I giochi di parole del Cappellaio Matto
Chi sei tu? Un uomo fra tanti, come tanti, eppure diverso.
Ti amalgami alla normalità, eppure spicchi in questo garbuglio di colori, voci, etnie.
Il suono dell'altoparlante ti fa ridestare e raddrizzi la schiena, come per ascoltare meglio. E invece no, ti accasci di nuovo, perché non è l'annuncio del tuo treno.
Fa caldo, ma la camicia che indossi non ne dà indizio: è ancora liscia, anche se non più perfettamente stirata; ti sei preso la libertà di arrotolare le maniche sull'avambraccio, ma senza comunque sgualcirla.
La giacca dell'abito blu che indossi è poggiata, piegata, con cura sul manico estraibile del tuo trolley, in attesa accanto a te, insieme a te, che sei seduto sulla panchina di marmo bianco senza schienale, fissata al cemento grigio al centro della banchina.
I pantaloni aderiscono alle cosce, tirano sui quadricipiti muscolosi, ma senza fare difetto, forse per merito di un bravo sarto. Le scarpe di pelle, dai corti lacci, marroni, lasciano intravedere i calzini di leggero cotone blu avvolgere le tue caviglie. La cintura, marrone e di pelle anch'essa, avvolge una vita che è stretta, come la base minore di quel trapezio che è il tuo torace.
Hai i gomiti poggiati sulle ginocchia, la schiena curva e lo sguardo sul cellulare; i pollici si muovono freneticamente accarezzando lo schermo, in cerca di aggiornamenti su un treno che ancora tarda ad arrivare, o nella speranza di trovare un'alternativa a quell'attesa intrisa ormai di noia.
Sei circondato da centinaia di persone che vanno e che vengono, e da decine di altre che invece dividono con te questa apatia. Il rumore delle rotelle delle valigie sui mattoni è incessante, regolare quasi come quello delle onde del mare.
Guardi l'orologio che abbraccia il tuo polso, come per avere una conferma a quello che vedi sullo schermo digitale, come a voler ignorare le enormi lancette appese nella scatola sulla tua testa, e non ti sorprendi a scoprire che l'ora di pranzo è passata da un pezzo.
Ma il flusso di questo pensiero che conduce al tuo stomaco viene interrotto in un modo così brusco che mai avresti potuto immaginare: una melma gelata ti si spalma sulla schiena, provocandoti brividi di spavento e brontolii di irritazione.
Ti alzi di scatto e ti volti verso l'altro binario, solo per osservare un ragazzino di una decina d'anni caracollato per terra, con la faccia spalmata sul marciapiede; sei ancora incredulo dell'accaduto, perché non sai se inveire contro di lui o soccorrerlo, non è chiaro se sia inciampato sul serio o i suoi due amici, che un po' sghignazzano e un po' lo aiutano, in realtà siano stati la reale causa di un frappè alla fragola versato sulle tue spalle.
Il ragazzino ti chiede scusa, rosso sul viso e sul collo: è mortificato e umiliato, così decidi di non infierire ulteriormente; ti accerti delle sue condizioni e lo tranquillizzi sul fatto che è solo una camicia.
Il tuo sorriso sembra convincerlo più delle parole: cerca di aiutarti a ripulirti, ma gli fai capire che non è necessario.
Afferri la valigia e ti dirigi alle toilette della stazione per cambiarti. Qui l'ambiente è più freddo ma sembra più umido, l'odore di disinfettante si mischia alla puzza di non vuoi sapere cosa. Ti lasci sfuggire una smorfia che contorce il tuo naso, mentre il riflesso della tua immagine compare nel riquadro dello specchio, schizzato in basso da goccioline di acqua: la testa rasata, le pieghe della pelle che ricopre il tuo cranio sono messe in evidenza dall'abbronzatura che hai involontariamente coltivato in città.
Alla base della nuca, nascosti dal colletto una volta bianco della camicia, si intravedono delle punte arancioni, piccole lingue di fuoco che fingono di bruciare la tua pelle; sciogli un bottone dopo l'altro, scendendo verso il ventre piatto, sfilando la stoffa dalla cintola, finché, liberando anche i polsi, contrai i dorsali per rimanere a torso nudo.
La fiamme escono da un muso affusolato, coronato da zanne aguzze; le narici sono allargate in uno sbuffo di calore, gli occhi sono tanto vitrei quanto terrificanti. Ripercorrendo il lungo collo, quello del drago che ricopre la tua schiena, si possono quasi contare le squame luccicanti; le zampe da rettile artigliano la pelle tesa, mentre le ali da pipistrello si allargano nell'attimo che precede lo spiccare del volo; la lunga coda si attorciglia sulla punta all'altezza dei lombi.
Il verde, l'indaco, il dorato si alternano sulla coriaceità della bestia che hai dipinta addosso, quella che senti più simile alla tua intimità: caldo, feroce, libero.
Appallottoli quella che una volta era una camicia ben stirata e la infili in valigia, stando ben attento a non sporcare altri indumenti; tiri fuori una t-shirt nera con il simbolo dei Led Zeppelin e la indossi, sfigurando il tuo bel viso ancora una volta, perché cozza con i pantaloni dal taglio elegante.
Ma ti ripeti che è solo una maglietta.
Vieni via dal bagno per tornare vicino alle partenze, guardi ancora lo schermo degli orari, sperando che l'inaspettato contrattempo abbia modificato il corso degli eventi. Inutilmente: la riga corrispondente al tuo treno è ancora fissa al suo posto, nessuna scritta lampeggia, nessun binario associato, nessuna stima dell'orario di arrivo; solo il campo del ritardo è riempito, con un numero che, col passare del tempo, aumenta, facendosi beffe dell'irrequietezza dei futuri passeggeri.
Sospiri rassegnato e ti dirigi verso un distributore automatico, infili le monete e recuperi un tramezzino rinsecchito dall'alloggiamento inferiore.
Torni a sederti su una panchina con il tuo misero bottino tra le mani, una valigia striminzita al seguito e una giacca ben piegata sopra il braccio.
Torni a essere un uomo fra tanti, come tanti, eppure diverso.
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