringa. Infilò l'ago sterile e fece scivolare il liquido trasparente nel corpo di plastica. Premette sullo stantuffo fino a che non spruzzò il fluido, facendo uscire fuori l'aria.

«Calma, signorina» mi disse con garbo, alzando una mano. «Derzhite yego ustoychivym» parlò agli altri due uomini e loro serrarono meglio le mani su di me.

Il primo mi tenne ferma la testa, impedendomi di vedere il medico e la siringa. Il secondo bloccò le braccia.

«No! No!» urlai.

Appena sentii l'ago infilarsi nella mia coscia strinsi i denti e mi rifiutai di gridare come una bambina. Avvertii la lieve pressione dello stantuffo, del liquido appena sotto la pelle e la frescura del cotone imbevuto di disinfettante.

«Ecco fatto. Tutto finito» mi consolò il dottore. «Ora rimani calma. Non ti farò male. È solo una visita per la tua salute.»

Visita medica riguardo a cosa?

Ebbi a malapena la possibilità di chiedere con gli occhi spiegazioni a Gilbert. Mentre i due uomini mi tenevano ferma, il medico mi sollevò le gambe e, aprendole, non gli fece nessun effetto in particolare. Per un momento credetti che fosse ancora Dominik e la tentazione di liberare le mani e di picchiarlo fu atroce, ma le mie gambe erano addormentate e avevo le braccia bloccate. Mi lagnai, chiudendo gli occhi e guardando altrove.

No, ti prego, pensai con imbarazzo.

Gilbert aveva le sopracciglia aggrottate e le braccia incrociate, stava assistendo ma non si curò della scena come avrebbe fatto in altre situazioni. La sua attenzione era rivolta altrove, quasi funesto. Era palese che volesse sapere se erano ancora così pura e innocente come quando mi aveva lasciata in camera, poche ore prima. Di sicuro il fremito tra i suoi domestici doveva averlo avvertito bene perché aveva subito capito il motivo. Non doveva essere stato difficile, tra le voci, le lenzuola sporche e tirate nella sua camera privata. Qualcuno doveva averglielo sicuramente detto, e se avevano taciuto, Gilbert comunque era troppo intelligente.

Poche ore. Doveva bruciargli.

Il dottore mi aprì meglio le gambe, afferrò le grandi labbra e si avvicinò, strizzando gli occhi. Gli bastarono pochi secondi netti. Mi lasciò e mi chiuse le gambe, voltando la testa lontano da me. Gli uomini in bianco mi lasciarono e io rotolai di fianco, coprendomi.

Il vecchietto si tolse la mascherina dal volto e fece un cenno verso Gilbert.

Urlò con tutte le sue forze. Mi coprii le orecchie, evitando di guardarlo. Pensai che si sarebbe arrabbiato con me, che mi avrebbe picchiato con odio e repulsione, magari prendendo il posto di Dominik e alla fine uccidendomi. Eppure non mi saltò addosso e nemmeno mi si avvicinò. Il suo obiettivo primario non ero io: era Dominik.

La colpa era sua, di tutto e ovviamente non se lo aspettava. Immaginava di tornare a casa, trovare campo libero e invece nulla era andato secondo i suoi piani. Le sue idee, ora in pezzi, dovettero fargli fumare le orecchie. Le intenzioni di Gilbert mi furono adesso chiare. Dominik aveva ragione.

Breatha corse da me, coprendomi con un lungo asciugamano bianco di cotone e mi strinse a sé per attutire le urla di Gilbert. Mi strinsi addosso a lei, soffocandomi nella sua divisa e mi aggrappai a lei con le unghie, temendo che prima o poi qualcuno avrebbe voluto staccarmi a forza.

Il dottore si alzò e con un passo lento e deluso, come uno che assiste all'ennesima perdita, strisciò fuori dalla stanza, seguito dai suoi assistenti. Gilbert rimase al suo posto, strinse i denti e i pugni. Portava un cardigan viola e quando gonfiò il petto quello parve stare per esplodere. Urlò qualcosa a Breatha e lei mi abbracciò più forte.

Uscì sbattendo la porta ed entrambe sobbalzammo.

«Stai bene? Stai bene?» mi ripeté allarmata la donna vicino a me.

Io annuii.

Non le vennero le parole, o non seppe come dirlo nella mia lingua, ma alzò le mani dicendomi di rimanere dov'ero. La sua espressione era carica di paura, tirata, e le sue guance scure persero qualche tono di colore. Sgattaiolò veloce via, scivolando per le scale come uno spettro.

«Dominik!»

Gilbert lo stava chiamando.

E si deve sempre rispondere a Gilbert.

Io mi allarmai. Non sapevo le sue intenzioni, non sapevo cosa avesse in mente di fare, perciò mi alzai in fretta. Lasciai andare il lenzuolo, cercando i vestiti che mi ero comprata il giorno prima. Li trovai sotto la scrivania, protetti. Frugai nella prima busta, a casaccio. Mi infilai una felpa grigia con una scritta rossa e dei pantaloni di una tuta.

«Dominik! Nemedlenno!»

Uscii con un terribile presentimento dalla mia stanza. Gilbert stava andando avanti ed indietro nel salone d'ingresso e in tutta la casa si udirono quei terribili passi.

«Dominik!» urlò per la medesima volta. «Dominik!» Era come un ruggito.

Aspettai da sopra le scale, nascosta, perché le mie gambe non parevano intenzionate a muoversi molto. Tremavano e l'effetto mischiato di calmante e paura cominciò a dare i suoi primi frutti. Sentivo i piedi formicolare. Desideravo sedermi, ma non potevo.

Solo qualche attimo dopo inquadrai Michael. Era immobile, davanti alla sua camera e anche lui fissava con occhi aperti e terrorizzati suo padre. Il suo corpo era rigido, immobile. Girò piano la testa verso di me e sbatté gli occhi, metà stupito e metà sollevato che fossi ancora viva. Non si mosse.

Dondolai piano verso di lui.

Gilbert voltò la testa verso di noi e io ebbi l'impulso di gridare di paura. Percepii la sua vera rabbia, il suo vero io. Era quello l'autentico Gilbert Petronovik. Gli occhi di Michael si svuotarono e si appiattì contro il muro, il suo viso e le sue labbra persero ogni colore. Si sentiva in trappola ed era terrorizzato, glielo si leggeva negli occhi.

I domestici più temerari si nascosero dietro i muri e con le teste sbirciarono un poco per vedere e sentire.

Gilbert era sempre più teso e meno disposto all'attesa. Seppi che se non fosse arrivato da solo sarebbe andato a prendere suo figlio con le sue gambe, trascinandolo per le scale.

Quando lo pensai, vidi Dominik. Venne dalla parte opposta della scale, dall'ala est del corridoio. Si era cambiato i vestiti e, appena lo vidi, un groppo mi salì in gola, arricciandomi i polmoni e il fegato. Chiusi la bocca perché seppi che avrei potuto benissimo vomitare, ma mi trattenni. Era troppo presto per guardarlo ancora.

Gli diede un'illusione. Si calmò e gli ordinò di venire da lui. Gli fece credere che non era al corrente di niente e Dominik scese le scale di corsa. Prima che potesse ripensarci, Gilbert si avventò su di lui e, senza dargli possibilità di scampo e di difesa, gli diede un pugno sul viso. Il ragazzo rotolò e cadde sopra il tavolino dell'androne, rivoltandolo e facendo cadere e rompere un vaso dalle venature verdi. Dominik aprì la bocca e poi la chiuse, restando a gattoni per qualche secondo. Mugugnò qualcosa che non sentimmo, ma Gilbert avanzò verso di lui e pensai: «No, ne ha avute fin troppe!» Gli diede un colpo in testa e lui provò ad abbassarsi e a coprirsi. Tossì.

Gilbert lo guardava dall'alto, come facevo io dalla balaustra del corridoio superiore, ma fui letteralmente spiazzata dalla furia con cui si scagliò sul corpo di Dominik, su suo figlio.

Lo afferrò per i capelli e lo sollevò di peso, mettendolo in ginocchio davanti a lui. Solo allora mi accorsi lacrime grosse come dita scivolavano giù dai suoi occhi. Singhiozzò, provò a liberarsi, ma Gilbert lo lasciò unicamente dopo averlo colpito.

Mi parve di percepire i pensieri di Dominik. Pensava: «Ora mi uccide!» e «Ti prego, smettila» e mi ricordò me stessa, quello che provai e dissi prima della catastrofe. Anche io lo avevo pregato, anche io avevo provato a scappare. Gilbert doveva saperlo. Voleva che soffrisse, esattamente facendogli provare lo stesso.

Come ci si sente, Dominik, a provare a scappare con tutte le tue forze per la tua incolumità senza successo? Fa male, vero?

Strinsi le dita sul braccio di Michael. Le gambe gli cedettero e scivolò contro il muro, a terra, senza proferire una parola. Ad un certo punto mi guardò, mi sillabò una parola russa e poi, con la testa nelle spalle e le mani sulle orecchie, eluse il mondo. Doveva averlo fatto molte altre volte. Doveva essere un'abitudine. Un'orrenda abitudine per un ragazzo ancora non adulto. Tremava.

Mi disse: «Opravdaniye» e io la capii. La dicevano sempre a Gilbert. Significava «scusa, mi dispiace.»

Dispiace anche a me, Michael.

Stavano tutti a guardare, come noi. Nessuno intervenì.

Dominik veniva picchiato a pochi metri da me e io non feci altro che accucciarmi vicino alla parete e sperare che tutto finisse presto. Più io mi nascondevo, più la voragine nel petto cresceva e inglobava tutto il resto. Probabilmente stavo diventando bipolare per il soccorso che volevo dare a Dominik in quel frangente. Sarei dovuta esserne felice, finalmente riceveva una giusta e meritata punizione per ciò che aveva fatto, anche se mai nulla sarebbe stato abbastanza.

Mi chiesi se veramente era giusto.

Era un mostro, dirigeva non so quali affari in quel condomino e, in simbiosi al fratello, copriva il padre. Se fosse stato in minima parte una buona persona, mi sarebbe stato in qualche modo vicino, mi avrebbe protetta e consolata, invece di lasciarmi a me stessa come aveva fatto. Se mi avesse avvertita del mio destino e di quello di mia madre le cose sarebbero andate diversamente? Sentivo che, in fondo, non si meritava quella vita, così come Michael. Lui provava davvero a cambiare. Il loro errore fu soltanto quello di avere un padre del genere, di aver permesso a quell'intruso di plasmarli a suo piacimento. La droga, per Dominik, aveva completato l'opera.

Gilbert lo alzò per i capelli e Dominik urlò forte. Balbettò qualcosa, sempre più forte. Gilbert gli mise una mano sul viso e poi lo colpì duramente. Il ragazzo urlò, piangendo. Un rivolo di sangue gli usciva dalla bocca e colò sul pavimento, disegnando grosse macchie qua e là, seguendo i loro movimenti.

Mi accorsi dopo che il suo labbro era spaccato in due perché Gilbert, in una mossa crudele e disperata, gli aveva strappato via il piercing direttamente dalla pelle. Ora un piccolo squarcio nero e rosso gli tempestava l'angolo sinistro del labbro e il sangue gli colò sul collo e sulla maglia.

Provai rimorso per lui. Rimorso vero.

Urlai contro Gilbert, ma non capii cosa avessi detto. Lui si fermò e lasciò la presa sul figlio. Dominik cadde a terra, vicino ai suoi piedi, nascondendo la testa tra le mani.

«Vuoi scendere, dolcezza mia?» mi sfidò Gilbert. «Vuoi assistere in prima persona?»

Scossi la testa.

«Orsù!» esclamò teatralmente. «Non essere timida!»

Afferrò la nuca di Dominik e lo sollevò in ginocchio, costringendomi a guardarmi da quella posizione sofferente. Dominik strinse la bocca, l'intero mento era rosso, e Gilbert gli spinse via dagli occhi i capelli ribelli che gli erano finiti attaccati alla fronte. Il suo viso bianco era come quello di uno spettro, le guance bagnate, gli occhi pesti e lacrimanti, le mani tremanti.

Volevo dirgli «basta, perché gli fai così male?»

Gilbert gli disse: «Be', figliolo mio, non hai niente di brillante da dire in questa situazione? Ti sei divertito, lurida bestiaccia? Spero che sentirai davvero male perché...»

«Ti prego» piagnucolò Dominik.

«Ti prego, cosa?»

Lui singhiozzò e non disse più niente. Era distrutto, ma mai Gilbert lo avrebbe lasciato, scuse, lacrime o apocalisse. Niente avrebbe dirottato la sua idea. Il padre lo alzò di più da terra e il ragazzo gemette di dolore, incespicando con le braccia e le gambe.

Dominik mi rivolse uno sguardo.

«Ti prego... ti prego» mi supplicò.

«Cosa? Cosa hai detto?» lo stanò Gilbert.

Lui mi guardò. «Aiutami.»

Caddi per terra, coprendomi gli occhi. Il mio cuore non resse a quella visione, eppure non mi alzai, non urlai e non mi mossi per aiutarlo. Non feci niente. Dominik deglutì il groppo amaro della consapevolezza. Sperava che lo aiutassi? Dopo quello che mi aveva fatto?

Patirà quello che ho patito io, mi dissi, ma non stetti meglio.

Anzi, mi sentii un mostro. Uno come loro.

Gilbert lo prese in giro. Era un sadico, un maniaco, un omicida e un approfittatore. I figli erano diventati così logici e freddi solo per non essere mossi dalla sua medesima nostalgia. Per cosa agiva Gilbert, soldi, potere, fama, sangue?

I gemelli erano due automi. Era più facile agire così che facendosi domande e pensare con la propria testa. Dominik aveva osato. E ne pagò le conseguenze. Avevano già perso una madre, altre tre figure materne e un posto vero da chiamare casa. Non avevano mai avuto un padre. Un padre così, non l'avevano mai voluto.

Gilbert fece una cosa che mi storse le budella: afferrò Dominik per i capelli e se lo trascinò dietro, come un cane senza gambe. Dominik, incapace di rialzarsi, strisciò i piedi a terra, urlando. Lo stava portando dentro la stanza delle torture.

«No!» gridai. Gilbert non si fermò. «Per favore!»

Si chiuse a chiave là dentro, senza sentire altro.

Udii da subito le urla soffocate di Dominik e la sua sofferenza era palpabile nell'aria. Non aveva alcuna via di scampo, quello era il regno di suo padre e sapeva come agire al meglio. Tutto fu come lo vissi io.

Occhio per occhio, Dom.

All'ennesimo urlo nemmeno seppi trattenere le lacrime. Era un essere umano e nessuno si sarebbe meritato una punizione del genere, buona azione o cattiva. Mi resi conto che non volevo che lo punisse, volevo dirgli che non mi importava di ciò che aveva fatto, bastava che lo lasciasse, che non lo toccasse più con quelle manacce lerce. Era vero, dunque, non me ne importava? Non molto. Ogni cosa sembrò passare in secondo piano e fu giusto.

Provai a rialzarmi tentennando. Michael provò a tenermi seduta. Corsi giù dalle scale gridando il nome di entrambi, li pregai, ma non successe niente. Era suo figlio, sangue del suo sangue, non una bestia comune di strada. Perché Gilbert li definiva uguali? Di sicuro, se Dominik non lo avesse distratto, ora avrebbe punito me in quel modo, per la fasciatura e la ferita non rimarginata.

Non potei negare – Dio, perché? – di provare, non importa con quanta forza e in che parte, qualcosa per lui. Lo conoscevo oramai da mesi, da quando ci avevano costretti a vivere nella stessa casa. Tra urla, insulti e frecciatine alla fine era impossibile annoiarsi. Come poté trasformarsi in quel mostro senza cuore? Era davvero così, come suo padre? Non ci credevo.

«Basta!» gridai.

Alcuni servi, spaventati o spazientiti, corsero via, fingendo il nulla.

Michael mi trattenne da dietro, mi afferrò le braccia e mi sollevò di peso.

«Non puoi!» Tirai il braccio. «Non puoi permetterlo!»

«Lascia perdere, Chanel» mi intimò lui con voce rotta.

«È tuo fratello!»

Non mi permise di intervenire, di dire la mia o di chiamare aiuto. Si aggrappò a me e poi si tirò indietro, trascinandomi con sé. Io urlai. Urlai forte tutto quello che avevo passato, il dolore, la solitudine, la sofferenza e il freddo. Feci uscire tutta la rabbia che provavo e dopo non rimase altro che il vuoto lasciato dalle loro impronte.

Io e Michael dormimmo ancora insieme, quella notte. Le urla non c'erano più, doveva essere successo qualcosa o eravamo troppo lontani. Mi aggrappai a Michael e lui mi lasciò ferirlo e altro. Abbandonò se stesso e chiuse la mente. Quando lui chiuse gli occhi, i miei erano ancora vigili e all'erta. L'odore del sangue mi impregnava le narici, la memoria mi lacerava la coscienza.

Quel mondo faceva davvero schifo.

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