Lilla

Capitolo 2

●Ho imparato che non posso esigere l'amore di nessuno. Posso solo dar loro buone ragioni per apprezzarmi ed aspettare che la vita faccia il resto●

«Due bottiglie di Jonny Walker al tavolo sette e una bottiglia di Belvedere.» Mi ordinò Sara attraverso il bancone.
Sara aveva un volto genuino dai tratti chiari come i suoi capelli biondi, gli occhi invece erano di un intenso colore d'ambra e il suo sorriso era sempre molto ampio.

«Subito.» Risposi abbassandomi sotto al banco per prendere le bottiglie di whisky.

Sapevo per chi erano, e la voglia di aprire i tappi e sputarci dentro si fece impellente dentro di me.

«Dai Lilla, sbrigati devo andare a fare una pipi assurda. Non ci puoi andare tu per una volta al loro tavolo?»

Ridachiai divertita dalla sua postura sofferente con le cosce strette. «Vai ci penso io.»

«So che li odi, ma grazie.» Disse con una smorfia di sofferenza.

Aveva tre ore che camminava avanti e indietro e capii la sua esigenza.

«Sì, ma cosa direbbe la clientela dell'alta società che c'è qui dentro se ti pisciassi addosso?»

Sara rise divertita tornando poi subito seria. «Cacchio, devo andare, me la sto letteralmente facendo addosso.»

La vidi sparire velocemente e mi misi a preparare il tutto con la sensazione pesante nel petto.

Vi odio, pensai nella testa uscendo fuori dal bancone.

Rivolsi lo sguardo al tavolo sette e i miei occhi catturarono più di dieci persone appollaiate sui divani tra cui le bestie di satana che stavano urlando disturbando l'intera clientela. Catturai gli occhi di mia zia attraverso il vetro del suo ufficio e le regalai un sorriso quando posò lo sguardo sulla mia succinta canotta.

Sospirai rilassando le interiora e presi il vassoio con le bottiglie sopra, mi diressi spedita mettendo su una faccia che voleva dire:
provaci se hai coraggio e raggiunsi il loro tavolo.

Mi tremarono le mani quando tutti gli occhi dei presenti si posarono su di me, sul mio seno, sulla pelle scoperta e infine sui miei occhi.

«Buonasera.» Bofonchiai depositando frettolosamente tutto sopra il tavolo.

In tutti questi mesi, nessuno mi aveva notata, nessuno aveva cercato i miei occhi, nessuno si era mai interessato a me per un semplice motivo.
Restavo lontano da questo dannato tavolo e da tutti loro.

Invece ora mi sentii come se stessi arrancando per un briciolo di ossigeno. Le cheerleader mi guardarono con le sopracciglia alzate e una smorfia sulle labbra, i ragazzi mi mangiarono con gli occhi. Cosa che mi mise a disagio oltremodo.

Cercai di non guardare nessuno di loro, cercai di non attirare l'attenzione ma i miei occhi persero il controllo e si spostarono alla destra, dove era seduto lui.

Il diavolo in persona.

Lui, chiamato con mille nomi diversi.

Lui, l'incubo della Little Falls High school.

L'artefice della dalia nera.

Il lupo cattivo.

Ebbi un sussulto, il cuore prese a battermi nel petto con una tale velocità da mozzarmi il fiato, la testa vorticò portandomi allo struggimento, i denti mi batterono dalla sensazione di non appartenenza. I suoi occhi celesti catturarono i miei più intimi pensieri, se li fece suoi e mi fece sentire nuda, più di quello che già ero.

Aprii la bocca annaspando ossigeno mentre il caldo e il freddo mi lambirono la pelle andando in collisione e generando dei brividi alchemici.

Il suo sguardo era talmente penetrante, che le mani iniziarono a tremarmi convulsamente.

Girai sui tacchi e mi diressi spedita verso le cucine. Avevo le lacrime agli occhi. Grosse lacrime incomprensibili. Non sapevo spiegare. Sapevo solo che era un diavolo nelle spoglie di un angelo. Un angelo nero, dagli occhi incantatori e dal corpo mastodontico.

E mi odiai. Mi detestai talmente tanto che avrei voluto uscire da questo corpo per sempre.

Ero così patetica.

«Lilla? Lilla!» mi chiamò Sara con la fronte agrottata. «Che cosa è successo?» domandò preoccupata.

«Niente... loro... lui...» bofonchiai disperata portando una mano sul petto per calmare il mio cuore.

«Stai bene?»

Annuii vigorosamente e alzai lo sguardo per vederli ma trovai il tavolo vuoto.

Agrottai la fronte confusa.

«Sono andati giù». Rispose alla mia domanda muta.

Sgranai gli occhi. «Giù?» domandai disperata toccando i capelli ancora umidi dalla doccia.

«Devi andare».
La sua voce dolce e gentile mi catturò ed ebbi un sussulto.

«Mi conosceranno! Le cheerleader oggi non mi hanno vista, ma domani chi lo sa? Mi riconosceranno!» esclamai in preda al panico.

Sara mi scrutò il volto in apprensione senza dire niente, ma sapevamo bene che sarebbe stato così prima o poi.

«Tua zia vuole che tu vada di sotto. Io ti raggiungo appena se ne vanno gli altri». Mi comunicò con dolcezza.

Mossi il capo con veemenza in segno di negazione. «Vai tu. Sto io qui sopra».

Sara chiuse le palpebre prima di prendere un lungo respiro, mi agguantò per le spalle e mi strinse forte.

«Lilla!» esclamò perentoria, come se fossi una piccola bambina spaurita. «Che ti prende? Ripigliati. Vai di sotto e fanculo a quei figli di papà. Fagli vedere chi sei e se qualcuno si azzarda solo a guardarti per un secondo di troppo li uccido. Hai capito?»

Con riluttanza andai di sotto. La musica suonava a tutto volume e le luci per fortuna erano soffuse, c'erano diversi camerieri che mia zia chiamava grazie ad una agenzia ogni volta che aveva una festa prenotata.

Uno di loro era Will, un ragazzo dai tratti africani, il bartender che mi osservò a lungo perplesso.

«Lilla stai bene?»

Dio! Che cosa mi aveva fatto?

Non era la prima volta che lo guardavo, anzi sì, era la prima volta che lo guardavo negli occhi. Quei dannati occhi.

«Lilla...» Mi chiamò con la voce perplessa Will osservando dietro le mie spalle.

Deglutii ma non mi voltai. Non sapevo che cosa mi aspettasse.

«Lilla... il lupo ti sta guardando».

Ebbi un violento tremore al basso ventre, talmente forte che mi lasciò senza fiato.

«Cosa?» sibillai come se fossi in apnea.

«Ora non più». Disse scrutando il mio volto. «Lilla, che cosa hai? Se stai male è meglio che te ne vai. C'è molto da fare stasera».

Deglutii ordinando al mio corpo di reagire, e presi la testa fra le mani sospirando per calmarmi.

Io ti odio cantichiai nella mia testa.

Cercai di tornare lucida dandomi un contegno.

«No sto bene», gli risposi borbottando. «Dammi pure le ordinazioni».

Will mi osservò ancora per lungo tempo prima di mettermi davanti alla faccia un enorme contenitore di ghiaccio abbellito con una bottiglia di vodka e tante toniche.

«A chi lo devo servire?» domandai prendendolo tra le mani.

«A loro». Mi comunicò con un cenno del capo. «Al tavolo dei lupi».

Presi un profondo respiro e mi avviai verso il privè.

Non dovevo in alcun modo dare nell'occhio mi dissi mentalmente.

Salii le scale e mi voltai a destra dove c'era la squadra di Basket della Little Falls. Diversi giocatori avevano in braccio le cheerleader e qualcuno se le stava pure strapazzando.

Ma prendetevi una stanza.

Osservai le due giovani donne sedute al fianco del capitano e un moto di disgusto mi partì dalla bocca dello stomaco e finì dritto nel petto. Lo stavano leccando come se fosse un cazzo di lecca lecca.

Ci depositai sopra lo schifo che avevano fatto, il contenitore, e raccolsi i bicchieri sparsi. Qualcuno era rovesciato, il liquido era finito sul bordo del tavolo e giù fino al pavimento.

«Ehi. Hai un viso famigliare. Ti conosciamo?» domando una delle cheerleader. Messi, la chiamavano, in realtà il suo nome per intero lo ignoravo.

Non risposi e feci finta di non averla ascoltata per la musica assordante, che però non acquieti il battito convulso del mio cuore.

«Ehi! La mia amica parla con te». Mi chiamò uno dei giocatori, uno dei quattro lupi in realtà. Si chiamava Leopold, un nome alquanto singolare, almeno per questa zona.

Ma vai a sapere perché i suoi genitori avevano scelto proprio quel nome. Si faceva chiama Lenny, e lo conoscevano tutti.

«No!» risposi secca agguantando l'ultimo bicchiere.

«No? Non ti conosciamo ne sei sicura?» domandò di nuovo la ragazza. «Io dico che ti conosciamo invece. Prima o poi mi verrai in mente». Lo disse a voce bassa parlando quasi con se stessa.

Sentii gli occhi di lui addosso e il fiato mi si mozzò, come se qualcuno lo avesse tagliato con la forbice.

«Dove hai preso le lenti a contatto?» domando una delle sanguisughe alla mia destra dove c'era lui.

Deglutii rivolgendo lo sguardo verso di loro, tentai con tutta me stessa di non incontrare di nuovo quegli occhi, e per una frazione di secondo pensai di avercela fatta, ma un sorriso da squalo si dipinse nel suo volto da angelo detuprandolo e rivelando il demone che in realtà era e io lo guardai.

Ci guardammo, e di nuovo mi mancò il suolo sotto i piedi, e di nuovo andai a frantumarmi, e di nuovo sentii le sensazioni strane.

Che cosa significava quel sorriso?
E perché diavolo mi stanno tremando le gambe?

«Scusatemi». Gli dissi andandomene il più in fretta possibile.

Una volta sola cercai di tranquillizzarmi.

Non mi conosce. Non sanno chi sono.

Passarono diverse ore, Sara mi raggiunse e finalmente lasciai a lei il loro tavolo e mi concentrai sugli altri, anche se ad un certo punto anche Sara si stancò e venne vicino a me al bancone.

«Credo che domani sarà nero». Disse osservandoli.

«Chi?» domandai confusa.

«Lui». Indico il lupo ed io ebbi di nuovo un rimbombo nel petto. «Lo hanno succhiato talmente tanto che dovrà mettersi parecchia cipria per coprirli».

«Non credo che li copra. Per lui sono trionfi da esibire». Risposi fra i denti.

Mi mossi verso la porta con su scritto "Privato" e ci entrai dentro allontanandomi dalla musica e dall'ambiente assordante, presi le scale velocemente e apri la porta d'emergenza uscendo dietro il locale.

Mi avvicinai ai bidoni della spazzatura accasciandomi contro il muro prendendo delle gran boccate d'aria.

L'aria fredda mi colpì il viso le braccia e la pancia scoperta. Mi passai le mani sul volto con le gambe tremanti e mi sedetti chiudendo gli occhi.

Il mio cuore prese a calmarsi, così anche le mie gambe tremanti. Le sensazioni struggenti che mi aveva indotto scemarono piano piano.

Non avrei mai pensato di avere così tanta paura di lui. Ho sempre fatto in modo di stargli alla larga, non solo per la brutta reputazione che ha sempre avuto, essendo la sua famiglia effettivamente il proprietario della scuola dove studio, ma anche perché detiene ogni persona in pugno, addirittura il preside per non parlare del corpo studentesco.

Ha sempre adorato giocare con le persone, l'anno scorso sono stata presente quando ha spezzato un braccio a un ragazzo perché si è permesso di intralciare il suo cammino trionfante nei corridoi.

Lo videro tutti e nessuno osò parlare. Il povero ragazzo cambiò scuola, scomparve dalla città e nessuno fece più il suo nome.

Era per questo motivo che avevo paura. Una paura viscerale. Un timore che non doveva essere sperimentato mai.

Ed era sbagliato, tutto molto sbagliato.

Decisi di alzarmi, era ora di tornare al lavoro e io dovevo prendere in mano la situazione.

Mi avviai alla porta e aguantai la maniglia, ma essa si aprì con uno scatto ed io sussultai quando vidi torreggiarmi di fronte un petto enorme fasciato in una camicia nera.

Il tessuto era talmente tirato che mi sembrò, che da un momento all'altro si sarebbe strappato.

Lo riconobbi subito.

Feci diversi passi indietro con la paura che mi attanagliò le viscere. Le gambe iniziarono a tremarmi e il respiro mi si mozzò.

Alzai lo sguardo e indugiai in quei due zaffiri freddi e senza vita, che però mi penetrarono fino in fondo alle ossa.

Ebbi quasi le vertigini e le lacrime agli occhi mi bruciarono le iridi. Il petto mi fece male per la violenza dei battiti.

Era altissimo, aveva il petto ampio, le bracia grosse e le gambe statuarie. Dovetti reclinare il collo per osservarlo.

Il suo volto era imperturbabile, aveva le labbra talmente strette in una linea dura che temetti per la sua mascella.

Erano invitanti e per un attimo mi dimenticai del mostro che avevo davanti.

Ciò che vidi nei suoi occhi mi fece una fottuta paura.

Fredezza.

Perché diavolo era venuto fin quassù?

Avrei voluto dirgli qualcosa ma avevo le labbra serrate, era come se esercitarse un potere ancestrale su di me e mi fece accapponare la pelle.

Sospirò rilassando i muscoli e mi passò in rassegna tutto il corpo, mi sentii così tanto in imbarazzo che mi coprii il busto con le braccia come se fossi stata nuda, completamente esposta a lui.

«C-cosa ci fai tu qui?» domandai balbettando tenendo le mani sui seni.

Il suo sguardo segui le linee del mio corpo ancora una volta prima di schiantarsi nei miei occhi.

Sospirò come se avesse trattenuto il respiro a lungo e si passò l'indice della sua grossa mano tatuata sulle labbra assottigliando lo sguardo.

«Belle le tue lenti». Esordì con la voce profonda. Il suo timbro era potenza pura.

Ebbi un fremito allo stomaco che mi vibrò come una fisarmonica producendo della lava liquida.

«N-non porto le lenti». Risposi borbottando.

Lui alzò le sue sopracciglia nere dello stesso colore dei suoi capelli, sorpreso.

«Mi stai dicendo che quel colore viola è il tuo naturale?» domandò sarcastico.

«N-non sono viola, sono molto azzurri contornati di grigio e sembrano viola» Risposi quasi di getto come se dovessi spiegargli il mio colore quasi innaturale dei miei occhi.

Avevo fatto molte visite da piccola e mi avevano detto che era raro, ma possibile.

Il lupo cattivo che mi stava di fronte abbozzò un sorriso impercettibile prima di sospirare e avvicinarsi di un passo.

Indietreggia di riflesso.

Dio perché avevo così tanta paura. Non era giusto.

«A me sembrano viola invece». Lo disse come se fosse una cosa ovvia, e lui avesse ragione che sia stato così oppure no.

Avevo ancora le braccia allacciate al petto, le stringevo talmente tanto che non mi ero accorta di aver alzato la canotta più del dovuto. Infatti, il mio reggiseno di cotone anch'esso bianco, era appena scoperto.

I suoi occhi erano colmi di qualcosa. Forse bramosia, ma non potei essere sicura. Quel ragazzo era terribile e incuteva timore. Le piaceva vedere la paura negli occhi delle persone e non lo aveva mai nascosto.

«I m-miei occhi non sono viola». Risposi in un sussurro che fu appena udibile.

«Come ti chiami?» domandò subito dopo catturando nelle sue iridi le mie braccia intorno al seno.

Io non risposi. Non potevo, non volevo.

Lui sorrise con un ghigno che mi fece tremare le ginocchia. Si avvicinò ancora, quasi a sfiorarmi obbligando me ad indietreggiare fino al muro. Prese un respiro come se mi stesse annusando e appoggio le mani ai lati della mia testa reclinandosi alla mia altezza.

Mi sentii persa, calde lacrime mi si annidarono intorno agli occhi, avevo paura.

Solo un folle non avrebbe avuto paura di lui.

Sì okay, era un ragazzo diciottenne, ma era crudele fino all'osso e qualsiasi orrore commettese non vieniva mai punito anzi, veniva acclamato dai suoi amici e dalla sua cerchia.

Aveva una scorta di avvocati che lo proteggevano. Era il figlio del magnante dei beni culturali di tutta l'America e non solo dello stato di Minnesota, aveva talmente tanto le spalle coperte che poteva commettere un omicidio se avesse voluto.

Iniziai a tremare disperata e ingabbiata tra il muro e il suo corpo. Premevo con forza le braccia al petto, perché se le avessi lasciato cadere lungo i fianchi mi sarei sentita nuda.

«Ehi, ehi, ehi, ehi, ehi» Mi chiamo allargando le narici e aggrottando la fronte. «Non piangere, non ho intenzione di farti alcun male»

Cercai di calmarmi insultando me stessa, però fu più forte me.

Mi faceva tanta paura e ora lo sapeva anche lui.

La vergogna prese possesso dentro di me e mi schiaffeggiai mentalmente.

«L-lasciami andare». Balbettai tenendo lo sguardo rivolto al suo petto muscoloso.

«Sei strana». Mi disse senza lasciarmi andare.
«E profumi. Non il solito schifo, hai qualcosa che non mi viene in mente ora...»

Iniziò ad annusare di nuovo i miei capelli ed io deglutii a vuoto con il cuore tumultuoso.

«Ah, giusto. Sai di cannella e... incenso?» Si domandò.

«P-per favore posso andare?» domandai sussurrando.

«Smettila di chiedermelo. Te ne andrai quando avremo finito di parlare» Rispose austero.
«Come ti chiami?»

Io non risposi.

«Lo sai chi sono vero? Se non lo sai mi presento. Io sono Caleb War e tu sei?»

Mossi il capo tenendo la bocca chiusa.

Sospirò di nuovo annusando ancora i miei capelli come se avesse voluti imprimersi nelle narici il profumo.

Che in realtà era un acqua fatta in casa con l'essenza di canella e incenso dalla madre di Shon. Aveva detto che l'aveva creato apposta per me, ma ora, avrei voluto non l'avesse mai fatto.

«Se non me lo dici, io lo scoprirò comunque "Violetta". Quindi è meglio se obbedisci.»

«Non voglio dirtelo.» Risposi sussurrando.

«E perché non vuoi dirmelo? Lo sai che se avessi tentato di incastrare un'altra ragazza tra me e il muro, non avrebbe fatto nessuna resistenza? Perché non me lo vuoi dire? Non sai davvero chi sono? Che cosa faccio? A cosa faccio, a coloro che si comportano come te adesso?»

«Ti prego lasciami andare.» Soffiai di nuovo dalle labbra chiudendo gli occhi.

Per tutta risposta Caleb War mi liberò i capelli dall'elastico e piccoli boccoli rossi mi scesero ai lati del collo.

Tentai di liberarmi spingendolo via con le mani appoggiate al suo petto e c'è la feci.

Iniziai a correre, erano solo due passi. Due dannati passi e sarei scesa per le scale, ma lui non mi permise di raggiungere la porta. Mi agguantò dietro al collo e mi fece rivoltare faccia a faccia con il suo sguardo ormai di ghiaccio e le narici frementi.

Mi tremarono le gambe e un urlo mi si manifestò in gola.

Cosa diavolo stava facendo?

«Dove credi di andare "violetta"?» mi apostrofò con quel nomignolo che nelle sue labbra sembrò tanto erotico quanto macabro. «Non avrai pensato che avessimo finito di parlare vero?»

«Io non ho niente da dirti, lasciami andare». Gli dissi a denti stretti.

Deglutii subito dopo quando mi obbligò ad alzare lo sguardo nel suo. Ci affogai ancora, rimasi aggrappato a quelle iridi chiare e mi sentii tremare le viscere, il ventre inizio a scaldarsi e un grumo di sudore mi si racimolò sulla fronte.

Dio quanto era bello il diavolo.

«Squisita. Mi piacciono le sfide dovresti saperlo». Rispose determinato.

«Non c'è nessuna sfida, tu non mi conosci, io non ti conosco, ora se per te va bene andrei a lavorare essendo che sono qui per questo. Non ti sto sfidando, preferirei solo che mi lasciassi andare».

L'allarme primordiale mi morse la pelle quando lui fece un sorriso freddo, producendo un ghigno dalla gola subito dopo senza coinvolgere gli occhi.

Mi si accapponò la pelle.

«Oh! Violetta, violetta violetta.» Canticchio divertito, «Non avrei mai pensato di salire quassù e trovare...te. Ero più che certo che ti avrei scopata con una botta e via, ma mi stai facendo ricredere. Tu vuoi giocare.» Canticchio di nuovo troppo divertito.

Troppo.

Mossi la testa con veemenza per quanto la sua grossa mano dietro il collo me lo permettesse, e sgranai gli occhi. «No! Non voglio giocare, sono piuttosto seria. Ti prego.» Soffiai quest'ultima frase in apprensione.

Le lacrime mi risalirono violente ma le respinsi in fondo alla gola determinata.

«Non metterti a frignare di nuovo, altrimenti tengo fede alla mia idea iniziale e ti scopo proprio qui». Mi minacciò.

«Adoro la paura, e se veramente non mi conosci, devi sapere che sono deviato. Più mi pregherai, più io ti vorrò veramente succhiare quelle tette che nascondi sotto la canotta. Più cercherai di allontanarti, più io vorrò acciuffarti, farti piegare ad angolo retto e sculacciarti fino a farti venire quel culone sodo rosso. E infine, se ti azzardi a piangere e a velare quegli occhi viola di lacrime, ti pianterò sul cazzo, così avrai un valido motivo, indipendentemente dalle tua lamentele, dal tuo dibatterti, ti scoperò. Forte, senza inibizioni. Perché me lo hai fatto venire duro dalle nove e mezza di questa sera e me ne fotto del fatto che sei una cazzo di minorenne».

Spalancai la bocca mentre gli ingranaggi nel mio cervello stavano elaborando le sue parole. Mi sentii stordita, affranta, sporca e... eccitata come mai prima d'ora.

Non avevo mai fatto sesso con un ragazzo, sì avevo avuto dei ragazzi due per la precisione, ma non ci eravamo mai spinti oltre ai baci e a qualche toccatina fugace.

Sapevo che a molti il mio corpo con le forme abbondanti piaceva, sia il mio seno prosperoso sia il mio lato B grande, ma mai avrei pensato di udire certe parole uscire dalla bocca del lupo nero.

La stella nascente del basket dello stato di Minnesota.

Questo mi generò un languore e un fremito alle parti basse ma allo stesso tempo mi fece sentire sporca e inadeguata, e ancora più sporca.

Questo pensiero mi scaturii una rabbia che non avrei mai creduto di avere. Non io, che non mi arrabbiavo quasi mai con nessuno, non io che ho sempre avuto una pazienza che faceva innervosire addirittura mia zia.

Iniziai a dibattermi convulsamente prendendolo a pugni dovunque per la collera verso me stessa.

Mi sono bagnata, e eccitata e... ancora eccitata.

Cercai di divincolarmi da lui con tutte le forze che avevo.

«Tu brutto stronzo, come ti permetti di dirmi queste cose! Io non mi lascerò mai andare con un mostro come te! Ti odio, ti ho sempre odiato e continuerò ad odiarti per sempre. Sei una razza di prepotente che si nasconde dietro ai soldi facendo del male al prossimo senza nessuno scrupolo. Come puoi minimamente pensare di trovare una troia in me, che vuole venire a letto con te solo perché sei il cazzo di Caleb War. Sei un mostro, un insulsa creatura che non dovrebbe stare nel mondo. Tu sei pazzo! Lasciami! Lasciami!»

La forza con cui mi dibattei contro le sue braccia enormi era sconquassante, l'adrenalina scorse a fiotti nelle mie vene e lacrime bollenti mi bagnarono il volto senza nemmeno rendermene conto.

Cercai ancora di divincolarmi dandogli dei pugni sul petto con tutte le forze che avevo e ci riuscii.

Riuscii a liberarmi, o forse fu lui a lasciarmi andare, non m'importò comunque. Mi girai sui tacchi e aprii la porta. Feci un passo oltrepassandolo ma lui mi agguantò il braccio e mi fece sbattere contro il suo petto.

Era di marmo, eppure era caldo.

Lo sentii respirare pesantemente, il suo torace andò su e giù come se avesse corso una maratona e il suo battito cardiaco a mille mi fece capire che era umano.

Perché sì, avevo preso in seria considerazione che lui non lo fosse.

Nessuno sano di mente si sarebbe comportato in quel modo.

Mi strinse al suo corpo ed io andai ad appiattirmi con le gambe molli. Mi lasciai andare però non caddi a terra.

«Oh piccola violetta. Sei magnifica». Disse sfiorando con le proprie labbra il mio orecchio prima di lasciarmi andare una volta accortosi che riuscivo a reggermi in piedi.

«Che i giochi abbiano inizio occhi viola. Per me sarà un gran piacere, ora riposati.» Concluse.

Mi lasciò andare, aprì la porta e scomparve oltre le scale.

Caddi a terra e urlai liberando le viscere dal terrore.

♤~♤~♤
Shon Adams

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