4. 1.73, nubile, zero voglia di figliare
Luglio 2017
Non fu affatto difficile essere ricontattata dalla compagnia aerea appena qualche giorno dopo l'invio della mia candidatura. Avevo le carte in regola per tutto quello che richiedevano e anche di più: fluenza in cinque lingue, un anno da visiting student in una delle più prestigiose università del Giappone, altezza 1.73, nubile, zero voglia di figliare.
Superai con ampio margine il test linguistico il giorno stesso dell'importantissimo provino di Celeste per la 7Up.
Le nostre venue di destinazione erano entrambe vicine a quell'obbrobrio in "stile europeo" della stazione centrale, una forzatura terrificante di quello che dovrebbe essere il cuore dell'impero, lì dove sorge il placido palazzo reale e il suo immenso parco circostante.
Cece si fermò un attimo a contemplarne i romantici tetti dai bordi arrotolati, come il suo stomaco in quel momento, e parve riuscire a distrarsi nonostante la tensione che l'aveva accompagnata per giorni e notti. «Unpopular opinion, e forse neanche più tanto di questi tempi, ma la nobiltà ha rotto proprio il cazzo!» proruppe in uno sbuffo seccato. «Ti pare che questi debbano avere tutto 'sto spazio per prati che non utilizzano mentre noialtri si vive gli uni sopra agli altri?»
Mi sfuggì una risatina amara ma complice.
Come darle torto?
Eppure forse, col senno di poi, ci sentivamo così bitter perché in fondo la stretta convivenza iniziava a pesarci.
Comunque, completata la prova di lingua con largo anticipo, decisi di raggiungere Cece sul posto del casting per farle una sorpresa e offrirle il pranzo, vedi mai che avesse finito in tempo. Ovvio, a mio rischio e pericolo, visto che è risaputo che quel genere di attività siano uno stillicidio e spesso finiscano con il richiedere alle candidate molte più ore di lavoro e attesa di quanto preventivato.
Non avevo pensato, invece, al rischio di rivedere Shinichi.
Oppure mento solo a me stessa nell'affermare una tale sciocchezza. Da qualche parte nel mio subconscio dovevo averci pensato, eccome.
Può darsi che dentro di me lo avessi ideato come un autosabotaggio: non era stata certo una brillante idea quella di recarmi lì con litri di sudore stratificati addosso, il trucco che era scivolato via dalla faccia poco dopo averlo applicato, i capelli chiusi nella crocchia più maldestra che potessi ricavare dall'intersecamento della penna ricevuta all'esame tra i ciuffi più aggrovigliati.
Trovai Celeste in piedi di fronte a un distributore automatico all'ottavo piano del palazzo, intenta a prendersi quella che – immaginai – fosse almeno la terza Red Bull Sugarfree della mattinata.
«Ahi, ahi, andiamo male, signorina!» esclamai, cogliendola di sorpresa alle spalle. «Se volevi ingraziarti la commissione dovevi prenderti la 7Up.»
Trasalì e mi lanciò un'occhiataccia, ma poi stette al gioco. «Ho smesso con quei mezzucci, lo sai!»
«Quanto manca ancora?» indagai, «Grigliata coreana dopo? Shin-Okubo?*» diedi un colpetto leggero in aria per far sventolare il laccio delle BLACKPINK pendente dal suo cellulare.
Nel vederla sovrappensiero, priva della risposta pronta ed entusiasta che avrebbe avuto di solito, le raggiunsi la spalla con uno schiaffetto affettuoso. «Offro io! Dai, ora torna a prepararti.»
Fatalità, proprio in quel momento si aprì la porta di fianco a noi e fecero il suo nome. Nell'istante in cui la mia attenzione fu colta dal movimento di invasione del corridoio dell'anta spinta dal maniglione antipanico, i miei occhi incrociarono con millimetrica precisione quelli di Shinichi, seduto al tavolo in fondo alla sala che era appena stata dischiusa per accogliere Celeste.
Mi sorrise.
Gli sorrisi.
Cece schizzò dentro come un lampo e la porta si serrò di nuovo, lasciandomi in mezzo alle altre decine di bellissime ragazze in attesa di essere convocate. Qualcuna di loro mi lanciò uno sguardo perplesso – e come biasimarle – chi sarebbe tanto pazza da rischiare l'autostima entrando in quello stato pietoso dentro un corridoio colmo di modelle?
La mia amica fu risputata fuori dalla stanza in un tempo abbastanza ragionevole per non farmi pentire di aver avuto l'idea malsana di raggiungerla e aspettarla. Non sapevo di preciso come funzionassero quelle cose, quindi non avevo idea se fosse un bene o un male.
«Com'è andata?» volli sapere, anche se le avevo sentito dire quanto risicate siano le possibilità che traspaia già qualcosa al primo colloquio.
Lei mi trascinò subito oltre alla rampa di scale, dove le altre candidate in attesa non potevano vederci, e si concesse una silenziosissima esultanza dei gesti. «Mi hanno già convocata per il callback!» mi aggiornò.
Immaginai fosse una cosa positiva.
«Non succede mai nella stessa sede di colloquio, Chiare'! Ho sfondato!» si galvanizzò, gli occhi puntati al cielo mentre stringeva i pugni e si mordeva un labbro per non essere troppo rumorosa.
Poi mi alzò di peso da terra, serrandomi le spalle con entrambe le braccia, e improvvisò una goffa giravolta. «Sei il mio portafortuna. Devi venire anche la prossima volta!»
La volta dopo fu il giorno seguente al mio colloquio motivazionale per il ruolo di assistente di volo. Ero molto rilassata poiché non avrei dovuto fingere – come molti altri – di non avere legami con niente e nessuno, e di non voler costruire una famiglia nel breve termine. Era tutto vero.
Infatti andò benone.
Così come il callback di Celeste.
Quella sera erano rimaste solo in quattro le pretendenti all'incarico e, ai miei occhi, nessuna delle altre tre avrebbe mai potuto competere con la presenza scenica della mia amica. Sembrava quasi un complotto ai danni di quelle povere anime che ci stavano credendo troppo.
Cece fu l'ultima a entrare e tornò da me appena una ventina di minuti dopo. «Ci faranno sapere domani» annunciò.
Annuii, a quel punto non c'erano più dubbi che sarebbe stata lei a spuntare l'ingaggio.
Mentre stavo per alzarmi dalla poltroncina su cui mi ero stravaccata in paziente attesa – l'ultimo numero di Shonen Jump** in lettura per ammazzare il tempo – sussultammo al tetro cigolio della porta della sala delle selezioni che prese a rimbombare per tutto il disimpegno.
Il mio volumetto si schiantò aperto a metà sul pavimento.
Shinichi – che sbucò da quella stessa porta, insieme al resto della commissione, come se stesse uscendo dagli inferi – venne a recuperarlo con l'aria di uno che si era appena accorto di averlo perso; fissò la cover e mi chiese: «L'ho letto anche io ieri. Che ne pensi della piega che ha preso la storyline di Robin in questo capitolo?».
Ero così stordita da non memorizzare neanche cosa risposi. Ma la mia opinione dovette incontrare quella sua, poiché annuì e sospirò. «Infatti, ho pensato la stessa cosa!»
Mi restituì la rivista e si voltò verso Cece. «Dovremmo proprio andare a festeggiare, eh? Ce l'hai fatta.»
Gli occhi di lei si riempirono di lacrime ancor prima che lui proferisse quella notizia per intero. Si gettò ad abbracciarmi con tanta irruenza da farci piombare entrambe lunghe lunghe sulla poltroncina da cui mi ero appena alzata. «L'avevo detto io che tu porti fortuna!»
Ma lo sguardo di lui, pago e sorridente, si era andato a piazzare su di me e sullo scrunchy che un istante prima legava la mia coda di cavallo e ora era volato per terra. Raccolse anche quello come se fosse roba sua e se lo mise in tasca, lanciandomi un occhiolino malizioso.
«Chiamo Yota, così andiamo tutti a bere» propose, e sparì nell'androne dell'ascensore mentre disponeva: «Vi aspetto giù.»
Celeste si affrettò a tirar fuori un fazzolettino per asciugarsi le lacrime e il sudore dal viso, poi cacciò un urletto prodotto da emozioni miste tra incredulità e gloriosa vittoria. Mi afferrò la mano e, sforzandosi di non lasciarsi andare troppo in autocelebrazioni – che non si addicono a un Paese confuciano – mi guidò fuori dall'edificio.
Nel silenzio del taxi in corsa verso Shinagawa – e nella concitazione che aveva avviluppato l'intero vano posteriore come la calda e pesante coperta di un kotatsu*** – Shinichi accostò le labbra al mio orecchio come non avrei mai creduto che un uomo giapponese potesse essere in grado di fare. «Credo di avere qualcosa di tuo, ma non ricordo dove l'ho messo» bisbigliò. «Dovremmo vederci ancora, così avrò il tempo di cercarlo per ridartelo.»
Stava davvero andando above and beyond qualsiasi possibile approccio da drama coreano per attirare la mia attenzione. Ma perché, poi? Chi mai avrebbe degnato proprio me di quella cura, pur avendo la magnifica Celeste seduta al proprio fianco?
Non risposi. Allungai un occhio su Cece, ma lei si era accasciata sul finestrino in preda a una botta di sonno post-sforzo sovrumano.
«Forse non ti sei accorto che Celeste è seduta da quel lato» la indicai con un dito titubante.
Lui parve estremamente sorpreso dalla mia puntualizzazione. «E allora?»
Mi strinsi nelle spalle, ma tenni per me la considerazione "Forse hai sbagliato persona" che era insita in quel linguaggio non-verbale.
Shinichi sgranò gli occhi e rise, come se fosse riuscito a leggerlo tra le scie delle mie connessioni neurali. «Scherzi? Tu sei la ragazza più bella e interessante che io abbia mai incontrato.»
Allora mi unii anche io alla risata, ma con sarcasmo. «No, scusa, nessuno che conosca anche Celeste potrebbe mai dire una cosa del genere!» sottolineai.
L'improvvisa serietà che gli invase lo sguardo mi preoccupò. Mi raggelai e attesi con timore la sua controbattuta, ma non arrivò nulla. Non saprò mai se fosse perché era rimasto deluso – o persino offeso – dalla mia affermazione, oppure se fu interrotto dall'inchiodare dell'auto davanti a Yota, che ci accolse fuori dalla stretta entrata di un misterioso club protetto da un buttafuori grosso come il Fuji.
L'idol aprì delicatamente la portiera per svegliare con garbo Celeste, si inchinò davanti a lei a baciarle la mano e sentenziò: «Stasera sono al tuo servizio, principessa, celebriamo insieme il tuo lavoro più importante.»
Quella campagna pubblicitaria sarebbe stata la più lunga e ben pagata a cui Cece avesse mai preso parte. I cartelloni sarebbero stati affissi per tutto il Giappone, il Sud Corea, Hong Kong e la Thailandia durante l'intero anno successivo.
Festeggiammo quindi come meglio s'addiceva a un lavoro di quella portata. Difatti non ho alcun ricordo vivido del resto della serata, se non che ci ritrovammo a casa nostra quando le prime luci dell'alba intersecarono la trama fitta delle tendine dell'angolo salotto, dove Celeste era collassata sul divano in quel sonno profondo da bava alla bocca.
E io...
Io avvertivo i miei stessi gemiti come se fosse una terza persona a emetterli.
Come se non fosse il mio quel corpo nudo steso sul letto sopra al soppalco, sovrastato dal tocco gentile quanto sfacciato dei due ragazzi giapponesi più attraenti che avessi mai conosciuto.
E non riuscivo proprio a fermali.
Anzi, no.
A fermarmi.
Ero come coinvolta in una danza mistica. Uno di quei rituali arcani e potenti che un tempo si usavano per invocare la protezione degli Dèi, le piogge per il raccolto, il favore degli elementi per vincere le guerre, la fertilità per concepire un erede maschio.
Le loro labbra scandivano la misura della lunghezza delle mie cosce, della rotondità dei miei seni, dell'umidità delle mie labbra. Non avevo mai provato fino ad allora una sensazione di pienezza tale da sentirmi il centro del mondo. Il nucleo incandescente della Terra.
Lo sguardo di Shinichi che scansionava ogni parte di me mi mandava ancora più a fuoco, un'emozione passionale e bruciante che fino quel momento solo Riccardo era riuscito ad accendere con tanta intensità.
Non so quanto durò, se mai mi colse la paura di essere scoperta da Celeste che poteva svegliarsi dal coma alcolico da un momento all'altro, o se fui raggiunta in qualche modo dalla prevedibile stanchezza accumulata da lavoro, notti brave, colloqui, le vane resistenze al sentimento che Shinichi mi suscitava.
Oppure se mi attraversò mai la mente il pensiero che quell'atto pazzesco sarebbe finito, oh, e non volevo che finisse.
Non poteva finire.
Perché poi sarei dovuta scendere da quel piedistallo per prendere atto di quanto avessi appena combinato.
Io non avevo mai tradito Riccardo prima di allora.
Nonostante tutte le volte che, guardando Filippo agitare le sue belle dita da pianista per fare gli spritz dietro al bancone del bar, avevo pensato che – se lui mi avesse fatto anche solo un cenno – ci sarei finita dentro fino al collo.
E, grazie a Dio, lui non l'aveva fatto neanche per caso. Pur essendo all'oscuro che io fossi impegnata.
Ma allora quella era la prova definitiva che non ero stata brava io a resistere o ad allontanare l'occasione da me, anzi, non sarei mai stata salva da quelle tentazioni se fossero sempre state intercettate da qualcuno più intraprendente come Shinichi e meno come l'innocente barista di via Toledo.
L'incantesimo di quel rito, che mi stava condannando al giudizio impietoso di me stessa prima ancora di quello della mia migliore amica che russava al piano di sotto, evaporò quando il sole era quasi al suo zenit.
Yota fu il primo a scostarsi le lenzuola di dosso e schioccarmi un affettuoso bacio sulla fronte, prima di rivestirsi a gran velocità. «Ciao bella, ci vediamo!» si congedò, come se niente fosse e si chiuse la porta di casa alle sue spalle con tanta cura che sentii appena lo scatto della serratura ovattato in lontananza.
Mi resi conto di essermi improvvisamente pietrificata, gli occhi sgranati fissi sul soffitto.
Shinichi mi fece scivolare una mano dalla guancia alla spalla. «Che succede?» chiese, con apprensione in volto.
Reagii con una smorfia; forse di dolore, di rammarico, di colpevolezza.
Sicuramente di riacquistata lucidità.
Mi portai le mani a coprire gli occhi e scoppiai a piangere.
* Shin-Okubo è il "ghetto coreano" di Tokyo, situato nella parte ovest del più grande quartiere di Shinjuku.
** "Shonen Jump" una storica rivista settimanale contenitore dei manga pubblicati dalla CE Shueisha, una delle più grandi del Giappone, specializzata in manga Shonen (d'azione, per ragazzi). "One Piece" è uno dei titoli di punta, ed è in riferimento a questo che avviene la conversazione tra Anna e Shinichi.
*** Il kotatsu è un tavolino da tè tipico giapponese, la cui particolarità è avere una coperta elettrica attaccata lungo i bordi. Durante l'inverno è spesso usato per mangiare al caldo o godere di un caldo relax in soggiorno.
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