Lilla

Capitolo 14

Hai torto se stimi che un uomo di qualche valore debba tenere in conto la vita e la morte. Egli nelle sue azioni deve unicamente considerare se ciò che fa sia giusto o ingiusto e se si comporta da uomo onesto o da malvagio."

SOCRATE

Erano passati diversi giorni dall'ultima volta in cui avevo parlato con Dean. Il lupo cattivo non si era fatto ne vedere e ne sentire, ma ciò che era piu importante; non avevano mosso nessuna battaglia, e non ne avevano più parlato dell'enigma. Erano trascorsi ben tre giorni da quando quegli stupidi compagni di scuola mi avevano maltrattata bullizzandomi quella mattina.

Eppure, non si sentiva muovere nemmeno un mosca e questo per un certo verso, era ancora più inquietante. Il silenzio, mi risultava ancora più difficile da gestire, non ero mai stata brava a cogliere la quiete, e poi si sapeva che preannunciava sempre una tempesta. In quel caso, una tempesta di veri guai per me.

Sinceramente, pensavo che i lupi mi avessero lasciato stare per il campionato che avrebbe avuto inizio a breve, era la spiegazione piu logica e il fatto che io mi stessi arrovellando per carpire la mente di Caleb, mi rendeva a mia volta una persona instabile.

Avevo visto la moto nera di Caleb nel cortile, e mi chiedevo com'era possibile che giudasse quel coso quando pioveva e imperversava la tempesta e non la macchina.

Le nuvole nere erano basse e avevano oscurato il cielo, si preannunciava una pioggia fitta da qui a poco. L'aria era fredda e impregnata di umidità che rendeva ogni respiro più pesante.

La scuola era ghermita di striscioni viola e nero e nello sfondo la testa di un lupo con le fauci spalancate ovunque. Nonostante tutto avevano deciso di giocare la partita che era in programma. Nulla gli avrebbe fermato dal conquistare la vittoria contro la squadra di una scuola della cittadina di Randall.

Il tempo brutto non avrebbe fatto nessuna differenza, avevano deciso di giocare la partita lo stesso.

L'anno scorso la scuola era stata battuta e conoscendo Caleb War, non avrebbe mai permesso che questa partita si rinviasse.

Avevo deciso di andare a casa dopo la lezione di biologia ma con la pioggia che aveva iniziato a scendere a fiotti sarebbe stato un disastro fare tutta la strada a piedi.

Mi ero ritrovato il telefono sul bancone in classe quando ero entrata nell'aula dell'arte. Sapevo che era stato lui a lasciarlo lì. Come aveva saputo che avevo arte e quale era il mio banco, questo restò un mistero.

Decisi di non fare domande, tante le risposte non mi sarebbero piaciute perciò andava bene così.

Mi ero avviata verso la lezione di biologia quando incontrai Penelope lungo la strada.

Sapevo cosa era successo tra lei e Shon la settimana scorsa, quindi la salutai con un: «Ciao» mesto. Anche lei mi rivolse un saluto più cordiale del solito. Mi sorrise e continuò a proseguire lungo la strada insieme alle sue amiche.

In procinto di entrare nell'aula i miei piedi si arrestarono di colpo e il cuore battee contro la gabia toracica con violenza. L'ansia mi serpeggiò come un serpente velenoso lungo la spina dorsale e si risvegliò dal letargo in cui si trovava.

Mi imbattei in un paio di jeans scuri e una felpa scura con il cappuccio calato fino agli occhi. Gli anfibi neri, erano bagnati di pioggia e le gocce rilucevano  sulla punta tonda. Non riuscivo a vedere il volto dell'uomo incappucciato, ma riconobbi il profumo di agrumi e tabacco che mi diede alla testa con effetto immediato.

Seduto sulla cattedra se ne stava Caleb War, come se fosse il padrone del mondo, teneva un ampolla in mano le sue falangi erano aperte e l'inchiostro nero sulle dita rendeva anche quel semplice gesto tanto spaventoso. Se la stava meticolosamente studiando.

Mi resi conto che non c'era nessuno in classe, quindi senza dire niente mi voltai per scappare. Appena feci un passo, la sua voce profonda mi fece sussultare e fermare i miei piedi di colpo, come se fossi stata incollata al suolo. I battiti del mio cuore schizzarono da zero a mille come ogni volta, la paura fece capolino dentro di me.

«Oggi piove Volpe.» disse con la voce profonda. Il timbro leggermente roco mi sciolse i muscoli del ventre.

Chiusi gli occhi voltandomi nella sua direzione.

Vestito in quel modo, con il solo ciuffo nero che gli spuntava fuori dal cappuccio e li cadeva sugli occhi tagliando il suo volto di netto, sembrava un demone. In prospettiva il suo naso era affilato, le labbra carnose erano tirate in un piccolo ghigno malvagio e le dita della mano sinistra tamburellavano sulla cattedra. 
L'unico modo che avevo per vedere i suoi occhi era avvicinarmi. Ma decisi di combattere contro l'impulso che mi martellava le tempie.

Però sembrava un demone nero pronto per prendere la mia anima e ridurla in cenere con una sola semplice sillaba.

«Che cosa ci fai nella mia classe!»

Lo sentì ridere appena e con movimenti lentissimi depositò l'ammpolla sopra il mobile di legno senza voltarsi.

«Tu hai paura dei tuoni. Oggi piove.» disse ancora sospirando.

Deglutii.
Lui sapeva.

Un formicolio si formò dietro la mia nuca e le mani iniziarono a sudare appena.

«Sì, oggi piove. Che cosa hai in mente? Gettarmi fuori? O dentro una pozzanghera? Legarmi di nuovo e lasciarmi ascoltare i tuoni? Dimmi, lupo. Che cosa hai intenzione di fare oggi!» gli parlai con rabbia facendo due passi nella sua direzione.

Lui si volse: i suoi occhi azzurri come i mari in tempesta mi inchiodarono al suolo. La mascella serrata mi generò piccoli brividi lungo le braccia e senza rendermene conto, deglutii come a voler cercare una via di fuga dal suo sguardo... indecifrabile.

Scorsi con più attenzione le maree che portava, sembravano due universi, c'era del grigio come gli asteroidi, e dell'ambra come le comete, le sue pupille che erano più chiare ricordavano le stelle e facevano risaltare quella tempesta che sapeva determinarlo.

Mi si mozzò il fiato.

"Che bello che era il diavolo"

«Però...», si alzò con lentezza e mi venne di fronte. Era così incombente che di riflesso feci diversi passi indietro. «Quando mi guardi, come se volessi trovare il rompicapo dentro di me, non posso fare a meno di lasciartelo fare Violetta. E sai perchè? Sono i tuoi occhi cazzo! Sono loro a mandarmi in besta, e ogni volta, sono quei due quarzi a far emergere il peggio di me», continuò ad avanzare con passo felpato. Mi sentii costretta ad alzare il collo per sostenere il suo sguardo ora penetrante.

«Hai una vera e propria ossessione per i miei occhi tu eh», cercai di sfuggire uscendomene con una stupida risposta del genere. Capii troppo tardi che mi stava conducendo verso il muro.

«Può darsi. Oppure sto semplicemente confessando la verità», aggiunse abbassando lo sguardo sulle mie labbra.

Avevo la fronte imperlata di sudore, il formicolio mi si espanse fino ai palmi.
Dovevo fuggire.

«Oggi piove, sì, ma non ho paura.» sussurrai.

Lui rise, una risata leggere che gli partì dal fondo della gola, come se fosse lucifero nella sua grotta. Mi arrivò ovattata,  e i suoi occhi che mi tenevano prigioniera,  rendevano quella risata così tanto malvagia e allo stesso tempo... unica. «No, certo che no. Tu non hai paura delle pioggia. Tu hai paura di me», avanzò ancora finché non andai a sbattere contro il muro.

Il respiro mi si mozzò di netto. I suoi movimenti erano lenti, proprio come un lupo che stava cercando la strategia migliore per intrappolare la propria preda.

In un modo o nell'altro lui riusciva sempre a farmi incutere timore.

«Non ho paura di te», mentii spudoratamente.

Caleb si avvicinò, poggiò le mani ai lati della mia testa e si abbassò appena per annusare i miei capelli. Le sue spalle ampie mi ingabbiarono e il suo petto massiccio mi arrivò talmente vicino che il profumo di agrumi mescolato con il tabacco mi otturò le narici.

«Certo che non hai paura di me...» bisbigliò. «Tu hai paura di ciò che voglio da te Viola, tu hai paura di perderti tra le mie mani. Hai paura che la tua esistenza si riveli vuota una volta che accetterai di essere solo mia. Tu hai paura di me, perché sai che solo io posso farti venire paura in un modo viscerale...», si abbassò appena, mentre le mie ginocchia tremarono, come se non avessi il controllo del mio corpo o delle mie emozioni. Mi morsi con forza il labbro per non chiudere gli occhi e aggrapparmi alla sua felpa.

Che cosa mi stava facendo...

«Io...» tentai di parlare, ma non riuscivo ad avere la facoltà cerebrale per continuare dopo io.

Sospirò, parlandomi sopra, «...totalizzante, che ti riempirebbe l'esistenza, e ti farebbe toccare il cielo con un dito e ti ridurrebbe in cenere per poi farti risorgere come una fenice. Una fenice dagli occhi viola.» sussurrò accarezzando la mia guancia con il dorso della sua mano. Era fredda, e calda. Mi sentii bruciare.

«Certo che non hai paura di me, perché la paura ti totalizza, e se deciderai di accettare l'idea che io ti farei una fottuta paura, allora sarebbe tutto inutile continuare a giocare. Quindi continua a dire di non avere paura di me Volpe, il giorno che mi dirai il contrario, sarà il giorno in cui ti farò toccare il cielo con un dito e incontrerai il diavolo in persona, ti fotterò il cervello passando per la tua fica, e ti trascinero nel mio abisso sentendoti urlare e sussurrare il mio nome in modi che nemmeno sapresti riconscere in questo momento.»

La testa mi vorticava, come se fossi stata dentro una centrifuga, serrai le cosce, mentre il suo naso vagava tra l'orecchio e la mia gola, mi morsi le labbra con forza quando sentii l'altra sua mano poggirsi sulla mia coscia e creare dei disegni irriconoscibili con le dita. Avevo brividi da febbre, eppure sapevo benissimo di stare bene.

Erano piume, leggere ma che mi incendiarono il ventre e la voglia di liberare un gemito si fece impellente. I suoi gesti mi prendevano a morsi il  basso ventre e le scariche di adrenalina mi facevano uscire fuori di testa, l'unica cosa che volevo erano le sue mani lì dove tutto pulsava, portando il mio cervello in un blackout.

Caleb rise, una risata leggera, sembrava scuotere il suo petto ampio, ma non ebbi la forza per aprire gli occhi, poiché avrebbe visto tutto ciò che aveva scatenato in me.

«V-voglio andarmene», bisbigliai deglutendo.

«Dove credi di  voler andare Violetta?» mi domandò sussurrando.

Strinsi forte i denti ricordando l'ultima volta che eravamo rimasti insieme. Dovevo darmi un contegno. Non potevo eccitarmi per le sue parole. Non era giusto.

L'aria mi si addensò nei polmoni e mi sentii così stupida per le miei molteplici emozioni senza senso che mi veniva da prendere il muro a testate.

Aprii le palpebre lentamente e con il volto serio lo guardai dritto negli occhi.
Sembrava cercare di guardarmi dentro, sembrava scrutare nella mia anima. Non erano ironici, non erano malvagi. Erano... pieni di aspettative...

Dentro qualcosa mi si appigliò al cuore rendendolo improvvisamente stanco, persi un battito ma non lo diedi a vedere.

«Me ne vado via dalla puzza di merda che c'è qui dentro.»

Un sorriso che non coinvolse i suoi occhi blu come zaffiri fece apparizione nel suo volto che, assurdo dirlo, ma era talmente bello che ebbi l'assettata voglia di toccare, soprattutto dopo tutte quelle parole...

«Ahi Violetta, quando imparerai a usare quella lingua?»

Strinsi forte le mani a pugno. Sentii le unghie conficcarsi nel palmo.

«Non dovresti avere una partita tra poco?»

La sua figura imponente incombeva su di me, il ciuffo che gli copriva appena il volto lo rendeva un demone nero. E io ne ero totalmente rapita.

«Sai piccola Viola, c'è una cosa strana che non capisco di te...» Si avvicinò ancora. Indietreggiai di riflesso ma più di appiattirmi al muro non potevo diventare tutt'uno.

«Com'è possibile che i tuoi occhi siano tanto viola? Sai è strano proprio. Non è che discendi da una stirpe di streghe?»

Capii che mi stava prendendo in giro alla grande. Quindi decisi di lasciarlo parlare. Non avevo voglia di sentire le sue cazzate.

Lo spinsi via e cercai di sffuggirgli però lui mi trattenne per la spalla.

Mi bruciò la pelle dove mi toccò e il cuore mi giunse in gola. Balzai in avanti per sfuggire alla sua presa e mi voltai puntandogli il dito contro.

«Non provare mai più a toccarmi!»

Il ragazzo di fronte a me, si mise a ridere divertito. Gonfio il petto ampio e mi sorrise come se non avesse fatto nulla.

«Non credere che abbia finito con te!» mi minacciò spingendomi contro il muro.

Mi fremettero le labbra, e per un secondo pensai che dovevo tenere la bocca chiusa. Ma solo per un secondo, perché quel pensiero sfugì come un soffio di vento.

«E tu non credere che io sarò tanto stupida da bermi tutti i tuoi tranelli del cazzo!»

Resto interdetto, arriciò le labbra e annuì. «Ma io non stavo affatto giocando Volpe. So per certo l'effetto che ti faccio. Lo capisco dal cambiamento del tuo respiro, dal fatto che stringi le cosce, dal sudore che ti imperla la fronte. Sono dei chiari segnali di cedimento.»

«Questo non è vero! Io ti odio!», gli urlai contro.

Caleb gonfiò il petto e mi scrutò a lungo impassibile. «So anche questo.» disse prima di avvicinarsi ancora al mio viso.

Scattò con la mano verso le mie labbra, come se fosse stato vitale per lui toccare le mie labbra martoriate dai denti, però  quando pensai che me li avrebbe toccate, si fermò di colpo, con la mano a mezz'aria appena prima di raggiungerle.

Ero stremata. Tutte quelle sensazioni, contrastanti, ambigue e fuori luogo, mi stavano deteriorando lentamente come un cancro incurabile.

Quello che fece mi lasciò ancora più ansante, mi spostò una ciocca ricudata davanti agli occhi, dietro l'orecchio e sospirò.

«Non andare a casa da sola Volpe. Tra poco tuonera», la sua voce scese di due ottavi, era talmente potente il suo timbro che sembrava supplicare, e questo mi lasciò perplessa, le spalle mi si incurvarono appena, e l'intimo mi pulsò con violenza.

«Cosa?» domandai confusa. Sembrava sinceramente preoccupato per me.

Era impossibile, era un sogno. Questo non poteva in alcun modo essere vero!

Lui si rese conto, di ciò che aveva appena detto e il suo volto si tramutò, impassibile. Le sopracciglia nere si aggrottarono appena e Caleb strinse forte la mascella.

Era così bravo a cambiare personalità, da un momento all'altro.

«Purtroppo, Dean non c'è per spogliarsi di nuovo. Ha una partita da giocare e stanne certa, che lo terrò occupato per tutto il tempo.»

Il suo timbro cambiò, sembrava affilato come un coltello e mi generò brividi freddi lungo la schiena. In tutto ciò i suoi occhi addombrati, e ridotti a due fessure enfatizzavano le sue parole. Il muscolo sulla mascella serrata faceva capolino, come a sottolineare il fatto che era estremamente serio.

«Che c'è? Hai paura che io preferisca lui più di te?», risi ironica prima di tornare seria. Stavo mascherando le mie insicurezze con una spavalderia che non avevo.

Lo vidi stringere la mascella, aveva le narici frementi.

Lo spinsi con l'indice puntato sul petto per tre volte prima di dire: «Notizia flash, lupo nero dei miei coglioni. Preferisco lui centomila volte più di te.»

La tempesta nelle sue iridi sembrava implacabile, restò immobile a fissarmi negli occhi, nonostante lo sforzo che stava facendo per sembrare incurante dalle mie parole, la vena gonfia sul collo non mi sfuggì affatto.

E quando pensai di aver messo il punto a questa conversazione, un dolore accecante mi si irradiò lungo la schiena, la nuca mi bruciò per la botta e gli occhi mi si velarono di pagliuzze incolore.

«Ah!», urlai, prima di capire che Caleb mi aveva generosamente sospinta con forza contro il muro, fino a farmi male.

Mi ritrovai le sue falangi sul collo, il respiro stava venendo meno, e le gambe mi ceddettero d'istinto. Non caddi a terra, poiché andai a sedermi completamente sul ginocchio del mio nemesi, che non si sa come e quando, l'aveva infilato in mezzo alle mie gambe.

Strinse di più le dita intorno al mio collo e sentii gli occhi allargarsi, le narici fremere, avevo bisogno di ossigeno. Se avesse continuato a stringere, sarei morta di asfissia.

Mi aggrappai con le mani sui suoi avambracci come a fare leva per allontanarlo, però non si mosse di un millimetro. Il battito del cuore mi schizzo in gola, e le tempie mi pulsavano per la pressione sanguinea.

Sentii il suo respiro da toro lambire le mie ciglia e le mie labbra, poi lo udii: «Tu sei di Caleb War, Violetta, puoi provare a riffuggiarti dal mio migliore amico, andare sulla luna, fuggire nel grande cosmo, ma non potrai mai e poi mai eliminare il mio marchio. Tu sei di proprietà del lupo nero di questa fottuta scuola, e finché non mi avrai presa tutto, nei tuoi meravigliosi buchi, nessuno ti potrà anche solo guardare, figurarsi toccare.»

Stavo letteralmente morendo, il resipro mi veniva meno, e l'eccitazione che portava il mio intimo a pulsare come un forsennata mi accorciava anche quel poco respiro che mi era rimasto. Chiusi gli occhi, ormai quasi del tutto innerme alle sue mani.

"Fottiti Caleb"

Lo sentì sospirare ancora e quando si spostò con le labbra sulla mia clavicola, sapevo che cosa aveva intenzione di fare.

Una scarica di brividi, e un bruciore lancinante mi fecero urlare, ma più che un urlo, a me sembrò un gemito disperato, dettato dall'istinto animale dormiente dentro di me, i suoi denti si infilarono nel mio collo e mi morse con una tale intensità da ridurre la mia anima a brandelli.

«Ah! C-caleb», soffiai fuori di me.

Il clitoride mi pulsò violentemente e senza nemmeno accorgermene iniziai a dare sollievo alla parte più intima di me sul suo ginocchio.

Mi diede altri morsi, mentre il sudore mi scendeva lungo le tempie, il fuoco mi si diffuse nelle vene quando cercavo di più, mi muovevo con più determinazione alla ricerca di un piacere carnale totalizzante. E quando tutto stava crescendo, lui rise sul mio orecchio, una risata da diavolo che mi fece mordere la pelle e mi offuscò ogni giudizio mentre gemevo come una disperata.

La vocina nella mia testa mi diceva che c'era qualcosa di molto malato radicato in me, eppure, in quei attimi di puro estasi, non pensai nemmeno per un secondo a dargli corda.

«Mhh... ti sento umida piccola rossa», bisbigliò appena stringendo ancora più forte il mio collo.
Stavo andando in collisione, il mio clitoride che rilasciata scariche ad ogni movimento, mi incendiò le vene e i gemiti impercettibili che mi lasciarono la bocca, lo fecero gemere a sua volta in piccoli susurri.

Stavo per venire, sentivo l'orgasmo montare così rapidamente mentre lui mi stava strizzando il collo con le sue falangi e il suo corpo intrappolando il mio in un agonia lenta, dolorosa e dolcissima. Quando la prima scarica mi annunciò che c'ero quasi, sentii un freddo doloroso.

Poi tutto taque, tutto divenne più freddo, più sbagliato, meno orgasmico. Al posto di quel ginocchio si materializzò il vuoto. Aprii gli occhi di scatto, disperata, mugolando come una condannata al patibolo.

Ma feci male. Perché quello che vidi, mi annichilii in una maniera devastante. Lui stava sorridendo, mentre mi guardava dall'alto come se fosse il mio padrone e io il suo animale preferito al momento.

Prese un lungo respiro, liberandomi dalla sua stretta prima di guardarmi dalla testa ai piedi.

Aprii la bocca per prendere un generoso respiro e per dire qualcosa subito dopo, ma i miei neuroni sembravano non collaborare, eppure la mia amica chiamata vergogna busso bastarda.

"Sei una piccola troietta, Lili, guarda come ti stavi dando piacere contro il suo ginocchio"

Al posto del fuoco della lussuria, sentii il disagio e l'inadeguatezza strisciare come un serpente velenoso. Le lacrime mi salirono prepotenti agli occhi, mentre lui mi osservava con quel ghigno crudele.

«Non avvrai nessun piacere da me, se c'è un'altro uomo che occupa i tuoi pensieri.», il timbro della sua voce era piena di determinazione.

Deglutii con fatica.

«E poi... tu godrai quando io, deciderò che te lo meriti. Per ora sei ben lontana a questo premio, e men che meno vedere me inginocchiato in mezzo alle tue cosce che ti succhio gli uomori e accarezza il tuo clitoride gonfio.»

Deglutì anche lui, le sue spalle sembravano in tensione. Gli si incrinò la voce.

Io mi sentivo così inadeguata, talmente colpevole che non potevo fare nulla se non stare zitta.

«Veni alla partita Volpe, cosicché io possa guardarti dal campo e sapere che le tue mutandine sono fradice per me. Vieni, cosicché io possa dire al mio migliore amico, al fottuto Dean, quanto sarà pulsante la tua fica, per me, e scometto è anche dolcissima da assaggiare, ma che lui non potrà mai avere. Altrimenti non vedrà un altro giorno.»

Stavo bruciando, e se fino a quel momento non avevo mai creduto negli angeli e nei demoni, mi ricredetti. Caleb War, era il padrone dei demoni e aveva deciso di reclamare la mia anima, e anche la mia fica a quanto pareva.

«Fanculo», sussurrai con le lacrime agli occhi. Mi sentivo così sporca.

Lui rise, una risata ironica, ma che, con quel cappuccio addosso, lo rendeva così macabro e così erotico nel medesimo modo.

«Tu verrai fottuta nel culo, Viola. Il giorno che mi disobbedirai, il giorno che farai anche il minimo passo falso, con Dean, o con chiunque altro, verrò a casa tua, salirò dalla tua finestra che resta a ovest, e ti fotterò, forte, ti scoperò fica e culo e diventerò il tuo unico credo. Il diavolo in persona. Libererò tutta la mia deviazione, fino a farti perdere a tua volte il lume della ragione. Perché se io sono un pazzo, tu sarai pazza insieme a me»

Mi tremò il mento, le lacrime si sciolsero  e caddero copiose lungo le mie guance. Tutta quella tensione, l'eccitazione, le parole crude che mi disse, mi fecero sentire così piccola dinnanzi a lui, che per un momento pensai di essere uno scaraffaggio sotto lo stivale.

Caleb imboccò la porta e prima di andarsene, si fermò dandomi le spalle: «Non fare cazzate occhi viola, dovresti sapere che non sono famoso per la mia clemeza. E se scopro che c'è un altro uomo nella tua vita, ucciderò lui, e ti farò pentire per il resto della tua vita».

Scomparve dalla mia vista dopo aver detto queste parole, proprio come lo tsunami, dopo una devastazione. All'apparenza tutto tace, eppure l'annientamento è in bella mostra, come a sottolineare, l'amarezza e il sottile filo che separa la vita dalla morte.

Le ginocchia mi cedettero e mi acasciai alla parete, ero dolorante, il ventro continuava a contrarsi e l'intimo mi pulsava come mai successo prima, eppure, il serpente velenoso nella mia testa, mi ricordava che il peggio doveva ancora arrivare, e io non ero minimamente pronta.

Lo odiavo per ciò che riusciva a fare alle mie emozioni, alle mie pulsioni. E a ciò che era in grado di svegliare dentro di me. Lo detestavo più di qualsiasi cosa al mondo, perché lui mi aveva già deviata. Nessuno sano di menti si sarebbe mai eccitato sapendo che stava per morire di asfissia da lì a breve.

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