Lilla
Capitolo 30
"Il silenzio punisce le persone come una frusta data con la massima forza.
Il silenzio se sapete come portarlo può uccidere più di una pallottola di piombo"
CD: Kappa_07
Stavo cercando di nascondere le occhiaie di fronte allo specchio con del correttore. Sembravo uno zombi. Mi ero fatta la doccia solo ieri sera ma era come se i miei capelli avessero una propria volontà. Erano tutti elettrizzanti per via del vento e dell'umidità; sembravo Edward mani di forbice, a differenzache forse lui era più felice di me. Frustrata, presi un elastico sopra il comodino e li raccolsi sulla nuca alla bell’e buono e dopo essermi messo il mascara per coprire il fatto di non aver dormito per tutta la notte dalla paura che i lupi tornassero, ero uscita dalla stanza.
In cucina avevo salutato Shannon prima di uscire di casa, ma nessuna delle due spiaccicò parola.
Shon era venuto a prendermi con la sua nuova Audi di zecca blu metallizzata e ora ci trovavamo entrambi sui gradini dell’ingresso della scuola più famosa di Little Falls.
Guardai il cielo nuvoloso, ero sicura come la morte, che sarebbe piovuto in giornata. Il maglione e la giacca nera che avevo addosso mi coprivano abbastanza da non avere freddo, ma per una volta non mi preoccupai essendo che sarei tornata a casa insieme a Shon in macchina.
Una volta nei corridoi, vidi tutti gli occhi dei presenti addosso a me. Sapevo che non vedevano l’ora di sbizzarrirsi con le loro idee. Infatti vidi un gruppo di ragazze avvicinarsi pericolosamente con dei contenuti in mano, ma all’improvviso si fermarono.
Tutti si fermarono, anche Shon resto incredulo. I suoi occhi marroni si dilatarono a più non posso, così curiosa mi voltai, ma una aura mi sovrastò, era Dean, che teneva un casco nero in mano e si affiancò a me e a Shon.
Sorrisi e mi sentii in imbarazzo, ma per lo più lo trovai stupendo. Dio quanto era bello vestito di grigio. Aveva dei jeans scuri addosso una camicia nera sotto e una giacca di pelle grigia sopra. I boccoli biondi li erano finiti sulla fronte ed io sentii il bisogno di toccarli.
«Buongiorno», asserì mettendosi al nostro fianco. «Dovresti chiudere quella bocca altrimenti ti entreranno le zanzare» si rivolse a Shon sorridendo con l’angolo della bocca.
Sentii le farfalle allo stomaco osservandolo. Era semplicemente bellissimo.
«P-perché sei qui con noi?», gli domandò il mio migliore amico con le pupille dilatate mentre stringeva fortissimo le spalline dello zaino.
Dean si strinse nelle spalle guardandolo. «Perché ho voglia», rispose con nonchalance scuotendo le spalle. A quel movimento pure i suoi boccoli si mossero seguendo d’istinto la forza di gravità.
«E loro? Perché stanno venendo verso di noi?» chiese Shon aggrottando la fronte. Confusa mi voltai perplessa dietro per vedere di chi si trattava. Strabuzzai gli occhi quando vidi le tre cheerleader avviarsi decise verso noi tre. Era Penny, vestita con una gonna di jeans e una camicia bianca, i capelli sciolti in grandi boccoli, la prima della fila, con dietro di sé Stefany Gordes, una delle more più belle della scuola, aveva addosso un vestito total black e un piercing al naso e uno al sopracciglio. Affianco alla sua destra c’era Magdalein Smith, coi suoi tacchi altissimi e indossava un paio di jeans scuri e una camicia blu. Erano tutte e tre bellissime e si dirigevano come se fossero delle vere regine verso di noi, con tutti gli occhi dei presenti addosso.
Guardai Shon ammirare dalla testa ai piedi le ragazze e Dean rivolgere un sorriso a tutte. Una volta che si fermarono di fronte a noi sbattei le palpebre diverse volte per capire che era tutto vero e non stavo sognando.
«Ciao ragazzi», ci salutò Penelope.
«Ciao…», sia io che Shon rispondemmo all’unisono come delle vere automa. Le altre due sorrisero avvicinandosi.
«S-siete venuto per?» chiese Shon balbettando. Anche se cercò di nascondere bene la sua perplessità tossendo.
Stefany sorrise: «C’è qualche problema se vogliamo stare qui?» domandò rivolgendosi a Shon con determinazione. Shon batté le palpebre senza dire nulla il viso della ragazza era serioso. Poi all’improvviso scoppiò a ridere. «Rilassati, stavo scherzando.»
«Dean si è espresso…», aggiunse Magdalein osservandomi col mento in alto. «E noi seguiamo i lupi ovunque loro vadano.»
Aggrottai la fronte perplessa per la sua dichiarazione.
«Mica siete…» “delle pecore”. Ho capito Shon. Ma Shon non fini la frase. Mi morsi l’interno della guancia per non ridere. Conoscevo troppo bene il mio migliore amico.
«Siamo amici prima di tutto. E far arrabbiare Caleb, ci fa piacere avvolte. Specialmente se farlo arrabbiare è proprio Dean.»
Alzai lei sopracciglia sorpresa mentre strinsi forte le labbra.
Questi qui avevano un’idea tutta loro dell’amicizia.
«Oh su, smettetela ragazze.» disse Penelope rivolgendo il busto verso di loro. Poi si volse e ci guardò in alternanza, sia me che Shon. «Ci piacete. Quindi stiamo facendo squadra per contrastare Caleb». Concluse catturando i miei occhi.
Strabuzzai gli occhi. Osservai Dean restare pacato e per nulla sorpreso, mentre fece uno sbadiglio subito dopo.
«Tuo fratello non sarà tanto d’accordo» disse alla ragazza.
Lei mosse la mano con nonchalance stringendosi nelle spalle. «E chi se ne frega.»
Dean annuì in silenzio. «Non voglio crearvi problemi». Gli dissi a tutte e tre. «So quanto siete importanti in questa scuola e so che loro non prendono alla leggera queste decisioni. E non fraintendetemi, mi fa molto piacere il fatto che volete essere delle nostre amiche…» indicai me e Shon. «Ma non voglio che vi capiti nulla per colpa mia.»
«Oh su, questo non è vero. Quei lupi non ci comandano. E per quanto ci riguarda, non siamo per nulla d’accordo col gioco di Caleb. Quindi, in un modo o nell’altro saremmo riusciti a trovarci ugualmente. E poi mi sento tanto in colpa per venerdì. Ti ho abbandonata, ma ti giuro che ti ho cercata. Tutte e tre ti abbiamo cercata, ma quando abbiamo visto che non era rimasto più nessuno a scuola, ho pensato che te ne fossi andata.»
Mi mancò un battito al ricordo del venerdì e al fatto che ancora non sapevo chi mi avesse rinchiuso in quello sgabuzzino con Caleb. Deglutii cercando di non far trasparire nulla.
«Tranquilla», riuscii a dire soltanto questo. Penelope si avvicinò prendendomi le mani e le strinse forte.
«Davvero Lilla, mi dispiace. Dopo quell’attimo sfuggente in corridoio poi non ti ho più vista e quindi io… me ne sono andata». Disse con un filo di voce all’ultimo.
Le regalai un sorriso flebile. «Tranquilla, sul serio.»
«Ora se abbiamo finito dovremmo andare ognuno alla propria lezione» disse Dean spezzando quegli attimi di imbarazzo. Almeno da parte mia dato che non potevo raccontare alla ragazza che cosa era davvero successo quel giorno.
Appena io e Penelope ci separammo, degli ululati fuori mi fecero sobbalzare. Sentii il rumore delle moto e il mio cuore iniziò ad impennarsi di più.
Stavano arrivando e dopo quella bravata di ieri sera, avrei voluto nascondermi da qualche parte per non essere più vista. Avevo l’acido nello stomaco. Tutta la giornata di ieri mi sfrecciò davanti agli occhi come un brutto ricordo. Il litigio con mia zia, il commissariato, loro fuori casa mia…
Sentii dei sospiri levarsi e il mormorare intorno a noi diventò più pesante. Chiunque ci stesse guardando prima, rivolse le loro attenzioni alla porta d’ingresso. Perché alla fine non c’era nessuna persona nell’intera scuola che non li temeva.
Col respiro sospeso vidi in slowmotion la porta cigolare poi spalancarsi di botto e i tre lupi entrare dall’ingresso decisi, avevano tutti e tre dei jeans e degli anfibi addosso tranne lui che portava una giacca di pelle nera come se fuori non ci fossero stati cinque gradi.
Eliot aveva una giacca scamosciata color blu scuro e guardava dritto avanti a sé come se nulla gli importasse. Lenny indossava un giubbotto verde scuro e salutò qualcuno appena all’ingresso fischiando e facendo un apprezzamento per qualcosa.
E lui, il diavolo in persona. Nella mano destra teneva un casco nero. Gli anfibi scuri rilucevano come se fossero stati di vetro e i suoi occhi blu come il cielo in estate guardavano fissi dritto davanti a sé.
Tutti e tre ci guardarono. Il piccolo gruppo improbabile che eravamo diventati in meno di cinque minuti e i suoi occhi divennero due burrasche in tempesta. Notai con la coda dell’occhio Dean che li fissava come se fosse totalmente annoiato e strinsi le mani a pugno per contenere la tempesta che avevo nel petto.
Sembrava quasi che non esistevamo per loro. Ci superarono tutti e tre e solo quando vidi la schiena di Caleb che si allontanava nella direzione delle scale che tirai un sospiro di sollievo.
“Forse mi lasceranno in pace.”
Ma neanche dirlo, uno dei giocatori di basket, si avvicinò con una palla in mano e in pochissimi secondi lo scaravento verso Shon.
Il mio cuore si fermò di colpo quando vidi la palla centrare il mio migliore amico in pieno stomaco.
«Ah!», urlai, oppure urlò lui, non me lo ricordo, poiché avevo il cuore in gola e le lacrime agli occhi. Per la rudezza della scena.
Il mio amico cadde a terra dolorante mente si teneva lo stomaco con le mani. Sentivo il cuore rimbombare nelle orecchie e la voce di Dean imprecare mentre tutti ci precipitammo per aiutarlo.
«No, no, no, no, no!!! Ti prego Shon stai bene? Shon?», domandai in preda al panico mentre per la prima volta sentivo la voce del rettore Geremy Gordes avviarsi verso di noi.
«In infermeria subito!» disse con la bava alla bocca per la rabbia. «E Tu! Nel mio ufficio. Ora!» gli urlò al ragazzo che lo aveva ferito.
Mi sentivo come fossi immersa nelle acque profonde e tutto stesse accadendo al rallentatore. Ero in sogno, lo dovevo essere per forza. Alla bocca dello stomaco mi si rimescolo tutto e la rabbia bussò sulla corteccia del cervello. Strinsi forte i denti dalla rabbia e aiutai l’infermiere che stava cercando di sollevare Shon dolorante insieme a Dean.
«Ti prego perdonami è tutta colpa mia.» gli dissi mentre una lacrima scivolava sulla guancia. La pulii con rabbia. E cercai di estraniare il mio dolore per restare accanto a Shon.
Il preside ci accompagnò fino all’infermeria, e dopo essersi assicurato che Shon stesse bene, se ne andò portando con sé anche le ragazze che ci avevano seguite.
«Tutti a lezione. Ora, subito!» esclamò determinato, mentre si rimetteva apposto la cravatta storta.
«Non lascio da solo il mio amico!» gli risposi dura osservandolo negli occhi scuri.
«Lilla, vai. Starò bene», dissi Shon sofferente ancora con le mani ben strette allo stomaco.
«È tutta colpa loro. È tutta colpa dei lupi!» urlai acida mentre la rabbia mi attraversava il corpo a ondate.
Il preside si passò le mani sul volto e si avvicinò a Shon per sincerarsi che stesse bene.
«Signorina Baker. Vada in classe ora.» mi ordinò deciso.
Restai muta ad osservarlo determinata, ma sapevo di non poter fare nulla. Lui era il preside.
«Andiamo Lilla.», mi catturò il braccio Dean. Non fece forza, ma mi spronò a muovermi essendo che ero rimasta ferma ad osservare l’uomo brizzolato di fronte a me che mi guardava a sua volta.
«Lei deve punirli. Li deve espellere per ciò che hanno fatto a Shon.» gli dissi prima di andare via con la rabbia nelle vene.
«Non sono stati loro Lilla. Agli occhi di tutti, non sono stati loro» Dean mi parlò con calma, ma sapevamo entrambi che le azioni di quel ragazzo erano state emesse dai lupi. Nessuno aveva mai attaccato Shon prima.
«Devono pagare!» sibilai a denti stretti. «Lui deve pagare per tutto!»
«Non è stato lui…» disse Deciso Dean fermandosi e mettendosi di fronte a me. Aggrottai la fronte.
«Non è stato Caleb Lilla.» deglutii osservandomi. «Caleb ha qualcosa di terribile in mente per te, ma non è stato lui a dire a Mason di prendersela con Shon.»
Sentii ogni osso, ogni nervo e ogni atomo del mio corpo spezzarsi come se fossi stata dentro una centrifuga.
“Caleb ha in mente qualcosa di terribile per te”.
È stato come se qualcosa mi avesse lacerato ogni parte di me con una rabbia e con un’intensità spropositata. Crollai appoggiandomi al muro, mentre le gambe mi tremavano.
Il ragazzo che diceva di volere andare a letto con me, quello che si era intrufolato a casa mia e che dopo aver fatto tutto quello che le faceva comodo, si era seduto ai piedi del mio letto e mi aveva chiesto di innamorarmi di lui.
Come si poteva essere tanto cattivi e senza cuore?
«Lilla, ehi!», Dean si precipitò per reggermi, ma mi rifiutai, e feci appello a ogni parte di me per non tremare di fronte a lui. Alzai lo sguardo velato di lacrime nel suo e senza sapere cosa mi dicesse la testa svuotai il sacco. Tutto. Gli raccontai tutto.
«Caleb è venuto da me sabato e…», deglutii in vano, ma il ferro spinato che avevo in gola rimase lì. «Mi ha… lui mi ha fatto fare delle cose. Io non volevo, ma lui lo ha fatto lo stesso e il peggio è…» scoppiai a piangere disperata, mente strisciavo verso il pavimento con il cuore in gola e senza nessuna forza per fermare l’ansia e l’impotenza che sentivo dentro di me.
«Lui mi ha detto che dovevo aspettare fino al mio…», mi si incrinò la voce, poiché il cuore batteva all’impazzata nel mio petto mentre Dean mi stringeva le mani per scoprirmi il volto.
«Ecco lui, mi ha proposto un patto e io…», altre lacrime mi rigarono il volto. Sentivo la disperazione aggrapparmi il petto. E la sensazione dell’imminente vomito bussare sulla bocca dello stomaco.
«Ieri sono andata dalla polizia, mia zia voleva denunciarlo, ma io mi sono tirata indietro perché non volevo che facesse del male a Shon…», mi si ruppe la voce dalla disperazione del ricordo di ciò che stavo rinvangando. Sentivo il respiro sempre più corto.
«Lilla, tranquilla. Respira okay…» Dean mi strinse forte una spalla per tranquillizzarmi ma ero prossima a un attacco di panico nel corridoio tra l’infermeria e la mensa. Dean volse lo sguardo a destra per assicurarsi che non ci fosse nessuno e facendo leva sulle mie braccia mi tirò su.
«Andiamo, non qui…», disse portandomi lungo il corridoio dove c’era la mensa e la zona ritrovo per gli studenti. Superammo le prime due aule e prendemmo le scale a sinistra che portavano alla biblioteca. Mi sentivo indolenzita dappertutto. Cercai di darmi un contegno, ma ero troppo stressata, troppo ferita, troppo tutto.
Una volta di fronte all’aula di astronomia, Dean aprii la porta accese la luce e mi condusse dentro chiudendoci all’interno.
«Che cosa ti ha fatto Caleb, Lilla». Non fu una domanda la sua. Fu più una vera constatazione con la rabbia che faceva cambiare colore ai suoi occhi grigi in una burrasca tempestosa. La voce sembrava un timbro impastato di rabbia.
«Lui, mi ha minacciata, e mi ha detto che…», mi si ruppe di nuovo la voce dal singhiozzo, mi portai una mano al petto per cercare di tranquillizzarmi. Dean aveva le mani strette a pugno, la mascella ben serrata. «Mi ha detto che se facevo ciò che mi chiedeva, non avrebbe toccato più né me né Shon, ma oggi lui…», mi tappai la bocca per non piangere.
Ero distrutta. Caleb mi aveva annientata definitivamente.
«Non è stato lui, ma Lilla...» mi tirò su il mento, lo osservai con lo sguardo velato dalle lacrime copiose che mi avevano rigato il volto. Gli occhi mi bruciavano.
«Non è stato lui, ne sono convinto. Ma comunque sia, questo non lo scagiona da ciò che ti ha chiesto di fare. È il mio migliore amico, vero. Ma lo sei anche tu, adesso. E io non posso stare ignaro di fronte a uno stupro. Non posso.»
Sentii le guance andare a fuoco e un pezzo di me finire per terra. Mi sentivo così umiliata. Poi all’improvviso fui presa e abbracciata dal ragazzo più gentile di tutti. Dean mi sovrastò col suo corpo e mi strinse forte in un abbraccio di pura sincerità mentre mi accarezzava i capelli come se fossi una bambina bisognosa di affetto.
Mi aggrappai alle sue grandi spalle e piansi. Piansi per le ingiustizie che mi avevano inferto, piansi per la vergogna di ciò che avevo lasciato a Caleb di farmi e per l’impotenza delle mie strane sensazioni quando ero da sola con lui.
Piansi perché non facevo altro che sentirmi in colpa. E sapevo che tutto quello che era successo era tutta colpa mia. Non so quanto tempo era passato. Forse un’eternità per quello che mi importava, ma mi calmai. Fra le braccia di quel ragazzo che reputavo fosse un angelo, smisi di piangere mentre venivo cullata lentamente sul marmo freddo del pavimento.
Avevo bisogno di essere compresa, una persona non poteva sopportare così tanto. E sapevo che stavo diventando pazza. Il mio subconscio era precario, e gli attacchi di panico erano sempre più prossimi. Avevo bisogno di aiuto, lo sapevo io, lo sapeva mia zia, e ora lo sapeva anche Dean.
«Tranquilla. Ci penso io a Caleb. Ti prometto che non ti farà mai più del male».
Annuii, anche se non ne ero poi così tanto convinta e silenziosamente uscimmo dall’aula di astronomia. Avevo bisogno di lavarmi il volto ed ero più che convinta di avere le occhiaie per via delle lacrime.
Una volta separata da Dean entrai in bagno e mi ripulii il volto al meglio che potevo coll’acqua fredda. Sentii la pelle d’oca fare eco al contatto con l’acqua e cercai di tranquillizzarmi per avviarmi alla lezione di inglese. Sapevo che non c’è l’avrei fatta, ma dovevo provarci per il mio bene.
D’istinto mi sentii osservata. Ogni fibra del mio corpo si paralizzò, ma ebbi l’accortezza di chiudere il rubinetto e fare un lungo sospiro. Con la coda dell’occhio notai una sagoma nera alla sinistra, non si stava nascondendo, semplicemente era lì, che mi osservava coi capelli scuri che gli ricadevano sulla fronte, e quelle gambe lunghe ben piantate a terra. Era silenzioso, come se stesse studiando il terreno mentre si reggeva alla colonna della porta del terzo bagno delle femmine che faceva ad angolo.
Il cuore batteva fortissimo nel mio petto mentre stringevo le mani a pugno per non andargli incontro e fracassargli il volto.
«Ti ha fatto sentire meglio?» la sua voce roca e tenebrosa, quando era bassa, era ancora più minacciosa se possibile, ma non so perché, non sembrava “arrabbiato”.
Uscì dall’angolo cieco dove si era messo e mi venne di fronte con le mani nei jeans scuri e gli occhi fissi su di me.
Mi tremò il labbro.
«Dimmi, Violetta. Parlare con lui ti ha fatto sentire meglio?» mi domandò ancora restando fermo a diversi passi da me. Mi stava studiando, aveva gli occhi azzurri leggermente socchiusi, la mascella ben serrata e il respiro regolare.
«Sì» gli risposi flebile. Avevo la gola secca. Ero a pezzi.
Lui batté le palpebre, osservando un punto indefinito del mio volto. Forse gli occhi, oppure il mento., non sapevo dirlo con certezza «Non sono stato io» disse in fine.
«Non te l’ho chiesto.» risposi a denti stretti restando sulla difensiva a con le mani strette a pugno.
«No, non lo hai chiesto. Ma voglio che tu lo sappia lo stesso. Non sono stato io».
Mossi la testa con veemenza. «Non ti credo. E anche se forse stai dicendo la verità. È comunque colpa tua. Ci hanno presi di mira per colpa tua.» Alzai la voce, anche se il mento continuò a tremare, e le lacrime salirono prepotenti agli occhi.
Caleb si avvicinò facendo un altro passo e annuì in silenzio senza dire nulla.
«Quella palla doveva essere destinata a me, non a lui. A me!» M’indicai col dito, mentre la frustrazione mi logoravano da dentro come un mostro assetato di sensi di colpa.
Il lupo strinse la mascella, rivelando quel muscolo invisibile sulla guancia destra. Deglutì con gli occhi azzurri adombrati e trasformati di collera.
«Non è così. Nessuno ti può toccare». Disse in fine stringendo le mani a pugno.
Risi, una risata isterica col gli occhi pieni di lacrime. «Ah sì? Tu dici?»
Restò muto, osservandomi come se fossi un cazzo di animale ferito.
Feci una smorfia di rabbia e senza voler nemmeno per un secondo spendere altro fiato per parlare con lui, uscii dal bagno spedita verso la lezione.
Sapevo che mi stava seguendo, e se si fosse avvicinato solo per sbaglio, gli avrei dato un pugno dove non batte il sole, ma appena misi piede nel corridoio degli armadietti di fronte all’ingresso. Aggrottai la fronte.
Diversi agenti della polizia si precipitarono all’interno. Senti il cuore fare un tonfo nel vuoto e lo stomaco stringersi in un pugno. Poi mi voltai indietro. Vidi Caleb fare un ghigno nella mia direzione mentre diversi agenti si avvicinavano con l’arma puntata contro di lui.
«Caleb War, la dichiaro in arresto, è pregato di tenere le mani bene in vista e consegnarsi di sua spontanea volontà, altrimenti apriremo il fuoco. Ogni azione o parola può essere usato in tribunale contro di lei. Si arrenda».
Disse un agente mentre si avvicinava. Sgranai gli occhi osservando quel ghigno col cuore che mi rimbombava nelle orecchie. Alzai lo sguardo nel suo mente veniva ammanettato dai due poliziotti e trascinato via. Rimasi lì ad osservare la scena surreale mentre tutti, i professori, il preside, gli studenti, ogni singola persona era uscito fuori dalle aule per vedere cosa stesse succedendo.
Al rallentatore vidi il preside tentare di cercare di capire quella azione, e Eliot e Lenny esprimere una rabia cieca con il loro sguardi mentre si avvicinavano per fare scudo a Caleb ma senza successo perché furono decisamente allontanati a furia di forza da tre agenti ciascuno.
«Cazzo, non ha fatto niente, lasciatelo subito!» urlò Eliot col gli occhi neri in fiamme. Erano intrisi di una rabia che non avevo mai visto prima.
«Allontanati ragazzo» disse Lizzy guardandolo male col volto di ghiaccio. «Altrimenti dovremmo prendere anche te!»
Eliot spinse gli agenti, ma anche un quarto si avvicinò per trattenerlo. «Mio padre ve la farà pagare» sputò acido. Mi ero appena resa conto che il padre di Eliot Reed era il ministro delle forze dell’ordine. Un veterano della guerra in Afghanistan. E uno dei colossi del rango più alto per quanto riguardava alla giustizia.
«È stato tuo padre a dare l’ordine ragazzo. Ora allontanati prima che cambi idea e metta le manette anche a te». Gli disse Lizzy con la determinazione negli occhi.
Eliot sgranò gli occhi incredulo, ma la luce macabra che li attraversò mi fece nascere un brivido lungo la schiena.
Entrambi i lupi rivolsero lo sguardo verso di me. Lenny mi osservò con la mascella serrata e Eliot rimase imperturbabile. Capii perfettamente che mi ritenevano colpevole, e per quanto cerchi di restare calma, il mio cuore già scoppiettante nel petto, prese a battere ancora più forte. Loro mi ritenevano la causa di tutto questo casino.
Una voce nella testa mi diceva che…
Dov’era Dean? Non lo scorgevo da nessuna parte, ci eravamo lasciati quando ero entrata in quel bagno circa dieci minuti fa e…
Strabuzzai lo sguardo quando lo vidi sulle scale, annoiato, e col telefono in mano mentre mi osservava con il volto imperturbabile.
“Ci penso io Lilla. Te lo prometto.”
Le sue parole mi urtarono il cervello e mi squarciarono la mente. Dean aveva appena tradito Caleb per me.
Io avevo appena tradito Caleb raccontando tutto a Dean. Io avevo appena condannato il mio nemesi. Io avevo…
Guardai di nuovo Caleb, i suoi occhi non si erano staccati dal mio volto nemmeno per un istante. Sentivo la voce incastrata in gola. Avevo bisogno di urlare. Lui doveva sapere che io non volevo. Ma quel ghigno tanto macabro quanto crudele mi fece morire ogni gesto, ogni parola, ogni idea o pensiero sul nascere.
Lo portarono via, mentre negli corridoi si creava il caos più totale. Caleb mi volse la schiena e come se fosse soltanto un incubo, anche gli agenti, uscirono dalla porta con lui ammanettato a seguito.
Avevo appena fatto arrestare Caleb War.
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