49. Back to home

ICE

"Ora sentiva di non esserle semplicemente vicino, ma che non sapeva dove egli finisse e lei iniziasse."
(Lev Tolstoj)

Quando le ruote del carrello sobbalzarono sulla pista, anche Ember sussoltò. Non lo fece per il semplice impatto brusco che un aereo da trecento cinquanta tonellate subisce normalmente in fase di atterraggio. Sapevo bene che quella reazione era dovuta al fatto che l'essere atterrati significasse solo una cosa. La nostra pausa era ufficialmente finita e dovevamo affrontare la parte finale del processo.
Ero in grado di leggerle dentro, percepivo quello che provava, anche se nell'ultima settimana si era allontanata emotivamente e fisicamente in modo insopportabile. Si era rintanata in albergo a lavorare per tutto il tempo. Non ero riuscito mai nemmeno a portarla a fuori cena. Dal giorno delle conferenza stampa, non avevamo mai nemmeno fatto l'amore. La sera, quando andavamo a dormire, non mi cercava nemmeno per un abbraccio. Si infilava sotto le coperte, mi dava le spalle e si rannicchiava su sé stessa dicendo che era stanca. L'unica cosa che ero riuscito ad ottenere in quella settimana, era stato un pranzo e alcune discese sulle piste, proprio l'ultimo giorno del nostro soggiorno a Saint Moritz. Per  tutto il tempo, però,  il suo sorriso tirato e forzato mi aveva fatto capire che avevo sbagliato a spronarla. Così la lasciai stare definitivamente.

Preoccupato della situazione, avevo contattato anche la sua psicolaga per chiederle consiglio su come aiutarla e lei mi aveva semplicemente detto di lasciarla reagire spontaneamente a questo periodo critico. Mi aveva spiegato che la felicità che le aveva dato la nostra relazione l'aveva portata investire molto su stessa e ad accelerare forzatamente i tempi di guarigione. Trovatasi però nel pieno di una bufera mediatica e allo stesso tempo nella fase finale del processo, aveva esaurito le risorse.
A fatica avevo accettato di rispettare i suoi tempi, non perché mettessi al centro le mie esigenze. Io volevo solo che Ember stesse bene, ma per come ero fatto, quella situazione mi faceva sentire  impotente e io facevo davvero fatica ad accettare di non avere il controllo su qualcosa.
Quando la vidi deglutire a vuoto mentre l'areo procedeva nella sua frenata, mi limitai ad appoggiarle la mano sulla sua e a stringerla. Lei ricambiò con intensità la stretta, ma non mi guardò in faccia. Continuo a guardare il finestrino per nascondere probabilmente qualche smorfia di dolore, se non addirittura degli occhi lucidi.

Il giorno seguente, l'udienza iniziò senza grossi sorprese. Come ci aveva già figurato Thomas, la difesa cercò invano di spostare l'attenzione sulla mia aggressione, ma il giudice stroncò sul nascere ogni tentativo, in quanto sarebbe stato teoricamente argomento di un altro ipotetico processo. Anche in questo caso Thomas aveva avuto ragione. Alan non mi aveva fatto causa per insufficienza di prove. Pertanto né il giudice, né la giuria aveva apprezzato la loro linea difensiva che consisteva semplicemente nel descrivere Ember come una apporoffitatrice, manipolatrice, dissoluta, insinuando inoltre che stesse applicando gli stessi stratagemmi con il sottoscritto, in cambio di presunti lussi e divertimenti sfrenati.

La settimana quindi procedette densa di colpi sempre più bassi e disperati. Mi rendevo conto che fossero estremamente dolorosi per Ember perché la vedevo sempre più spenta, apatica e chiusa in sé stessa. Le uniche interazioni che sembrava mantenere erano limitate allo stretto necessario per lo sviluppo del processo.
L'angoscia che provavo a vederla in quello stato era sempre più insopportabile, ma continuavo a ripetermi che sarebbe stato solo questione di pochi giorni e che tutto sarebbe cambiato dopo la sentenza.
Purtroppo non fu così. Quando il giudice dichiarò colpevoli Alan e Deamon imputandoli il massimo della pena, io, mio padre, mia mamma, Katy e Thomas esultammo per aver vinto la causa, mentre Ember rimase impassibile. Non si alzò nemmeno dalla sedia. Rimase ferma, immobile e con il volto congelato. Fissò Alan e Deamon essere trascinati via dalle guardie in una espressione indecifrabile.
Mi avvicinai al tavolo dell'accusa, mi piegai sulle ginocchia davanti a lei e la scossi leggermente per le spalle.
«Ehi Piccola, abbiamo vinto!»
Evitò il mio sguardo e diresse il suo verso il pavimento, poi gli angoli della sua bocca si arricciarono in un sorriso amaro.
«Tu dici?»
Mi congelai per una manciata di secondi di fronte a quella reazione così triste.
«Ember, è tutto finito. Tutto. Vedrai che in pochi giorni non ne parleranno più e potremmo tornare alla nostra vita.»
I suoi occhi si posarono sui miei per un breve istante. Era come se fossero talmente pieni di dolore da non riuscire nemmeno a far fuoriuscire le lacrime.
Li riabbassò poco dopo in preda all'imbarazzo.
«Lo so. Sono solo stanca.»
«Vuoi tornare in albergo?»
«Sì, mi piacerebbe molto. Lo so che i tuoi sono venuti qui per me e che vogliono festeggiare, ma non me la sento, Ian. Ho bisogno di stare da sola. So anche di averti chiesto molto in questo ultimo periodo e non sono stata una compagnia piacevole, ma ho bisogno di un po' di spazio e tempo solo per me, per andare oltre tutta questa faccenda.»
«Dimmi cosa vuoi che faccia. Qualsiasi cosa.»
«Posso chiederti di uscire a cena tu da solo con loro?»
«Ember, io... Lo sai che i miei sono molto comprensivi. Non si offenderanno se li lasceremo soli con Lee e Katy. Io posso rimanere in Albergo con te....»
«No!» Si affrettò a dire apoggiando entrambe le mani sul mio volto. Rimasi interdetto dalla sua esclamazione brusca, ma ancora di più da quel  contatto così intimo. Erano giorni che non mi toccava di sua spontanea volontà.
«No Ian, ti prego. Tu hai già fatto abbastanza. Sento di dover assimilare quanto è appena successo da sola. Per favore. Ne ho bisogno.»
Sospirai e annuì debolmente, sentendomi sempre più con le mani legate.
Trascorsi quindi la serata con un nodo in gola. Per tutta la cena continuai a chiedermi come stesse e se avessi fatto bene a non insistere. Più di una volta avevo preso il telefono in mano per scriverle, ma ero riuscito a trattenermi.
Quando rientrai in albergo dopo cena mi rasserenai trovandola addormentata a letto, avvolta come al solito nell'accappatoio. Mi sedetti per terra davanti a lei e mi soffermai ad osservarla nella flebile luce dell'abat-jour. Non c'erano tracce di lacrime sul suo viso. Non sapevo se fosse un bene o un male, considerato che voleva dire che non era ancora riuscita a sfogarsi. Notai però che aveva i tratti più rilassati e sembrava dormire beatamente.
Per tutta la cena, avevo avuto paura di non trovarla in camera una volta rientrato. Tutta quella distanza che si era creata tra noi mi aveva destabilizzato e non ero più certo che la mia scoiattolina avesse abbandonato una volta per tutte l'istinto di scappare con i suoi due maledettissimi trolley.
Ma lei era lì. Non non se ne era andata. Mi aveva chiesto semplicemente del tempo e dello spazio per metabolizzare da sola quel capitolo della sua vita, per poi restare assieme a me. Questa consapevolezza mi rincuorò e mi diede un po' più di speranza per la nostra relazione.
Così feci una doccia rapida e mi infilai sotto il piumone accanto a lei, cercando di fare attenzione a non svegliarla.  Tuttavia, non appena mi sistemai, Ember si stiracchiò, si voltò dal mio lato e mi cinse un braccio intorno alla vita.
Trattenni il respiro per un momento in preda alla stupore di quel gesto ormai diventato insolito, finché Ember, ancora immersa nel sonno, mugolò debolmente sui miei pettorali.
«Portami a casa, Ian.»
Un calore divampò nel mio petto, proprio dove aveva sussurrato quelle parole. Il mio cuore aveva capito cosa intendesse ancora prima della mia mente, la quale comprese appieno il significato di quella frase solo il giorno seguente, una volta rientrati a Skyville.

Anche per tutto quel viaggio Ember non aveva proferito verbo, all'infuori di qualche frase monosillaba e flebili cenni di assenso. Ma una volta varcata la soglia di casa, la sua armatura crollò come fatta di sabbia. Non appena feci scattare la serratura, le spalancai la porta e lei entrò a piccoli passi davanti a me. Dall'ingresso vidi le sue spalle tremare violentemente mentre avanzava verso l'area living. Il suo capo si voltò verso il divano dove giaceva la sua coperta preferita, poi verso il camino spento. Lentamente si accasciò a terra guardandosi intorno, si raggomitolò su se stessa e finalmente scoppiò piangere.
Posai le valigie all'ingresso e invece di correre da lei mi mossi lentamente verso il camino. Lo accesi e le girai intorno con estrema cautela come se il più piccolo movimento brusco potesse mandarla in pezzi. Presi il plaid in cachemire e mi sedetti a rallentatore accanto a lei. Quando le misi la coperta sulle spalle lei alzò il volto in uno scatto, fissò prima il camino crepitante e poi portò gli occhi nei miei.
Per la prima volta dopo settimane Ember mi stava guardando davvero. Stava cercando di nuovo un legame profondo. Tra le lacrime, nei suoi occhi, lessi un miscuglio straziante di supplica e gratidudine che mi lacerò il petto.
Avevo riportato Ember a casa. Compresi solo allora che non si era mai allontanata veramente da me. Era solo finita in un luogo dove non voleva stare. La bufera ci aveva catapultato lontani e lei si era persa. Ora, però, era tornata. Capii ancora più nel profondo, fin dentro le ossa, quanto quel luogo fosse diventato suo, quanto contasse per lei. Io e quelle quattro mura eravamo il suo porto sicuro, lontano da tutto e da tutti.
«Portami a casa, Ian» mi ripetè sottovoce in una timida supplica. Il sapore di quelle parole era stato però diverso dalla sera precedente. Ember mi stava chiedendo qualcos'altro di molto di più di un luogo fisico.
Le presi quindi il volto tra le mani e avvicinai le mie labbra alla sue con estrema calma, senza perdere quel contatto visivo devastante che mi era mancato così tanto.
Quando la mia bocca si posò morbidamente sulla sua, i singhiozzi aumentarono e io gli inglobai come a risucchiare il dolore dal suo corpo.
Il sapore di quel bacio era dolce e salato allo stesso tempo. Era fatto di un urgenza estremamente lenta. Di una delicata intesità. Le nostre labbra erano incollate tra di loro da una candida morbidezza. Allo stesso tempo, però, era come se da quel contatto dipendessero le nostre intere vite.
Ember teneva gli occhi chiusi. Tra le mie braccia la sentivo perdere piano piano consistenza, nonostante fosse aggrappante con forza al mio maglione.
Quando un piccolo gemito gracchiò nella sua gola e vibrò nella mia, le miei labbra si spostarono verso la sua mandibola. Di tutta risposta, voltò il capo da un lato offrendomi l'intera lunghezza del collo ed emise un gemito dolce e sensualmente flebile.
Avanzai con le labbra verso la clavicola, mentre con una mano le feci cadere l'ampia scollatura del maglione lungo il braccio. Baciai la sua spalla come se fosse il bene più prezioso al mondo, per poi tornare sulle sue labbra in una scia umida che la fece rabbrividire. In quel momento, muovendoci all'unisono, ci coricammo sul tappeto davanti al camino e la sentii rilassarsi sotto il mio corpo. I suoi singhiozzi cessarono lasciando spazio a un irresistibile respiro ansante, perfettamente sincronizzato con il mio.
Non so per quanto tempo ci perdemmo in un lentissimo e delicato groviglio di mani, baci e sospiri, prima che Ember mi tirò su il maglione.
Una volta sfilato, proseguimmo a svestirci piano piano, pezzo dopo pezzo, tra una sessione di lunghi baci e carezze sospirate.
Una volta completamente nudi mi soffermai a lungo tra le sue gambe, senza avanzare, come se dovessimo preparaci a pregustare ogni singola sensazione del nostro ritorno a casa. La bacia ancora e ancora, perdendomi nella sua bocca così come le mie mani si persero ad accarezzarle la nuca.
Quando Ember interruppe gradualmente il bacio, ci fissammo negli occhi come a scavare uno dentro l'altro. In quell'istante mi sembrò come se non ci fosse mai stata nessuna distanza tra di noi. Come se le ultime settimane fossero state solo un brutto sogno troppo vivido.
Un leggero tremolio tra le sue gambe mi spinse ad avanzare con una lentezza devastante. La mia schiena iniziò a tremare come se fosse la prima volta in assoluto che facevo l'amore.
E fu davvero così. Perché dopo un cammino lento, ma inarrestabile, una volta colmato il suo corpo e la sua anima, le labbra di Ember si avvicinarono al mio orecchio. Sospirò profondamente e, tremando sotto di me, chiamò il mio nome. Il mio vero nome.
«Ian...»
Quel suono vibrò direttamente al centro del mio petto e quella fu la conferma che fossimo entrambi finalmente a casa, come non lo eravamo mai stati prima.

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