Lilla

Capitolo 38

🦋Perché non mi hai detto che gli uomini sono pericolosi?
Perché non mi hai messo in guardia?
Le gran dame sanno come difendersi, perché leggono romanzi che parlano di questi artifizi🦋

Thomas Hardy


Dopo tutte le mie richieste mia zia aveva deciso di rispedirmi a scuola, nonostante non volessi più mettere piede in quel posto orribile.

Purtroppo era impossibile farle cambiare idea riguardo alla scuola di Randall. «È troppo lontano.» aveva detto a tavola durante la cena.

«Non ce la faccio a tornare là», l’avevo pregata, ma lei era stata irremovibile sulla sua decisione.

«Ho pagato la retta per tutto l’anno Lili, e sono soldi che non mi verranno restituiti se decidi di non andarci. Io ti capisco, dico davvero, ma purtroppo ti devo dire di no.», mi aveva consolata.

L’avevo osservata con rabbia, il mio sguardo era stato talmente intenso, che Rob, non aveva osato dire una parola. Che ne sapeva lei di come mi sentivo io? Non riusciva a comprendere l’ansia che mi attanagliava ogni volta che pensavo di dover mettere piede là dentro.

Il giudizio che temevo da quelle persone. Ero stata un bersaglio. Un animale braccato peggio dell’epoca delle streghe a Salem. Come avrei potuto entrare in quei corridoi, guardare i miei compagni che mi compativano o mi odiavano?

Eppure, nulla di tutto questo l’aveva fatto cambiare idea. «Facciamo così. Fai una prova, vedi se riesci a farcela. Nel caso per te fosse difficile, sappi che lo prenderò in considerazione», aveva aggiunto sospirando.

Non ero d’accordo, ma purtroppo non avevo scelta se non appigliarmi alle sue parole. Mi tremavano le mani ogni volta che pensavo di ritornare a scuola. Avevo una sensazione pesante nel petto che mi faceva respirare a fatica.

«So che coloro che ti hanno fatto del male non ci sono più». Si intromise Rob, restando neutrale. Non voleva immischiarsi nella nostra discussione, ma capii che voleva raffreddare i bollori. D’altronde era la sua prima cena con me e mia zia. E vederci litigare per una cosa simile, lo metteva a disagio. Aveva gli occhi chiari leggermente socchiusi, le spalle ricurve, si era addirittura messo una camicia azzurra con i quadrettini più scuri.

«Mi dispiace, non volevo che questa cena si incentrasse su di me, ma sono contraria. E per giunta domani è il mio compleanno, quindi tornare a scuola è l’ultima cosa che voglio fare», gli dissi con le sospirando con la forchetta che stringevo nella mano.
Sentivo il caldo salire lungo il collo, mi vergognavo, ma l’ansia aveva la meglio.

«Ancora meglio. Così puoi far capire a tutti che non ti hanno spezzata. Andando a scuola domani, daresti un pugno in faccia; metaforico sia chiaro. A tutti», spiegò con le mani alzate.

Mia zia lo guardò con lo sguardo addolcito. I suoi occhi verdi brillavano mentre lo sentiva parlare.  Sorrisi: vederla così presa mi riscaldava il cuore.

«E poi, io credo che nessuno oserà guardarti in faccia. Il preside è stato chiaro: chiunque ti avrebbe fatto del male sarebbe stato espulso con effetto immediato.», Raddrizzò le spalle ricurve dicendo: «Sono sicuro che non vorrà un altro espediente del genere. Altrimenti rischia il lavoro. Queste cose non passano inosservate, credimi». Concluse osservandomi con la testa bassa.

Deglutii, ascoltandolo in silenzio. Capivo le sue parole, ma io parlavo dei danni collaterali. Gli studenti di quella scuola mi avevano condannata. Per colpa loro andavo da uno strizzacervelli. Per colpa loro non dormivo la notte. Strinsi forte le labbra per non dire a voce alta i pensieri che mi vorticavano in testa.

«Ti prego Lili, fa un tentativo», disse la zia con il volto triste. Restai in silenzio, senza dire più nulla. Ormai aveva già deciso e io dovevo fare un “tentativo”. Pregavo solo di non subire altro.

🌺

Il clacson della macchina di Shon mi annunciò che dovevo scendere. Mi tremavano le ginocchia, ma decisi di tacere tutte le mie paure. D’altronde era il mio compleanno. Sospirai, presi lo zaino che sembrava pesare un macigno e me lo misi in spalla.

Quando aprii la porta, in casa c’era un silenzio assordante, aggrottai la fronte confusa. Mia zia non si sarebbe mai e poi mai dimenticata di me.

«Zia? Sei a casa?», chiesi a voce alta mentre mi diressi verso le scale di legno che cigolarono quando iniziai a scendere. Non c’era alcun rumore. Strinsi gli occhi confusa e continuai a camminare.

Avevo indossato una gonna plissettata poco più sopra il ginocchio del colore grigio chiaro, mi ero messa un paio di calze nere e le All Stars blu jeans che mi aveva regalato mia zia l’anno scorso. Sopra avevo optato per un dolcevita blu scuro che calzava a pennello con le scarpe.  Avevo lasciato i capelli sciolti in piccoli riccioli densi e mi ero messa un po’ di mascara. Se dovevo rientrare a scuola, non avrei avuto intenzione di far vedere agli altri la mia sofferenza.

Appena scesi l’ultimo gradino Shon, mia zia e Rob, uscirono dalla cucina urlando tutti insieme in coro. «Buon compleanno!», nell’immediato mi spaventarono a morta, tanto da farmi venire un batticuore allucinante, ma poi vidi che avevano in mano dei palloncini colorati che fluttuavano in aria legati da degli spaghi che non le facevano svolazzare per tutta la stanza, un tubo di coriandoli scoppiettò davanti a me imbrattandomi completamente di scintille colorate e una torta pasticcera decorata con un arcobaleno e tanti animaletti fatti di pasta di zucchero mi si parò davanti.

Sorrisi commossa e mi tappai la bocca sorpresa, dovevo essere sicura che mi avrebbero fatto un festeggiamento del genere. Ma la mia testa era stata troppo impegnata in altro per immaginarmelo.

Mia zia si avvicinò con la torta in mano, c’era una candelina del colore viola accesa in cima. Chiusi gli occhi, non avevo alcun desiderio da esprimere, ma feci finta di farlo. Non ero più una bambina, ora avevo compreso, che la candelina, era solo un mero strumento per aggiungere altri desideri irrealizzabili. Avrei potuto desiderare una nuova scuola, una nuova vita, un nuovo sogno. Eppure, non espressi nulla. Non c’era più niente in me che mi facesse desiderare qualcosa di più bello, o più giusto. Sapevo che la giustizia non esisteva, ma si poteva fare da soli.

Spensi la candelina e un altro urlo mi spaccò i timpani, Shon, mi abbracciò di getto per lasciare il posto subito dopo a mia zia. Rob mi sorrise.

«Tanti auguri amore mio. Che i tuoi sogni si possano realizzare sempre», mi disse mia zia stringendomi a sé.

«Grazie zia», risposi nascondendo il volto nel suo abbraccio. “Ma non ho più nessun sogno”. Non mi era rimasto altro se non le ceneri di un presente dalla parvenza calma. Proprio come me, ero un garbuglio di rabbia e disperazione avvolto in un cartoccio di pelle chiara e da un sorriso che nascondeva ben altro.

Qualcuno suonò il campanello di casa e guardai mia zia negli occhi. Lei si strinse in spalle. Curiosa andai alla porta e la aprii, ma non c’era nessuno. Una macchina nera superò il nostro vialetto troppo velocemente per scorgere chiunque fosse alla guida, ma poi un miagolio attirò la mia attenzione.

Spalancai la bocca, sopra lo zerbino c’era una cesta in legno imbottita di velluto blu scuro scintillante e dentro c’era un gattino bianco. Un vero gattino bianco che si stava arrampicando sui bordi!

Mi accucciai con il cuore in gola. Un’infinità di tenerezza e felicità si sprigionò dal mio petto quando presi il gattino fra le braccia, era piccolissimo, e morbido, e coccoloso, gli occhi azzurri.

Mi si sciolse il cuore quando iniziò a fare le fusa. Mia zia si avvicinò insieme a tutti gli altri. Dentro la cesta c’era anche un mazzo di dalie bordeaux scure tendenti sul nero e una lettera. C’era una lettera.

Mi tremarono le mani e lo stomaco diventò un buco nero. «Un gatto!» esclamò mia zia incredula. Mi voltai verso di lei. Il cuore che batteva all’impazzata. Aveva un collare con un medaglione che catturava i raggi del sole, lo presi fra le dita tremanti e lessi. “Snow”.

Risi, una risata di pancia e sincera, sprigionata da una felicità pura. Ero, senza parole.
«Mi hanno regalato un gatto! Qualcuno mi ha regato un gatto!» esclamai incredula.

Mia zia sorrise, anche se gli si spense velocemente. Rob allargò le pupille per poi sorridere con l’angolo della bocca.

«Chiunque sia stato… Non è stato divertente» disse mia zia osservando il gattino, anche se non lo voleva ammettere, vedevo i suoi occhi brillare di tenerezza. «Beh, bel regalo», disse Shon incredulo osservando il mazzo di fiori.

«Parleremo del gatto dopo. Ora fila a scuola». Disse mia zia prendendomi il gatto dalle mani. Riluttante glielo passai ma non prima di avergli dato un bacio sulla testolina. Mi accucciai a prendere la lettera, lo misi in tasca della giacca con le mani tremanti. Il cuore che batteva veloce.

Salutai mia zia e mi diressi con Shon nella sua Audi verso scuola, sentivo un mix di felicità e ansia, avevo i nervi a fior di pelle, un piede mi dondolava convulso per l’inaspettato rientro, il mio amico restava in silenzio osservandomi di soppiatto ben consapevole dei fiori e del gatto e della lettera che stringevo come se si dovesse dissolvere nel nulla in tasca.

«Andra tutto bene Lilla, calmati. Ti prego», mi parlò gentile. Rivolsi lo sguardo verso di lui, che aveva parcheggiato la macchina nel parcheggio della scuola.

Mi prese la mano e le nostre dita si intrecciarono tra loro. «Ci sono io, qui per te. Lo so che non sono uno dei migliori, ma ci sono io», disse piano chiudendo e riaprendo gli occhi. Lo osservai col cuore in gola.

Gli volevo bene, e la sua dolcezza mi tranquillizzò il necessario. «Oggi non ti lascerò da sola un secondo, verrò addirittura in bagno delle donne se me lo chiedi. Quindi per favore, fa un respiro profondo e sii sicura di te stessa. Perché io lo sono, di te. So che sei capace di fare tutto.» concluse.

Sentii gli occhi pizzicare, e una lacrima mi scese lungo la guancia. Ero terrorizzata, preda a delle emozioni sgradevoli da molto tempo, ma l’abbraccio di Shon racchiudeva, un bene immenso. Le sue spalle larghe mi avvolsero in un dolce tepore, infondendo in me, calore e benevolenza.

Lo strinsi a me, come se fosse l’unica mia ancora di salvezza e piansi silenziosamente sulla sua spalla. «Non so se ce la farò.» sussurrai ripulendo le lacrime dal volto. «Sono così stressata che mi manca il fiato», aggiunsi alzando lo sguardo sul suo.

Ci vidi tanto dispiacere nelle sue pupille, ma allo stesso tempo, Shon raddrizzò le spalle portando il mento in alto e mi baciò la mano. «Sono qui per te. Sempre e comunque, e tu non sei sola. Ti aiuterò io a tenere il peso del mondo sulle spalle per oggi». Chiusi gli occhi, portai le ciocche dei capelli all’indietro e annuii apprendo la portiera.

Lungo il tragitto dal parcheggio all’ingresso, notai molti sguardi nella mia direzione, tanti mi fecero battere fortissimo il cuore, altri, mi fecero risalire il calore lungo il volto, ma Shon mi strinse forte la mano comunicandomi che non ero da sola, che qualsiasi cosami avessero fatto, io l'avevo superato. Lo stavo superando...

Una volta all’ingresso, vidi Penelope e le altre ragazze venire nella mia direzione, non mi lasciò nemmeno il tempo di parlare che mi racchiuse in un abbraccio caloroso, glielo restituì titubante.

«Tanti auguri di buon compleanno», mi scrutò coi suoi occhi azzurri, abbozzai un sorriso deglutendo.
«Grazie», le risposi.

«Mi fa piacere che tu stia bene», aggiunse con una nota dolente nella voce. Non le risposi, ma il calore si dupplicò e seppi di essere diventata rossa. Anche le altre ragazze mi salutarono.

«Hai intenzione di dare una festa per il tuo diciassettesimo?» chiese Magdeleine.

«No, affatto», risposi stringendomi in spalle.

«Stasera è Halloween e ci sono diverse feste in giro. Infatti, usciremo molto prima da scuola. Non dovevano nemmeno aprire!» esclamò la ragazza mora. Restai in silenzio.

«Se te la senti, stasera Amelia ne organizza una, potresti venire. Ma solo se te la senti», mi chiese Penelope gentilmente.

Strinsi le labbra. «Non credo, ma voi divertitevi».
Shon che era rimasto in silenzio, volse lo sguardo verso le aiuole a destra, poi guardò le ragazze.

«Ora dobbiamo entrare, ma noi ci vediamo dopo Pen». Disse alla ragazza. Mi sorpresi del tono neutrale del mio amico, ma non lo diedi a vedere, Shon aveva parecchie cose da spiegarmi e da raccontare.

Salutammo le giovani donne ed entrammo. Nel corridoio vicino agli armadietti c'era il caos, la scuola era una zona da guerra. C'erano ragnatele finte ad ogni angolo, uno striscione enorme era appeso alto in mezzo al corridoio con su scritto “Halloween è qui”, diversi studenti erano vestiti da Dracula, altri avevano dipinto il volto, altri ancora portavano delle maschere.

«Fammi indovinare, oggi non ci sarà lezione», gli dissi a Shon alzando un sopracciglio. Lui si strinse in spalle: «Che io sappia avevamo due ore di letteratura inglese e uno di economia», si guardò attorno, l’ingresso era un film ti Tim Burton. Mancava solo che sputasse Mercoledì e avremmo fatto il botto.

«E questi non c’erano ieri, quindi li ha messo qualcuno durante la notte.» concluse indicando il tutto col dito.

«Mhh… chissà chi», gli dissi annoiata. «Se non c’è lezione è meglio che vada a casa.» Shon stava per parlare ma all’improvviso uscì la professoressa di economia dall’aula a sinistra due porte più lontane da dove mi trovavo.

Appena mi vide i suoi occhi si spalancarono sorpresi, ma poi si avvicinò con cautela tenendo un paio di fogli in mano, diventando neutrale in volto. «Buongiorno, sono contenta che stai bene», mi disse restando a debita distanza.

Sciolsi le braccia ripulendo i palmi sudati sulle pieghe della gonna. E deglutii in silenzio prima di rispondere con un «Grazie».

Osservò Shon e poi di nuovo me. «Oggi non ci sarà lezione, ci sono diverse proiezioni nelle aule. Altrimenti se non avreste voglia di vedere il film, potete andare in biblioteca. Ma non dovete uscire dalla scuola fino all’ora stabilita.» ci disse osservandoci perentoria. Annuimmo sincronizzati. «Ora andate».

La ringraziamo e ci dirigendo verso l’aula di astronomia che era al secondo piano, quando fui di fronte alla zona dei lupi sentii un tonfo allo stomaco. Non c’erano e ne ero sollevata, ma il dolore del ricordo rimase lì e mi punse come una lama.

Shon mi tocco la spalla, ma balzai lontano, con la paura che nelle viscere, come un riflesso morboso, come se mi fossi bruciata, o mi avessero punta. Ero ancora terrorizzata e pensare a loro, e rendermene conto mi fece fumare di rabbia.

«Ehi, sono io, tranquilla», disse Shon mettendo le mani in alto. Le sue pupille erano sgranate, le gotte rossastre. Aveva capito. Mi morsi fortissimo le labbra, sentivo la sensazione delle lacrime soffocarmi la gola, ero patetica.

«Non devi darmi nessuna spiegazione», disse il mio migliore amico, aveva il volto deformato, sembrava dispiaciuto oltremodo e mi fece stare ancora peggio.

«Ti prego non compatirmi», gli dissi a voce bassa. Lui mosse il capo. «Certo che no, non lo farei mai, ma non potrai impedirmi di starti accanto.» aggiunse avvicinandosi.

Annuii senza il potere di emettere fiato. Presi la mano che mi porse e lo strinsi forte. Ci voltammo a sinistra verso l’aula di astronomia e la raggiungemmo. Una volta dentro, notai il monitor che avevano allestito dalla cattedra, avevano messo le sedie tutte vicine in quattro file parallele.

Qualcuno sì voltò per guardarci, ma il resto restava in silenzio mentre osservava lo schermo che proiettata un film horror in bianco e nero. Lo ignoravo il nome del film. Trovammo due sedie vicine e ci sedemmo, il professor Kaden ci diede un’occhiata salutandoci con un cenno.

Avevo ancora il sapore amaro in bocca per ciò che mi successe poco fa, strinsi le mani nel grembo e tirai un sospiro. Dopo un po' iniziai a rilassarmi, non sentivo più le spalle tese e il cuore incominciò a battere regolarmente. C’era qualcuno che sussultava mentre davano una scena dove l’aggressore ricorreva il ragazzo con il berretto in mezzo a un campo di mais per ucciderlo.

Trattenni il fiato quando lo raggiunse da dietro con l'ascia in mano, ma non mi scomposi, notai Shon chiudere gli occhi poi passarsi le mani in volto.

Sorrisi con l’angolo della bocca. Era dannatamente carino quando aveva paura. Ci misi dieci minuti ad annoiarmi, guardai Shon che era immerso nel film e sospirai silenziosamente. Mi avvicinai col busto.

«Shon, non ce la faccio a guardare il film, io vado in biblioteca», gli sussurrai all’orecchio. Il mio migliore amico si volse verso di me di scatto interrompendo il contatto visivo col film.

«Vengo con te. Andiamo», disse deciso prendendo il suo zaino da terra. Aprii le labbra per dirgli che non era tenuto a farmi da guardia del corpo, ma a chi volevo darla a bere. Avevo bisogno di lui, ora più che mai. Annuii e mi misi lo zaino in spalle dirigendoci fuori dall’aula.

«Grazie», alitai guardando in basso. «Smettila, lo sai che-», lo interruppi di scatto fermando il passo e posizionandomi di fronte a lui.

«No, Shon, sul serio. Grazie. Sei l’amico migliore che potessi mai chiedere all'universo. Ti voglio bene», conclusi mordendomi l’interno della guancia. Gli occhi ambra del mio migliore amico brillavano. Era silenzioso, ma sorrideva.

«Finalmente l’hai capito che sono l’unico nella tua vita Lilla Baker. Cosa sarebbe la tua vita senza di me», scherzò guardando in alto, come se stesse visualizzando la scena. Lo spinsi per la spalla e sorrisi.

«Te la tiri troppo per i miei gusti», sospirai mettendo il peso da un piede all’altro con le braccia incrociate. Shon sorrise. Ci voltammo verso sinistra per superare la mensa e prendere le scale che portavano al terzo piano verso la biblioteca. Non c’era nessuno a quel piano. Tutti gli studenti si trovavano nelle aule a vedere i film, c’era qualcuno che gironzolare per i corridoi, vestito da Dracula, diverse ragazze che indossavano abiti da strega con i capellini a punta stavano parlottando in mensa, le superammo ed entrammo in biblioteca.

La signora Darcy, alzò il volto dal libro che stava leggendo quando entrammo. La salutammo con un: «Buongiorno», e superammo i primi scaffali che stavano in parallelo fra di loro divisi da uno stretto corridoio che portava a dei tavoli con le sedie in fondo.

Feci scivolare lo zaino dalla spalla sopra il tavolo e mi sedetti di fronte a Shon. «Che facciamo qui?», chiese stringendo le labbra.

Mi strinsi in spalle e guardai a destra e sinistra «Potremmo leggere un libro». «Mhh. Giusto, giusto», rispose triando fuori dallo zaino un quaderno. «Mi passerò gli appunti di storia», convenne.

Feci la stessa cosa, leggendo in silenzio. Dopo poco sentimmo un rumore di un libro che cadeva dallo scafare, la signora Darcy mugugnò qualcosa a voce bassa e tornò a guardare di nuovo il suo libro. Osservai bene la stanza, non c’era nessuno alla parvenza, ma strinsi gli occhi dando un’occhiata alle file che stavano in parallelo fra loro.

«Che c’è?», chiese il mio amico. «Niente», tornai a leggere il mio libro. Il profumo di carta e di legno, si fece più intenso, poi un’ombra catturò i miei riflessi ed io alzai lo sguardo di scatto curiosa.

Non vidi nessuno, ma la curiosità ebbe alla meglio. «Aspetta vado a controllare», Shon si strinse in spalle e continuò a leggere. «Nella sezione C, ci dovrebbero essere dei libri che parlano di Roosevelt, portamelo già che sei in piedi», annuii stringendo la gonna plissettata e mi avviai verso gli scaffali.

Ci poteva stare chiunque, oppure nessuno, ma il mio sesto senso non mentiva, qualcuno mi stava osservando da quando avevo messo piedi in biblioteca. Anzi, fin da quando ero scesa dall'auto del mio amico.

Camminai silenziosamente superando le prime due file, alzai il collo per leggere la targhetta con l’apposita sezione quando nella quarta fila cadde un altro libro dal quinto scaffale producendo un tonfo sul pavimento.

Aggrottai la fronte e mi volsi a destra e sinistra, le mani incominciarono a sudare così li ripulii di nuovo sulla gonna. Mi avvicinai, afferrai il libro e lessi “William Shakespeare” sulla copertina.

Osservai dal foro che c’era vuoto di due libri, ma non vidi nessuno. Lo misi apposto. All’improvviso sentii due passi dall’altra parte. Il cuore mi scoppiava nel petto velocissimo.

«Chi c’è?», chiesi a voce bassa stringendo le mani a pugno per allentare la tensione. Non ebbi nessuna risposta. L’idea che ci fosse qualcuno lì dietro per farmi male mi fece schizzare lo stomaco in gola. Camminai velocemente verso la sezione C che faceva ad angolo con la B e la D,

“Roosevelt, Roosevelt, Roosevelt” lo cercai in silenzio camminando velocemente alzai il collo verso gli scaffali più in alto, e mi piegai appena verso quelli più in basso, andai avanti, dove c’era lo stretto passaggio che separava la sezione C dalla D.

Lo cercai con il dito puntato sui libri e finalmente lo trovai, era nello scaffale tre, il penultimo libro. Lo estrassi e per magia tirai un sospiro di sollievo.

Potevo tornarmene di nuova da Shon. La pelle mi formicolio come se avesse preso una scarica elettrica dal mignolo fino alla cute. C’era qualcuno dietro di me che respirava come se fosse un toro impazzito. Sentii il cuore sprofondare nello stomaco e aprire una voragine sotto ai miei piedi.

Trattenni il fiato, quando non sentii nessun profumo particolare, era come se fossi impossibilitata a voltarmi, la mia paura non me lo permetteva .

Sentivo le mani tremare appena, e mi voltai di scatto verso la persona che mi stava dietro. Sgranai gli occhi pronta a tirare un urlo dal profondo delle mie viscere quando lo vidi arrivare talmente vicino con passi leggeri e pigri, le spalle larghe, lo sguardo nascosto sotto quella ciocca nera. Si avvicinò tanto che i nostri nasi si potevano toccare per un soffio.

Aveva addosso un maglione nero, i jeans neri e i soliti anfibi neri che lo rendevano il figlio di satana in persona.

Mi stava fissando coi suoi occhi grigio-azzurri, aveva il volto era imperturbabile, si piegò appena poggiando le mani ai latti della mia testa, le sue braccia erano tese e mi imprigionò completamente contro lo scaffale sospirando,  l'aria mi solleticò le ciglia.

Ero all’angolo. Non riuscivo a emettere suono, era come se non avessi la facoltà di parlare e di agire allo stesso tempo. Lui non profumava di agrumi. Mi fissò, in silenzio, troppo a lungo, passo lo sguardo sul mio volto ed io mi sentii bruciare come se fosse una mano invisibile che lambiva i miei occhi, le mie guance il mio naso, le labbra.

Sentii lo stomaco serrarsi di scatto, il suo sguardo era qualcosa di incomprensibile, non lasciava trapelare nulla, se non dei pensieri muti dove a me non era concesso di entrare.

«Caleb», soffiai dalle labbra, e sentii la scossa elettrica trapassarmi il volto come una catena decisa trapassava il corpo di una persona.

«Ciao, bellissima, bellissima, piccola occhi viola». Rispose con la voce bassa e roca leccandosi le labbra.

SPAZIO AUTRICE

Lo so che vi lascio sempre sul più bello, ma mi farò perdonare  ve lo prometto!

Baci, baci,
💜Kappa_07🦋

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