Lilla

Capitolo 15

"Quando il tuo dolore si addormenta , non lo svegliare. 
Sta interpretando i sogni".

R. CALÓ

Restai con l'amaro in bocca. La strada fino al banco mi sembrò lastricata e troppo lunga, il mormorare degli altri studenti che stavano raggiungendo la classe mi intorpidirono il senso dell'udito, nella testa avevo il grido dell'angoscia e nelle narici ancora il suo profumo di agrumi che mi riempiva i polmoni a lungo.

Presi posto in un banco in fondo con la testa in subbuglio, le cosce mi tremavano come se avessi corso una maratona. Il ricordo di ciò che gli avevo lasciato fare mi fece stringere la mascella fino a dolermi i denti.

"Oh, ma smettila, non è mica colpa sua se tu ti lasci andare così facilmente"

Beh, non c'era che dire; la mia coscienza non mi lasciava scampo nemmeno una volta e io sarei stata estremamente egoista a negare che un po' colpa mia lo era. Però era impossibile riuscire a rimanere lucida quando il lupo nero mi braccava in quel modo. Era come se tutto ciò che faceva fosse un modo per farmi capire che mi aveva sotto controllo e lungi da me lasciarglielo credere, ma alla fine finivo sempre per fare errori su errori.

Quando la professoressa entrò in classe, iniziò a spiegare la lezione, inutile dire che restai per un'ora buona ad ascoltare le forme delle molecole e a prendere appunti disastrosi. Non avevo ne voglia, ne testa per seguire la lezione.

Ad un certo punto cercai di estraniare il baccano che avevo in testa finché non sentii il campanello titillare comunicando la fine della lezione.

La prima cosa che feci è stato quello di chiamare mia zia. Dopo il quinto squillo buttai giù la chiamata e le scrissi un messaggio chiedendole un passaggio. Purtroppo, Shon non c'era, era andato a comprare la sua prima auto e non potevo disturbare nemmeno lui o sua madre; quindi, con un lunghissimo sospiro mi avviai verso il mio armadietto inconfondibile grazie alla dalia nera disegnata sopra, avevo un ombrello lì, e nonostante la paura per i tuoni, dovevo andarmene da qui.

Così decisi di fare un tentativo e raggiungere casa a piedi quando un gruppo di studenti mi passò a fianco indirizzandosi verso gli spalti del campo. Alzai di nuovo lo sguardo verso il cielo. Si preannunciava una giornata brutta, il freddo mi frustò il volto e le nuvole nere avevano totalmente coperto il sole. Le prime gocce di pioggia stavano già iniziando a cadere.

«Lilla!» mi chiamò quella che doveva essere la voce di Penelope.

Mi voltai a sinistra e incontrai i suoi occhi azzurri.

«Ciao, sta per piovere forte» le dissi indicando il cielo.

«Eh, lo so. Tu non vieni a vedere la partita?»

Mossi il capo per dire di no. Penelope indossava il suo costume da cheerleader, il colore viola con le strisce bianche e nere adornavano la stoffa, aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo e impreziositi dal fiocchetto viola scuro.

«Oh, dai su, vieni. Te lo do io un passaggio dopo la partita.» senza attendere una mia risposta mi agguantò il braccio e mi trascinò con sé verso gli spalti.

«Oh grazie, ma a dirla tutta, non mi va di vedere la partita.» cercai di divincolarmi.

«E perché mai? È al coperto? Niente pioggia, e il divertimento è assicurato.»

"Per chi?" pensai tra me e me.

«Su, Lilla, vieni, i lupi non potranno farti nulla, te lo prometto.»

Storsi il naso, sospirando. «Basta che poi mi porti a casa però.»

«Promesso ragazza. A proposito, hai proprio dei bei occhi lo sai?»

«Sì me lo hanno detto» le risposi di rimando. «Anche tu.» le feci notare.

«Lo so» Rispose con un'alzata di spalle.

Rimanemmo entrambe a sorridere per un attimo finché le gocce di pioggia non iniziarono a scendere più abbondanti. Allora ci dirigemmo verso il campo da basket al coperto. La lascia andare verso le altre cheerleader e mi trovai un posto vuoto sugli spalti fra due persone che stavano chiacchierando tra loro.

«Volete mettervi vicini?» domandai gentilmente. Entrambi mi guardarono con la fronte aggrottata e non mi risposero.

"Ma che cazzo, manco fossi una marziana". E anche in quel caso, sarebbero stati molto più gentili.

Mi misi ad aspettare che la partita iniziasse, vidi all'improvviso i ragazzi che stavano facendo stretching. I quattro lupi erano tutti senza maglietta, ogni ragazza aveva occhi solo per loro, sentii un conato di vomito dalle loro facce sognanti, avevano letteralmente la bava alla bocca. Iniziai a giocherellare con l'elastico che avevo sul polso per non guardarli ma ahimè, i miei occhi iniziarono a scivolare su quell'ammasso di muscoli che si stava stiracchiando, i capelli erano scompigliati, aveva gli occhi chiusi ma il volto era girato verso gli spalti.

Incastrai gli occhi su quei tatuaggi infiniti che prendevano vita ad ogni movimento impercettibile che faceva e mi resi conto che sulla schiena aveva un unico tatuaggio enorme nero. Non riuscii a distinguere bene che cosa fosse perché i suoi occhi blu abisso mi trovarono.

L'aria si volatilizzò in un istante, trattenni il respiro a lungo, sentii i battiti del cuore arrivarmi fino in gola, le mani iniziarono a sudare. Lui mi vide. E il ricordo di ciò che avevo fatto sul suo ginocchio non molto tempo prima mi schiaffeggiò il cervello in pieno.

"Vieni alla partita", disse.

I nostri occhi si appigliarono, e se fosse stato vicino a me avrebbe visto il mio petto tremare sotto quello sguardo di sorpresa e prepotenza che mi fece per un secondo prima di nasconderlo per bene e fare finta di niente.

Deglutii interrompendo il contatto visivo di netto, non riuscii a far reagire il mio cervello, quel ragazzo mi scaturiva sentimenti contrastanti a cui non riuscivo a dare una spiegazione. Ma sapevo bene di nutrire un odio profondo verso di lui.

Odiavo i suoi bellissimi tatuaggi, detestavo il suo sorriso prepotente che sapeva quanto una montagna di promesse, ma sapevo che quelle montagne erano solo dei crani di ossa e sangue. Dovevo stare lontana da lui, per la mia sanità mentale, dovevo a tutti i costi trovare un modo per uscirne da questa situazione.

Cercai di ignorare il suo corpo statuario e guardai qualsiasi cosa tranne lui, il quale mi osservava con insistenza. Sentivo i suoi occhi addosso come se fosse stato proprio a pochi centimetri da me.

Il respiro mi si addensò a mano a mano, strinsi forte le cosce per cercare di darmi una calmata e mi concentrai sulle persone sedute agli spalti.

Poi gli schermi si accesero, la mascotte della Little Falls entrò esultando e gli studenti impazzirono, tra le urla e le grida. Volsi lo sguardo verso di lui ancora una volta prima che la partita avesse inizio e lo trovai a guardarmi a sua volta con un ghigno che annunciava qualcosa a me inspiegabile. Si mise su la canotta con il numero nove e non lasciò il mio sguardo mentre le squadre si preparavano a combattere fino all'ultimo sangue.

La tensione nell'aria era palpabile mentre la squadra della Little Falls High si preparava per la prima gara della stagione contro i rivali di sempre, la scuola di Randall. Il ricordo amaro della sconfitta dell'anno precedente pesava come un macigno sulle spalle dei quattro lupi; Dean, Eliot e Lenny, ma soprattutto sul loro leader, lo stronzo Caleb.

Il famigerato Black Wolf era determinato a vendicare quell'umiliante battuta d'arresto dell'anno precedente, ed erano ormai settimane che spronava i suoi compagni di squadra attraverso allenamenti intensi. Che continuavano, dopo la palestra, nei playground all'aperto, dove quei quattro si ritrovavano per giocare fino a tarda sera. Mi era capitato diverse volte di vederli, ma poi me lo ero svignata subito per non essere vista e per non essere presa di mira.

C'erano un sacco di ragazzi e ragazze della scuola, sugli spalti, quando la partita iniziò. Urlavano incitamenti e sostegno mentre la palla rimbalzava veloce da un lato all'altro del campo. Dean volle subito mettere in chiaro le cose, alla prima azione, cambiando di mano in una frazione di secondo, mandando fuori tempo l'avversario e, con un tiro mirato, segnando i primi due punti per la Little Falls. L'entusiasmo si diffuse a tutta la squadra, alimentato dalla ferma determinazione di Caleb e compagni.

Eliot e Lenny non erano da meno. Il Crazy Wolf, con la sua velocità fulminea e la sua imprevedibilità, intercettò la palla più volte, mentre Lenny dominava il campo di gioco a rimbalzi e stoppate. La sinergia tra i quattro giocatori era palpabile, un'armonia quasi perfetta che nasceva da tutto quel sudore e quella sofferenza. E quella voglia di vendetta.

La squadra di Randall, inizialmente sicura di sé, si trovò a dover fare i conti con un avversario ben diverso dall'agnello sacrificale dell'anno precedente. La Little Falls introdusse un gioco affilato e una precisione implacabile. Caleb, nel ruolo di play, orchestrò le giocate con abilità, leggendo il campo e adattandosi ai tentativi di cambiare gioco della Randall e del suo coach.

Il pubblico era in delirio quando, alla fine della partita, i Wolves si imposero con un margine confortevole. Dean, Eliot, e Lenny alzarono le braccia in segno di vittoria, il ghigno sul volto di Caleb tradiva la soddisfazione di una vendetta anelata e infine ottenuta. La squadra di Randall, già sulle ginocchia alla fine del terzo tempo, dovette infine inchinarsi di fronte alla determinazione e all'abilità della Little Falls.

La vittoria era più di un semplice risultato; era una dichiarazione di superiorità, una dimostrazione di resilienza e dedizione. La Little Falls si strinse a cerchio in mezzo al campo, i giocatori si congratularono tra loro, sudati ma felici, consapevoli di aver scritto però solo il primo capitolo nella loro storia sportiva. La sconfitta dell'anno precedente era stata trasformata in un trampolino di lancio per una stagione che prometteva diversamente. I quattro lupi si guardarono negli occhi fieri del loro traguardo.

La partita si concluse con la vittoria schiacciante per la squadra di Little Falls. Le cheerleader esultarono e ballarono a più non posso, quando i giocatori se ne andarono dopo un'enorme esaltazione verso gli spogliatoi e i studenti iniziarono a disperdersi verso le due uscite, mi alzai a mia volta per cercare Penelope.

Ero rimasta a vedere la partita solo perché mi aveva promesso di darmi un passaggio, ma non riuscivo a scorgerla da nessuna parte.

Quando uscii con fatica dalla porta a destra fui spinta in avanti da delle persone, quasi inciampai, ma mi ressi al corrimano per non cadere e rompermi l'osso del collo.

La gente fischiava e esaltava anche fuori nei corridoi. Mi fermai a guardare a destra e a sinistra se c'era qualcuno per un passaggio, ma non vidi nessuno volto famigliare. Sospirai in apprensione quando fui spinta di nuovo in avanti. Rovinai a terra, le ginocchia mi dolevano dalla botta contro il pavimento e rilasciai un'imprecazione ad alta voce.

«Attenta dove vai!» mi gridò qualcuno oltrepassandomi.

«Coglione» Bofonchiai sottovoce alzandomi e pulendo i pantaloni.

Un gruppo di studenti mi sfrecciò accanto urlando per la vittoria. Sembravo invisibile ai loro occhi.

Sospira di nuovo alla ricerca di Penelope, ma non cera da nessuna parte. Decisi di uscire fuori dalla palestra, il chiasso era assordante, la puzza di sudore altrettanto schifosa.

In mezzo al corridoio sentii chiamare dietro, mi voltai e a qualche metro di distanza c'era Penelope che mi cercava con gli occhi.

«Lilla sono qui!»

Feci dietro front e andai nella sua direzione alzando la mano per informarla che l'avevo sentita, ma qualcuno mi preso di peso e mi trascinò via.

«Ehi! Ma cosa fai?» gli dissi scalciando. La presa sulla vita era potente, nonostante tutta la forza che ci misi per liberarmi fu inutile. Chiunque sia stato era più forte di me.

Non sentii nessun profumo di agrumi, quindi esclusi l'idea che potesse essere Caleb, forse uno dei suoi amici? Che cosa volevano farmi?

Presi a dibattermi con forza, scalciai, cercai di liberarmi in tutti modi, dietro di me la persona che mi aveva fatta prigioniera non emise un fiato.

Il cuore mi rimbombò con dolore nel petto, mi sentii la testa svuotata per i mille pensieri che mi attraversarono in una frazione di secondo, la paura fece il suo corso e le tempie mi pulsarono.

«Ma porca puttana, lasciami!» esclamai di nuovo.

I polmoni bruciarono come se avessi corso una maratona. Stavo andando in fibrillazione. Avevo paura.

«Cazzo! Figlio di puttana!» esclamai per l'ennesima volta.

Poi la vidi.

Era una porta blu, un ripostiglio che nessuno apriva mai, nemmeno i custodi, tenevano molte cose vecchie e andate a male o rotte, come le sedie, i banchi, le lavagne. Nessuno andava mai ad aprire quella porta e lo sconosciuto mi stava portando proprio lì.

Mi si accapponò la pelle. Brividi freddi mi corsero lungo le braccia.

«Chi cazzo sei?» domandai urlando per l'ennesima volta. Non c'era nessuno in quel corridoio, non potevo chiedere aiuto, cercai di urlare ma il mio aggressore mi tappò la bocca per non farlo.

Grosse lacrime mi scesero lungo la guancia, puntai i talloni per terra facendo forza per respingere la persona dietro di me ma fu irremovibile. Era un colosso enorme, al confronto sembravo una minion.

Nella mia testa un nome fece breccia. Morsi con forza la mano che mi aveva tappato la bocca e urlai.

«Dean! Aiuto! Dean!» esclamai con tutte le forze che mi erano rimaste.

Qualcuno dietro di me rise dopo una imprecazione per il morso.

Andai fuori di testa. La paura mi si attanagliò alle membra graffiandomi le interiora, lo stomaco mi si anodo e si strinse quanto una biglia.

Avevo paura. Tanta, tanta paura.

Ci misi tutte le forze che mi erano rimaste per respingere l'aggressore ma alla fine mi spinse verso la porta, lo aprì con un calco e mi lasciò cadere sul pavimento sporco chiudendola subito dopo.

Singhiozzai fuori di me e mi precipitai verso la porta chiusa battendo le mani contro.

Sentii del rumore dall'altra parte e in pochi attimi qualcuno la spalancò. Di fronte mi si parò una persona alta vestita completamente di nero con una maschera di ghost.

Rimasi senza parole, ebbi l'impressione che stesse per venirmi un infarto.
L'individuo piego di lato la testa e rimase a fissarmi a lungo, sembrava una scena horror. Restai pietrificata, mille scenari mi si stamparono nel cervello. Pensai che sarebbe stata la mia fine.

Poi lo vidi. Qualcun altro spinse con forza un corpo enorme, nudo dalla vita in su e pieno di tatuaggi, dalla capigliatura nera come le piume di un corvo e tutto sudato.

Lo gettarono di fronte a me a peso morto. Capii che qualcuno lo aveva tramortito.

Ma perché?
Perché diavolo Caleb si trovava insieme a me dentro un cazzo di sgabuzzino?

Non feci in tempo ad aprire la bocca che la porta si chiuse con forza di nuovo facendoci piombare nel buio totale.

Caleb era a terra, sembrava dormire. Per un attimo restai pietrificata. Non faceva tanto freddo, ma mi sembrò che in quella stanza le temperature fossero calate di botto. Non riuscivo a trovare un senso a questa situazione assurda.

A tentoni mi precipitai verso la mia nemesi. Riuscii a toccare la sua spalla e lo spinsi per fargli prendere conoscenza. Non si mosse.

Mi piegai sulle ginocchia e iniziai a muoverlo con i battiti del cuore che mi rimbombarono nella cassa toracica, un rivolo di sudore mi scese lungo la tempia. Sembrava il preludio di una scena macabra e io non sapevo come uscirne.

«Caleb! Caleb svegliati!»

Niente, lui non reagiva, io non riuscivo a vedere assolutamente niente.

C'erano tante domande che mi affollavano la testa, il disordine mi faceva pesare la testa sulle spalle come se fosse un enorme pietra, ma sapevo di doverlo svegliare.

Lui era Caleb War, il terrore di Little Falls.
Per quale motivo qualcuno doveva chiuderlo dentro un posto freddo, logoro e umido insieme a me?

Era uno scherzo di poco gusto degli studenti?

Come diavolo avevano fatto a tramortirlo?

Con le mani tremanti iniziai a toccare la sua faccia per svegliarlo.

«Caleb dannazione svegliati! Svegliati cazzo! Dai!»

Vedendo che non reagiva, lo presi a sberle. Era tutto così assurdo. La soddisfazione di prenderlo a schiaffi fu troppo forte e mi generò un sorriso che svanì subito dopo.

«Caleb!» un altro schiaffo andò a segno e un altro ancora. Quando stavo per schiaffeggiarlo di nuovo una mano grossa si chiuse intorno al mio polso e i polmoni mi si chiusero a conchiglia.

«Basta! Ho capito. Sono sveglio.»

La sua voce sembrò calma, ma era talmente potente nell'oscurità che mi sembrò di udire quella del diavolo. Il timbro roco mi generò mille farfalle nello stomaco. E se prima avevo paura per quei tizi, nel sentirlo, nel rendermi conto dove ero e con chi ero chiusa, mi si manifestò la sensazione di vertigine che provavo ogni volta quando stavo vicino a lui.

«Dove sono?» domandò.

«S-siamo chiusi dentro lo sgabuzzino» soffiai in un sussurro.
Non avevo alcuna forza per riuscire a mantenere un timbro sicuro. La voce mi uscii appena udibile.

«Cosa?» domandò piantando i suoi occhi azzurri come il cielo nei miei.

Mi si rizzarono i capelli dietro la nuca, il petto mi bruciò, respirare mi era impossibile. Ci vidi passare una luce di terrore in quelle iridi. Il suo viso si deformò, sembrava...paralizzato?

«Qualcuno con una maschera di ghost ti ha chiuso qui dentro dopo aver chiuso me. Non so chi sia, ma dobbiamo uscire da qui. Sta per piovere e chiuderanno le strade stasera. Ti prego alzati!»
Parlai talmente veloce che non mi accorsi che lui si era messo sulla difensiva.

Aveva il respiro pesante, si guardava a destra e a sinistra, non aveva ascoltato nessuna parola di ciò che stavo dicendo. Il suo petto ampio si alzava e si abbassava con difficoltà. Mi resi conto che stava avendo un attacco di panico.

Un terribile attacco di panico a giudicare dal suo sguardo di paura. Le pupille erano sgranate, la bocca era serrata e in fine, il lupo nero fece una cosa che mi tramortii.

Si mise le mani in testa sedendosi di scatto.

«No, no, no, no, no! Accendi la luce! Accendi quella cazzo di luce!» urlò.

Restai attonita, e mi dispiacque così tanto vederlo in quel modo che mi ricordai di me.

«Non c'è nessuna luce qui dentro. Alzati dobbiamo uscire, spingendo la porta.»

Caleb rimase nel solito posto, si mise le mani in testa e iniziò a dondolarsi come se fosse... terrorizzato.

«N-non riesco a respirare. Qui è troppi stretto. Accendi la luce.» Sibilò.

Sentii il suo respiro pesante, un fischiettio mi otturò i timpani. Stava andando in iperventilazione.

Mi precipitai verso di lui con la paura che mi correva veloce nelle vene, gli presi il volto tra le mani tremanti e alzai il suo sguardo nel mio.

«Caleb, smettila. È solo buoi e stretto, respira.»

Ebbi un déjà-vu.
Lui lo aveva fatto con me la prima sera che ci eravamo conosciuti.
Tre settimane fa. Mi aveva salvata, e io dovevo restituirgli il favore.

«N-non ci riesco. Gli spazzi stretti... il buio...»

Deglutii con una stretta nel cuore. Questo ragazzo stava per impazzire. Se non si fosse calmato sarebbe morto di asfissia.

«Caleb ti prego...» piagnucolai esasperata. Non sapevo cosa fare. «Guardami. Ti prego. Guardami, guarda me, solo me.»

Tenni stretto il suo volto diventato freddo come il ghiaccio. Agganciai di nuovo i miei occhi nei suoi e mi avvicinai. Eravamo così tanto vicini che i nostri nasi si potevano toccare. Ebbi un brivido che mi fece venire la pelle d'oca e mi resi conto che dovevo fare qualcosa. Qualsiasi cosa, altrimenti non sapevo che cosa gli sarebbe successo. Per quanto lo odiassi, non avrei mai e poi mai desiderato la sua morte. Tutti meritavano la redenzione. E lui doveva ancora chiedermi scusa per tutto quello che mi aveva fatto finora.

Perciò feci l'unica cosa che non avrei mai e poi mai fatto in altre circostanze. E feci male perché quello sarebbe stato solo il primo degli errori che avrei commesso, errori che mi avrebbero consumata, e con il passare del tempo mi avrebbero condotta alla follia. 

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top