12. Début

IT: inizio

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27 maggio 2023
Montecarlo, Principato di Monaco

Con le cuffiette nelle orecchie e una forte melodia rock riprodotta al massimo volume, i rivoli di sudore che mi inumidivano il petto tatuato e il controllo della respirazione, riuscivo a distaccarmi da ogni pensiero scomodo maturato nelle ultime settimane. Le questioni finanziarie della Woodward Entertainments, la guerra in affari contro Desirée e l'antipatia maturata nei confronti della sua cerchia ristretta erano voci silenti, in quel momento, e la pace regnava sovrana.

La pioggia primaverile picchiettava sulle imponenti vetrate della palestra dell'Hermitage; le gocce facevano a gara per raggiungerne il punto più basso, tracciando solchi ipnotizzanti. Tra le nuvole cupe e il mare grigio potevo scorgere un po' di familiarità, un briciolo di quotidianità londinese che mi faceva obliare della corsa faticosa sul tapis roulant.

L'unico chiodo fisso era l'episodio avvenuto il giorno precedente al Bar Américain, dopo il pranzo che Desirée aveva abbandonato per l'indignazione scaturita dai commenti spiacevoli del suo fidanzato e di mio fratello. Valentin era stato fin troppo duro con lei, ricorrendo addirittura a sfruttare la forza fisica affinché lei si piegasse al suo volere.

Forse non avrei dovuto immischiarmi nelle faccende di una coppia pressoché sconosciuta, ma un'esperienza del passato era incisa sul mio corpo come una ferita impossibile da rimarginare. Intervenire in quelle situazioni era l'unico modo di risanarla.

I battiti del cuore acceleravano secondo il ritmo rapido della corsa, la fronte diventava sempre più imperlata e, nella mia testa, quei dubbi erano martellanti. Il mio compito era quello di far leva sui punti deboli di Desirée, ma se i miei gesti impulsivi avessero lasciato trapelare i miei? Ciò avrebbe porto il manico del coltello nella sua mano, e io avrei perso l'occasione di rendere mio padre fiero di me.

Erano numerosi gli ostacoli nell'impresa di suscitare l'orgoglio paterno, ma non li sentii mai tanto opprimenti come nel momento in cui una presenza famigliare mi privò di un auricolare; le chitarre elettriche assordanti furono sovrastate dal chiacchiericcio delle poche persone che popolavano la palestra.

«Buongiorno, benefattore» mi derise Michael, già sarcastico di prima mattina. Lasciò cadere la cuffietta, che dondolò mentre l'altra continuò a distrarmi. «Hai dormito con il cuore leggero dopo aver difeso la principessa?» continuò con lo scherno.

Mi trattenni dal rispondergli in maniera brusca, dandogli il tempo necessario per mettere in funzione il tapis roulant accanto al mio. Quando il tappeto iniziò a scorrere alla velocità stabilita, lui diede inizio a una corsa moderata.

«Uno: chi te l'ha detto?» lo interrogai, liberandomi del secondo auricolare. Li arrotolai, sfilando il cellulare dalla fascia da braccio, e adagiai entrambi gli arnesi sul pannello dei comandi dell'attrezzo. «E due: ti interessa così tanto, o è una scusa per infastidirmi ancora?»

«Risposta numero uno: mi è stato riferito dalla brutta copia di Brad Pitt da giovane» ironizzò, riferendosi a Valentin e facendo spallucce con indifferenza. «Risposta numero due: amo l'idea di punzecchiarti, fratellino. Rende tutto più divertente» ridacchiò.

Disturbato dalla sua costante voglia di scherzare, non lo degnai di una risposta e continuai con il mio allenamento. La voglia stava scemando, sostituita dal desiderio di trincerarmi nella suite e aspettare che Erin tornasse dall'asilo, ma mi limitai a chiudermi nel silenzio per ignorare l'insistenza di Michael.

«Terra chiama Woodward» riprese a seccarmi. Scrollai il capo, riconquistando la concentrazione nonostante il fiato ormai corto a causa della fatica. Solo grazie a un briciolo di forza di volontà riuscii a dedicarmi a lui senza dare di matto. «Ti vedo pensieroso» dedusse. «Cosa turba la tua testolina?» rise. «I problemi di cuore che continuano a tormentarti nonostante lei sia dall'altra parte del mondo? O forse è la nostalgia di casa?» tirò a indovinare, ma non mi concesse di rispondere. Rendendosi conto del suo quesito, aggiunse: «Non mi dire che sei in uno degli hotel migliori del mondo e ti manca la catapecchia di nostra madre a Hackney».

Prendermi in giro per la mia abitudine all'umiltà e al tempo trascorso in famiglia era una sua abitudine, ragion per cui le sue domande non furono una sorpresa. Ciò che mi innervosiva di lui, però, era la sua predisposizione al menefreghismo, dalla quale derivava una grave assenza di empatia.

Michael non apprezzava i legami di sangue e d'affetto. La sua fierezza nei confronti del cognome Woodward derivava solo dal prestigio che quest'ultimo aveva guadagnato negli anni, avido di scalare la piramide aziendale di cui voleva diventare il vertice.

Mi sentivo ingabbiato dalle sue supposizioni e, incapace di sopportare quella prigionia, premetti il tasto per spegnere il tapis roulant. Avrei dedicato il resto della giornata ad attività che non includessero le domande insistenti di Michael, quindi mi accinsi a recuperare il borsone abbandonato sul pavimento liscio della palestra. Era vuoto e leggero, lo spazio riempito da una misera bottiglietta d'acqua; nel momento in cui mi caricai del suo peso, però, a gravarmi sulle spalle fu un altro tentativo di mio fratello di importunarmi.

«Sai, Isaac, saresti più sereno se smettessi di pensare solo a tua madre, a Giselle e a Erin» dichiarò.

Il sangue mi si raggelò nelle vene, e nel mio corpo regnò una distesa ghiacciata.

No, non si riferiva a mia figlia. Erin non era solo la mia bambina, ma il ricordo più doloroso incagliato negli anfratti della mia mente.

Afferrai il cellulare e le cuffiette aggrovigliate con un gesto brusco da cui trasparve il mio disappunto. Non riuscivo a celare il modo in cui le sue parole mi avevano fatto sentire, generando un misto d'ira e mestizia, ma mi lasciai tradire da un mero assottigliamento delle labbra.

«Devi tenerle fuori da tutto questo» gli ordinai. «Non ti permetterò di parlare di loro come se intralciassero il nostro lavoro. Sono affari miei, dal momento che a te non è mai importato» sputai.

Approfittando del suo silenzio immediato, iniziai a compiere dei passi in direzione dell'uscita della palestra. All'inizio la sua risposta sembrò palesarsi sotto forma di una semplice indifferenza, quando continuò a correre sul tapis roulant, ma ciò non impedì alla sua voce di riecheggiare nello spazio ampio.

«Se ti piace così tanto parlare di famiglia e difenderla, perché non lo fai stasera?» mi domandò. Il dubbio mi congelò sul posto. «Papà voleva che cenassimo insieme e probabilmente vorrà discutere dell'azienda, ma per quel che mi riguarda puoi portare anche tua figlia» spiegò.

Sbuffare fu istintivo, una dimostrazione di contrarietà mal celata. Eppure, declinare l'invito sarebbe stato al pari di una sconfitta e avrei potuto sfruttare quella situazione a mio favore, per trascorrere più tempo con Erin fuori dalle mura dell'hotel.

Capitolai e tornai a voltarmi verso di lui, avanzando un interrogativo: «Ha già deciso il ristorante?»

«Ieri mi parlava di un certo Caffè Milano, al porto». Ignaro dell'esatta ubicazione del locale, fece spallucce; lo sguardo restò concentrato sul Mediterraneo che vedeva dalla finestra. «Sai che ama la cucina italiana» aggiunse.

«Non faccio i salti di gioia, ma ci sarò» confermai. «Lo faccio solo affinché Erin passi un po' di tempo fuori da qui» precisai.

«Ci vediamo alle otto. Sii puntuale» si raccomandò.

La mia irritazione aveva raggiunto il massimo livello, motivo per cui mi incamminai fuori dalla palestra senza degnarlo di un mero lemma per accomiatarmi. L'hotel era immerso nel silenzio mattutino, intervallato dai saluti cordiali dei dipendenti impegnati nelle loro mansioni, ma mi beai della quiete mentre tornavo alla suite.

Una cena con mio padre e mio fratello sarebbe stata un incubo, vista la loro tendenza a paragonare le persone e giudicarle, ma riponevo fiducia nella distrazione che mia figlia avrebbe rappresentato.

Non potevo vivere il mio soggiorno monegasco come una prigionia, non per due mesi interi. Di conseguenza, raggiungendo l'ultimo piano dell'edificio, capii che avrei dovuto affrontare ogni singolo ostacolo per familiarizzare con esso.

Speravo solo che ciò non avrebbe premuto i tasti sbagliati.

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Allacciai la coppia di bottoni della mia polo celeste nel momento in cui mia figlia varcò la soglia del bagno. Saltellava allegramente, fasciata in un vestito color crema dalla gonnellina a pieghe. Kira le aveva acconciato i capelli in due trecce alla francese, come di consueto, e ora la bambina correva verso di me con una catenina tra le mani.

«Papà! Papà!» mi richiamò. Mi concentrai meglio sulla sua figura, riconoscendo il gioiello all'istante: era una collana che possedeva dal giorno in cui venne alla luce, il due giugno di quasi cinque anni prima. «Mi aiuti?» chiese, porgendomi la catenella in oro bianco.

«Certo, amore, vieni» acconsentii con un sorriso. Per comodità, mi abbassai alla sua altezza e la sollevai prendendola per i fianchi, quindi la feci sedere sulla superficie marmorea del mobile. Prelevai la collana dalle sue mani e gliela allacciai al collo con movimenti delicati. «Ecco qui» dichiarai, una volta finito. Sistemai il ciondolo al centro.

Rivedere quella piccola E ricoperta di zirconi, scintillante sotto le luci calde del bagno, permise a un velo di lacrime di depositarsi sulle mie sclere. Era un colpo al cuore, ogni singola volta.

Per quel gioiello, mia madre aveva speso quasi tutti i risparmi che le garantivano di non finire sul lastrico. Lo possedeva da anni in vista di un evento importante nella vita di tutti noi, che fu sostituito dalla nascita di Erin.

Quante cose sarebbero state diverse, se la cattiveria non fosse stata una qualità intrinseca dell'uomo.

Ritrovandomi sull'orlo del pianto, tirai su con il naso e riconquistai la lucidità necessaria per affrontare la serata.

Aveva smesso di piovere sul Principato, ma le nuvole grigie non si erano dissipate. Tuttavia, l'umidità contribuiva all'intensità dell'afa mediterranea, e nemmeno una misera brezza rinfrescava l'aria.

Erin, ancora seduta sul mobile del bagno, dondolava le gambe e si guardava intorno. Il groppo che si era formato nella mia gola mi impediva di spiccicare parola, complice il ricordo doloroso sorto all'improvviso, ma a sbloccarmi fu il suo abbraccio repentino. Mi circondò con le braccia corte all'altezza dello stomaco, e un sorriso nacque spontaneo.

«Sono contenta di uscire con il nonno e con lo zio» mormorò, la voce ovattata dal contatto con la mia maglia. Con una mano le carezzai la testolina da cui partivano le trecce rosse e con l'altra, ancora libera, finii di prepararmi spruzzando qualche goccia di profumo. «Vorrei che ci fosse anche la mamma» aggiunse, rattristandosi.

Erin era molto trasparente riguardo il suo stato d'animo e non aveva mai nascosto il modo in cui si sentiva, soprattutto con me. La mancanza di Giselle era la causa principale della sua malinconia, vuoto che mi impegnavo ogni giorno per colmare, ma il sogno di vedere la propria famiglia unita era qualcosa che io stesso non avevo mai realizzato.

Adagiai la boccetta di profumo accanto a noi con l'intenzione di dedicarmi completamente a lei. Ricambiai il suo abbraccio, sperando di farle obliare la nostalgia, e mi sforzai per liberare la voce nonostante gli ostacoli.

«La mamma starà dormendo, a quest'ora» ipotizzai, addolcendo il tono per rassicurarla. «Ma ti prometto che la chiamiamo presto, va bene?» Indietreggiai appena per permetterle di guardarmi negli occhi.

«Non sei arrabbiato con lei perché vuole bene a un'altra persona, vero?»

Era una bambina troppo perspicace per nasconderle ogni sentimento di amarezza; era sveglia e avrebbe scorto un minimo dettaglio fuori posto da un miglio di distanza.

La verità era che no, non provavo alcun sentimento assimilabile all'ira nei confronti di Giselle. Ero solo scombussolato, lasciato attonito dalla velocità con cui aveva voltato una pagina che riportava il racconto di un amore troppo intenso per essere dimenticato. Ma le avrei voluto bene per sempre, e l'avrei amata in silenzio mentre si lasciava cullare dalle braccia di un altro.

«No, piccola, non sono arrabbiato con lei» le assicurai. «Voglio tanto bene alla mamma, come te». Le colpii la punta del nasino con un dito, ridacchiando nella speranza di stimolare un sorriso che lei accennò. «Stasera il nonno ha deciso di andare in un ristorante italiano» la informai. «Potrai mangiare la pizza, sei contenta?»

Batté le mani in preda alla contentezza, le treccine ondeggiarono seguendo i suoi movimenti. «Sì!» esclamò, riconquistando totalmente il sorriso.

La sua felicità bambina sarebbe stata l'unico appiglio della serata, tra ipotetiche affermazioni scomode e i caratteri forti di mio padre e mio fratello. Avrei digerito con più facilità quella pillola amara, con lei al mio fianco.

«È ora di andare, principessa» dichiarai, afferrandola per la vita. La aiutai a scendere dal mobile e la adagiai sul pavimento. «Vai a dire a Kira di darti un coprispalle, l'aria è fresca» le ordinai.

Scomparve, saltellando, oltre la porta del bagno per seguire la mia indicazione; io la seguii una volta accertatomi di non dimenticare nulla. Infilai il cellulare nella tasca del pantalone e mi incamminai verso l'atrio della suite.

Mi specchiai un'ultima volta di uscire: anche mio padre, in quanto capo, ci teneva all'immagine e al modo in cui lui e i suoi figli apparivano in pubblico. Da quando aveva maturato i primi profitti con l'azienda, il perfezionismo aveva iniziato a scorrere anche nelle sue vene e ci aveva contagiato. Persino a noi, cresciuti senza di lui tra palazzine fatiscenti.

Mia figlia riapparve pochi minuti dopo reggendo un coprispalle bianco tra le mani. Non riusciva a contenere la gioia che provava nel trascorrere del tempo con me, sensazione che esprimeva saltellando allegramente, ed era altrettanto felice di stare con suo zio e suo nonno. Aveva un quantitativo spropositato di amore da sperperare che dispensava con ingenuità, anche quando esso non veniva ricambiato.

Le porsi una mano, che lei afferrò senza esitare, e insieme augurammo una buona serata a Kira. La serata ebbe inizio quando varcammo la soglia della stanza, imboccando il primo ascensore libero per dirigerci all'uscita dell'hotel. In pochi minuti, mettemmo piede in piazza Beaumarchais, in cui alcuni turisti passeggiavano agghindati per una cena elegante o una serata di gioco.

Erano pochi i metri che separavano me ed Erin dal locale scelto da mio padre. Il Caffè Milano sorgeva direttamente davanti alla banchina di Port Hercule, in quel periodo occupata dalle tribune in vista del Gran Premio di Formula 1; per raggiungerlo percorremmo l'intera Avenue des Beaux Arts in direzione di Avenue de Monte-Carlo, abbellita dalle boutique di lusso che affacciavano sul mare.

La piazza del casinò era animata dai turisti e dalle automobili imponenti, le cui carrozzerie lucide riflettevano le luci calde dei lampioni che attorniavano la zona pedonale. La casa da gioco e l'Hotel de Paris sembravano frutto della finzione, perfetti come apparivano stagliati sullo sfondo notturno. Ce li lasciammo alle spalle, imboccando Avenue d'Ostende in discesa verso il porto.

Visto di sera, con gli alti palazzi illuminati e le barche che ornavano i moli di piccoli scintillii, il Principato non sembrava la peggiore delle condanne. Forse, tra edifici eleganti e rombi di motori possenti a farmi compagnia, mi sarei potuto adattare senza viverlo come un supplizio. La mia serenità dipendeva solo da chi si aggirava per quelle vie.

Io e mia figlia raggiungemmo i piedi della discesa e svoltammo, approfittando di una scaletta per raggiungere il ristorante. Le imbarcazioni ondeggiavano sull'acqua, di fronte al tripudio di seggiolini blu allestito per l'evento sportivo più atteso del territorio; proprio accanto alle tribune, il Caffè Milano era gremito di persone che consumavano una cena pacifica con vista.

«Ritardatario» commentò la voce irritante di mio fratello, verso cui indirizzai il mio sguardo nell'immediato. «C'era da aspettarselo» aggiunse.

Un respiro in più, un gesto impulsivo in meno. Mi calmai per evitare di sbottare. «Ciao Michael, ciao papà» salutai anche l'uomo che lo affiancava.

«Ciao nonno, ciao zio» quasi esclamò Erin, il tono dolce e gioviale. Scosse la manina nella loro direzione.

Mio padre, con le mani insaccate nelle tasche del suo pantalone sartoriale nero, si fece avanti. Furono pochi i passi che compì per unirsi alla nostra cerchia. «Andiamo, ragazzi? Abbiamo un tavolo prenotato, ci staranno aspettando» ipotizzò.

Io e Michael annuimmo silenziosamente, ed entrambi lo seguimmo all'interno del locale. A differenza degli edifici pacchiani che regnavano nel poco distante quartiere di Montecarlo, quelli de La Condamine erano più semplici, benché di qualità. Il Caffè Milano era un'umile unione di infissi bianchi e dettagli lignei, il mobilio che riprendeva i colori dominanti.

Fummo accolti da un cameriere che, dopo aver prelevato alcuni menu dalla postazione apposita, ci accompagnò al tavolo prenotato. Situato nel dehors di dimensioni ridotte, la sua posizione ci concedeva di gustare un'ottima cena accarezzati dalla brezza marina del porto.

Non tardammo ad accomodarci: Michael si sistemò accanto a mio padre, che si sedette di fronte a me. Al mio fianco, Erin iniziò a giocherellare con le posate per intrattenersi. Il commis ci lasciò i menu e il tempo di sfogliarli, cullati dal rumore del mare e del chiacchiericcio.

Mio padre fu il primo ad approfittare del silenzio che aleggiava al nostro tavolo. Congiungendo le mani con i gomiti inchiodati alla superficie apparecchiata, si guardò intorno e incollò la sua attenzione a me.

«Allora? Non mi racconti niente?» esordì, il tono che lasciava trapelare l'intento di infastidirmi. «Il Principato è un incubo come credevi?»

«Sicuramente, quello schianto con cui passa il suo tempo non lo è» commentò Michael, nascondendo un ghigno.

Da quell'affermazione ottenne un'occhiata torva. A infastidirmi fu la sfacciataggine che palesò, oltre all'opinione poco appropriata che espresse davanti a mia figlia.

«Sto con lei perché è parte dell'incarico che papà mi ha dato» lo fulminai, ricordandogli che il suo scherno era generato solo dall'invidia che provava nei miei confronti. Accantonato il mio fastidioso fratello, mi concentrai sull'uomo che mi sedeva dinanzi. «Va tutto bene» asserii con sicurezza. «Alla fine non è così male, qui. Ho più tempo libero rispetto a quello che ho con te a Londra, dato che Desirée ha molti impegni di lavoro, e il posto è... carino» tentennai sull'ultima parola.

Il Principato era, forse, il fulcro di ricchezza e lusso più antico al mondo. Le strutture più datate erano dei capolavori architettonici, dalle vie della Rocca traspiravano la tradizione e le influenze. Era l'unione di prosperità, fortuna ed eventi, oggettivamente inimitabile, ma non faceva per me.

Preferivo la monotonia di South Kensington, i suoi edifici che non creavano alcun contrasto tra vecchio e nuovo, la tranquillità che vi regnava senza alcun eccesso.

«Vedi? Avevo ragione fin dall'inizio» dichiarò, il sorriso fiero. «Prendila come un'occasione per distrarti e allontanarti dal passato. Ho notato che ti stavi lasciando sopraffare un po' troppo, di recente».

La sua deduzione mi lasciò un gusto amaro in bocca, una pillola che non ingerii. Deglutii il groppo che mi invadeva la gola, consapevole che non obbedire agli impulsi era la scelta giusta in presenza di Erin, e tacqui.

La fortuna mi assistette quando il cameriere tornò al nostro tavolo, pronto ad annotare le nostre ordinazioni. La pace che disciolse il mio fascio di nervi durò il tempo di comunicare le pietanze scelte, ma, quando il commis si allontanò, la tensione riprese a regnare sovrana.

«Papà ha conosciuto una nuova mamma» quasi esclamò la bambina all'improvviso, rialzando lo sguardo dall'argenteria con cui si stava intrattenendo. «È bella, ricca e ha dei vestiti bellissimi! Sembra una Barbie».

«Erin, Desirée non è una nuova mamma» la ammonii, nella vana speranza che le sue parole non fossero la miccia per il sarcasmo di Michael.

«Chissà che ne penserebbe Ellie...» mormorò, canzonatorio. Teatralmente, quindi, finse di essere scosso dalla sorpresa di una rimembranza repentina. «Ah, giusto. È troppo impegnata a organizzare le nozze con il suo tenente» fece spallucce. «Ha preferito una stupida divisa con decine di medaglie a un'American Express platino... Fossi in lei, sarei in imbarazzo. Un militare non potrà certo comprarle un'intera boutique Chanel» scherzò.

Un brivido mi serpeggiò lungo la spina dorsale, che si rizzò sull'attenti. Giselle era un magnete per me, e sentirla nominare in quel contesto aumentò il sapore del veleno che mi stava lentamente uccidendo.

«Sei pregato di farti gli affari tuoi, fratellino. Non rovinare questa allegra riunione di famiglia» gli consigliai, imitando il suo tono.

L'insopportabilità era all'apice, ma avrei dovuto resistere per un altro paio d'ore. Strinsi i pugni. Se solo non fossi stato così educato da rispettare ogni regola, avrei approfittato del dehors del ristorante per fumare. Era l'unica cosa che poteva rilassarmi, in quel momento.

Come per un miracolo divino, Michael si arrese e intavolò una conversazione con mio padre. Parlarono di questioni di lavoro, di notizie riguardo l'azienda, e io sfruttai quella tranquillità per guardarmi intorno.

La luce diurna si stava affievolendo per lasciare spazio alla notte, sostituita dai lampioni della banchina che gettavano fasci dorati sulle imbarcazioni ormeggiate. Gli yacht lussuosi ostacolavano in parte il paesaggio marittimo, ma la visuale non presentava alcun difetto.

Quella sera, però, la quiete non era schierata dalla mia parte, perché il mio sguardo planò su un altro elemento scomodo. Sul retro di uno yacht imponente, infatti, Desirée stava cenando con Valentin. Bastò il breve contatto visivo che instaurammo per rendermi conto che, qualsiasi gesto sbagliato avessi compiuto impulsivamente a causa di mio padre e mio fratello, sarebbe corrisposto a una mano vincente per lei.

I miei errori erano il suo vantaggio.

Riacquisii la lucidità necessaria quando le portate furono servite, e l'unione del profumo della pizza di Erin e dei nostri piatti a base di pesce si librò nell'aria.

«Papà, puoi tagliarla?» mi domandò la bambina, spingendo il piatto nella mia direzione.

Annuii senza proferire parola e la divisi in fette triangolari, quindi gliela restituii. Se la gustò nel silenzio della sua giovane ingenuità: anche se io, suo zio e suo nonno ci scambiavamo frasi taglienti e provocatorie, lei non coglieva i riferimenti.

Mio padre tornò a essere il protagonista; intento a sgusciare un gambero prima di mangiarlo, si schiarì la voce per parlarmi.

«Hai già visitato qualche proprietà?» curiosò. «Tra quelle che ti avevo elencato, perlomeno».

«Il casinò, parte dell'Hotel de Paris e dell'Hermitage e il Country Club» risposi. «Ho già spiegato a Desirée i motivi per cui quest'ultimo rappresenterebbe un'ottima fonte di guadagno più per noi che per loro e forse, in fondo, l'ho convinta» dichiarai con fierezza.

Mio padre annuì, lasciando trapelare un baluginio di contentezza. «Nella nostra offerta, effettivamente, manca l'ambito sportivo. Spero che il tuo impegno porti a qualcosa, Isaac».

Si interruppe per gustare un altro boccone della sua pietanza, il cui profumo mi inebriava le narici. Michael approfittò della quiete per intromettersi nella conversazione.

«Il suo è tutto fuorché impegno, papà» commentò, e il suo sguardo finì su di me. «Ti rendi utile per mera convenienza, e non per giovare all'azienda. Non credi che sia egoista, da parte tua?» mi provocò.

Feci spallucce, indifferente alle sue accuse. «Per quanto mi riguarda, so che voglio trarre il meglio da queste trattative. L'espansione della Woodward Entertainments è un beneficio per tutti, sbaglio?»

«Non ti sbagli» replicò mio padre.

«Soprattutto per te e per la tua smania di altruismo. Cosa ti costa ammettere che lo stai facendo solo per curare le tue ferite del passato? Cristo, lascia quel posto a me. La tua professionalità è sempre più difficile da vedere, Isaac» sputò, privo di sarcasmo e pregno di veleno.

L'invidia era uno dei sentimenti preponderanti nel suo carattere. Se una persona raggiungeva un obiettivo a cui lui ambiva, il supporto scemava e subentrava la cattiveria, con cui attaccava invece di proferire complimenti sinceri.

E aveva il coraggio di etichettarmi come egoista.

Non volevo controbattere in presenza di Erin, quindi mi concentrai sul piatto ancora fumante davanti al mio naso. Ne assaporai un boccone, nonostante lo stretto nodo allo stomaco che quella situazione tesa aveva generato.

«Hai persino il coraggio di ignorarmi» mi derise. «La verità fa male, vero?»

«Mi duole ammetterlo, ma devo concordare con Michael» confessò papà.

L'amarezza depositata sulla lingua aveva sostituito il gusto impeccabile del cibo, tanto che smisi di mangiare per una manciata di minuti.

Michael e mio padre si influenzavano a vicenda da sempre, da quando mio fratello aveva messo piede negli uffici della Woodward Entertainments.

Due serpenti letali che gareggiavano per regalarmi il morso più doloroso.

La gola era occlusa da un groppo e mi risultò difficile rialzare il capo, ora chino a studiare le cuciture della tovaglia bianca. Non avevo il coraggio di fronteggiarli, di guardarli negli occhi. La mia irascibilità sarebbe straripata come un fiume, distruggendo gli argini dell'autocontrollo.

«Non nego la tua bravura, Isaac» riprese l'uomo, «ma è evidente che per te sia uno sforzo. È da quel giorno che ti comporti così. Vorremmo un po' di naturalezza, niente di più».

«Non mi serve la naturalezza» ribattei. «Lo sto facendo solo per mia madre, la donna che tu hai lasciato sul lastrico senza un centesimo per scoparti le ventenni sulla tua fottutissima scrivania» alzai il tono, in un ringhio proferito a denti stretti. Ebbi il coraggio di sfidarlo con lo sguardo, pupille nelle pupille come magneti. «E non menzionare ciò che è successo quel giorno» lo avvertii.

«Cosa vuol dire "scopare"?» mormorò Erin, confusa.

«Niente, amore» la tranquillizzai, addolcendo la voce. «Dimenticati di quella parola, okay?»

Con mia grande fortuna, lei annuì.

«E tutti i soldi che hai sprecato per avvocati scadenti?» continuò a canzonarmi mio fratello. «Cosa ci hai ricavato? Non mi sembra che lei sia tornata».

Strinsi i pugni sul tavolo, ai lati del piatto, che attirarono un'occhiata curiosa di mia figlia. Il fuoco dell'ira stava iniziando a ribollire in me nonostante la sua presenza, e sapevo che di lì a poco il contegno sarebbe diventato un concetto remoto, pressoché astratto.

«Io, quella causa, l'ho vinta» precisai. «So che è il minimo che io potessi fare, ma quei soldi non sono stati sprecati. Anche se uscivano dalle tasche dell'azienda, sono stati la spesa migliore della mia vita» dichiarai, senza paura delle loro repliche.

«Una spesa inutile, Isaac» tornò a infiltrarsi papà. «Migliaia di persone fanno quella fine di tutti i giorni, e il tuo gesto non ha cambiato il mondo. È stato solo un pretesto per spendere più denaro del previsto».

«E ti sembra corretto?!» quasi sbraitai. «Riesci a tollerare di vivere in un posto in cui decine di ragazze vengono uccise ogni giorno?!»

Come potevo biasimarlo. La sua vita si basava solo sul lavoro, sulla sua posizione di CEO e sui guadagni che ne traeva. Se lui viveva in una condizione di benessere, decideva di indossare i paraocchi e ignorare ciò che lo circondava anche se lo riguardava in prima persona.

La pienezza di sé che Michael aveva ereditato.

«No, ma non sarai certo tu a fare la differenza» sentenziò.

Il tavolo tremò nel momento in cui lo urtai, alzandomi in piedi. La rabbia aveva preso così il sopravvento che strinsi il suo colletto della camicia in un pugno violento, e con la forza di un solo braccio lo obbligai a imitare i miei movimenti.

Lo guardai dritto in viso, studiando ogni fattezza che condividevamo. La durezza dei lineamenti e la carnagione chiara ci univano; a distinguerci, solo i segni dell'età che lui portava.

Resse il mio sguardo bellicoso senza controbattere. Anzi, aspettò che io riprendessi la parola per metterlo a tacere.

Mi stavo ferendo con la lama del coltello di cui avrebbe sempre tenuto il manico. E, più sanguinavo, più lui godeva.

«Almeno io ho cercato la giustizia, stronzo» lo apostrofai, l'asserzione seguita da un pugno che gli scagliai all'altezza dello zigomo. Con il tintinnio dei calici che si rovesciarono sul tavolo, attirammo l'attenzione dell'intero locale. «In tribunale c'ero io, davanti a quel pezzo di merda! C'ero io a fare le tue veci, cazzo!» sbraitai, e gli assestai un secondo colpo sul labbro, che spaccai senza ritegno; la sua testa ciondolò all'indietro. Ero tanto accecato dall'impulso violento, da obliarmi dei dintorni. Con una spinta, lo feci ricadere sulla sedia. «Sei inutile, Damian. Non conti niente al di fuori del tuo piccolo regno».

La sua reazione fu inaspettata: munendosi di un ghigno furbo, batté i palmi in un applauso sarcastico.

«Complimenti per la figuraccia. Non sei a Londra, Isaac» mi ricordò. «Qui nessuno ti dimenticherà».

Afferrai la manina di mia figlia per invitarla ad alzarsi, prossimo ad allontanarmi dal locale. In silenzio, si dimostrò obbediente.

L'ultimo dovere fu quello di fulminare mio padre con un'occhiata.

«L'unica figura di merda, qui, l'hai fatta tu» lo rimbeccai. «Lei era anche tua figlia».

I passi che compii verso l'uscita del locale riecheggiarono nel silenzio calato su quest'ultimo. Il personale e i clienti mi fissavano attoniti, il mio corpo era una calamita per la loro attenzione, ma non mi fermai per pensare all'opinione altrui.

Con la mano di Erin stretta nella mia, superai l'uscio del Caffè Milano senza gettarmi alcuno sguardo alle spalle. Aver lasciato mio padre in quel dehors con il naso sanguinante era la più grande soddisfazione.

Il senso di fierezza, tuttavia, scemò quando udii un singhiozzo di Erin. Arrestai la mia camminata lesta, preoccupato dal motivo del singulto, e mi accorsi delle lacrime che le inumidivano le guance rosee solo nel momento in cui la guardai.

«Erin, che c'è?» le chiesi con dolcezza, accovacciandomi per essere all'altezza del suo viso.

Un altro singhiozzo le scrollò le spalle, a cui aggiunse un cenno di diniego realizzato con il capo.

«Amore, dimmi che succede» insistetti, quindi le ravviai una ciocca ramata dietro l'orecchio.

«P-Perché hai fatto male al nonno?» balbettò, incerta. Avrei dovuto capire che il suo lungo silenzio derivava dallo shock. «Perché ti sei arrabbiato così tanto?» continuò.

«Non è niente di importante» mentii per rassicurarla. «Io e il nonno stavamo parlando di una cosa che mi ha dato un po' di fastidio, ma non devi preoccuparti, piccola» proseguii, raccogliendo una sua lacrima con il pollice.

«Non mi piace vederti arrabbiato» ribatté, abbassando ulteriormente il tono. La sua voce era diventata un flebile sussurro sovrastato dal chiacchiericcio che proveniva dal Caffè Milano, ancora troppo vicino.

«Vieni qui» la invitai, allargando le braccia entro cui lei si rifugiò. I capelli morbidi mi solleticarono il viso quando la strinsi a me. «Non mi vedrai mai più così, promesso» giurai. «Ci sono alcune cose difficili da sopportare, amore, ma tu non sei tra quelle» la tranquillizzai. «Va bene?» le chiesi, la distanza tra noi che aumentò affinché ci guardassimo negli occhi. «Scusami» conclusi.

Annuì con la testolina e provvide ad asciugarsi le ultime lacrime con il dorso della mano; riconquistò i respiri regolari e smise di singhiozzare.

Mi si spezzava il cuore nel concepire che avevo fallito anche nel tentativo di preservare il mio autocontrollo per lei. Più volte avevo chiesto a me stesso di trattenermi, di non trasmetterle delle cattive abitudini, ma mio padre e mio fratello erano troppo difficili da sopportare in silenzio.

In loro presenza ero un mare in tempesta, potenziale autore di gravi danni, e solo Giselle sarebbe stata in grado di ristabilire la calma. Ma lei non era lì, e i problemi che causavo erano il mio pane quotidiano.

Tornando a concentrarmi su Erin, accantonai quei pensieri e le afferrai una mano. Le sue dita si strinsero attorno alle mie. «Andiamo a riposarci?» le domandai.

«Sì» mormorò, ancora scossa dalla mia reazione. Un altro battito cardiaco venne a mancare, un respiro si accorciò.

Non proferii una parola: nel nostro mutismo, imboccai la strada che, dopo una breve salita, ci avrebbe riportati all'Hermitage.

Solo uno sguardo diventò una prigionia più dello stesso Principato, solo un paio di iridi verdi mi incunearono da lontano.

Desirée, dal retro del suo yacht, aveva visto e ascoltato tutto. La sua espressione, portatrice di un attonimento che lottava per neutralizzare, parlava per sé.

Tra le mani, ora, reggeva il mio punto più debole. Era cristallino, prossimo a riempirsi di crepe, e nella testa balenava un solo quesito: quanto tempo avrebbe impiegato per colpirlo, distruggerlo e annientarmi?

La mia sconfitta sarebbe stata la sua vittoria.

I giochi erano definitivamente iniziati.

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Nota dell'autrice
Ciao a tutti e buon sabato, come state? <3
Dopo due settimane, eccoci finalmente qui con il dodicesimo capitolo di AD. Con questa storia so che sarà un eterno rapporto di odio e amore, non essendo abituata agli enemies to lovers, ma piano piano le cose si evolveranno.
Vi ho sganciato un capitolo un po' confusionario, me ne rendo conto, ma tutti i frammenti di informazioni che trovate qui saranno utili in futuro, quando Desirée e Isaac scaveranno l'uno nella vita dell'altra e viceversa.
Tenete in mente solo tre parole: Erin, figlia, femminicidio (su questo, apriremo un discorso a parte prossimamente, essendo un argomento delicato).
Questo capitolo vuole essere l'inizio nel vostro viaggio nella famiglia Woodward, che tra le vie di Londra emana tanta luce, ma nasconde anche tante ombre... e quella di cui si parla in questo capitolo è la più importante.
Avete qualche idea? Qualche ipotesi o supposizione?
Aspetto le vostre riflessioni!
Come sempre, amici, ci vediamo al prossimo aggiornamento. Spero che il capitolo vi sia piaciuto! (E spero vivamente di aggiornare il prossimo sabato).
A presto! <3

PS: vi ricordo che, se siete interessati, la CE ha ancora qualche copia di "Before This Month Ends" in magazzino. Se scrivete alla CE su Instagram (readandlovepublishing) potete acquistarne una prima della distribuzione effettiva, che avverà a metà/fine aprile <3

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Note informative

Caffé Milano

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