Caleb
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Questo capitolo contiene scene erotiche e una forma di stupro fisico e psicologico. Perciò siete pregati di non leggerlo se ne siete sensibili.
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Capitolo 28
“Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.”
DANTE ALIGHIERI
L’avevo lasciata nello studio di sua zia dopo averla sentito piangere in quel modo e me ne ero andato via. Non lo so se l’avevo fatto perché non avevo avuto la forza di sentirla e di vederla in quel modo, oppure fosse più segreta.
Per un secondo dentro di me avevo avuto l’impressione che tutto gridasse di tornare indietro, prenderla fra le mie braccia e portarla via con me per baciare ogni lacrima versata per colpa mia. Volevo tenerla vicina e consolare il suo cuore sofferente per farla sentire meglio, perché quando lei soffriva, io soffrivo il doppio.
Mi sentivo un verme bastardo che doveva scomparire da questo mondo. Avevo avuto davvero l’intenzione di stuprare la sua bocca solo perché lei voleva il mio bene?
Dopo tutto ciò che le ho fatto e dopo tutti i giochi psicologici che avevo condotto, lei aveva avuto comunque la forza per dire a me che soffrivo, invece che decidere di insultarmi e di darmi la schiena come tutte le altre persone.
Io non meritavo nulla. Bensì avessi tutto ciò che volevo, io non avevo niente.
Restai fuori dal Wolves per una buona mezz’ora mentre accendevo e spegneva le sigarette come se fosse l’unica cosa necessaria a farmi tenere i piedi ben saldi a terra per non correre la sopra e portarla via con me.
Avevo avuto la brillante idea di farla soffrire; ebbene, ci ero riuscito alla grande ‘sta volta.
Il vento ululava ad ogni direzione, mentre il fumo dell’ennesima sigaretta svaniva nell’aria, come il battito del mio cuore schizzava nel mio torace. Presi un respiro profondo gettando nel posacenere il mozzicone e mi calai sulla testa il cappuccio della felpa per proteggermi dal freddo.
Sentii la porta dell’ingresso aprirsi e le voci di un paio di studenti mi giunsero strillanti alle orecchie. Mi nascosi bene in penombra per non essere visto. L’unica cosa che volevo era quello di sapere che Lilla stesse bene.
Era più forte di me, ma la rabbia che nutrivo sempre per ogni singolo vivente, quella volta, venne meno, poiché quella rossa dagli occhi ametista mi aveva strappato ogni mia convinzione con il semplice gesto di essere guardato.
«A quanto pare, l’hai fatto…», disse una voce alla mia destra dove il buio era fitto e i lampioni non coprivano l’angolo.
Assottigliai lo sguardo, sapendo bene a chi apparteneva quella voce. Un moto di rabbia mi si formò al centro del petto e serrai con forza la mascella.
«Era ovvio. Dovresti conoscermi».
Dean uscì alla luce, aveva i capelli biondi tutti scompigliati e gli occhi grigi erano ben socchiusi, sembrava quasi volesse incenerire il sottoscritto sul posto.
«Io so cosa vuoi Caleb», mi disse sospirando mentre mi fissava con insistenza. «Il punto è, se tu lo sai».
Deglutii mordendomi l’interno della guancia e distolsi lo sguardo da lui per guardare avanti, oltre la strada. C’erano le macchine parcheggiate, e oltre il marciapiede, il bosco della Little Falls che conduceva alle grotte si espandeva per miglia.
L’Wolves era collocato in un punto assai strategico perché si trovava a sud della città confinato con il bosco. Qui nessuno poteva essere disturbato dalla musica o dal chiasso che gli studenti facevano tutti gli weekand.
«Io so che lei deve pagare per ciò che ha fatto» dissi in toni duro.
«Lei non ha fatto niente Caleb.», venne in sua difesa. Questa cosa di lui che doveva contraddire ogni mia parola stava iniziando a darmi sui nervi. Ma decisi di restare calmo. Anche perché, se mi aveva raggiunto fino a qui, c’era un motivo.
«Semplicemente è più forte di quello che credevi. Di quello che credevamo», si corresse stringendosi nelle spalle.
Sospirai dal naso. «Perché sei venuto fin qui Dean?» domandai deciso al mio migliore amico catturando il suo sguardo nel mio.
Il silenzio pure nel suo sguardo era qualcosa di ineguagliabile la sua peculiarità. Sapeva confonderti con la semplice arte del non parlare.
«So cosa avete in mente per lei lunedì.» disse tornando seria. Il suo volto dipinto di collera fu il segnale che stava perdendo la sua solita faccia da poker.
Sorrisi ironico leccandomi le labbra. «Bene, hai intenzione di andare a spifferare tutto alla puttana rossa»? Mi voltai e mi misi di fronte a lui. Dean mi guardò aggrottando le sopracciglia appena più scure della tonalità del biondo dei capelli.
«Caleb, non chiamarla così. E sì, se non cambi idea, le dirò l’orribile piano che hai architettato per cacciarla dalla scuola».
Ghignai, stringendo forte i pugni fino a conficcare le unghie nei palmi per trattenere l’impulso di volergli dare un pugno in faccia.
«Tu non le dirai un bel niente!»
Alzai le sopracciglia fino ad attaccare alla radice dei capelli mentre la rabbia cresceva a ondate sulle mie spalle. «La voglio fuori dalla nostra vita. Lei è riuscita a spaccare il nostro gruppo. Lei se volesse ci può annientare. È una minaccia.»
«Una minaccia? Ma ti stai ascoltando? No Caleb, lei è una povera ragazza che per sua sfortuna è malcapitata nelle tue mani. E ora deve ricorrere a tutta la sua fortuna per liberarsi di te!», esclamò il mio migliore amico, mentre le sue parole si mescolarsi con il vento che si fece sempre più forte.
Il cappuccio che avevo in testa mi scese giù per le spalle e i miei capelli presero a svolazzare come quelli di Dean nell’aria. L’attimo era così intrisi di rabbia e di insicurezze che non potevo fare altro se non respirare e sospirare con affanno.
«Per quanto riguarda allo spacco del gruppo! Non è lei. Ma tu! Quando capirai chi sei, sarà troppo tardi Caleb. Estremamente tardi.», disse il mio amico voltandomi le spalle. Come se il nostro dialogo fosse finito così.
Odiavo quando mi parlava per enigmi. Era una cosa che non avevo mai sopportato in lui. E di certo, ora che ero avvolto dall’ira, non mi sarebbe scapato così.
«Dean!», urlai sopra il vento. «Abbiamo sempre fatto ciò che stiamo facendo a lei. Perché all’improvviso hai cambiato idea?».
Dean si fermò, restando di schiena. Si prese qualche secondo per elaborare la mia domanda assai lecita. Poi rivolgendomi uno sguardo di profilo. Disse: «Perché io so cosa provi. Cosa racconti a te stesso e quanto fa male amico.»
Sbattei le palpebre un paio di volte di troppo, stava parlando di lei? Ancora? «Beh, io non sono te!» esclamai sicuro di me.
«No, non sei me. Tu sei Caleb War. Il figlio di Trevor War. Tu non senti nulla per nessuno. Tranne per coloro che vi mostrano di avere paura. No Caleb, non sei me. Se fossi me, soffriresti.»
Deglutii in vano alla ricerca di buttare giù il nodo alla gola, ma era impossibile. Eppure, c’era ancora dentro di me la voglia di far capire a Dean che sbagliava.
«Quindi non saremmo più amici?» domandai aggrottando la fronte.
Dean mi guardò da sotto le sue ciglia. «Noi saremmo sempre amici. Solo che ora, ho anche un’amica e che ti piaccia o no, lei sarà sempre nella mia vita. E con ciò voglio dire…», sospirò gonfiando il petto ampio mentre nella mia testa si susseguivano mille scenari possibili.
«Se fai del male a lei, lo fai a me Caleb. Perché ho intenzione di farla diventare la mia ragazza.» sospirò ancora. Ebbi un moto d’ira che andò oltre ogni limite.
Lei era mia!
Le narici mi fremettero e il sangue mi si surriscaldò all’istante nelle vene. Ero geloso. Lo ero sempre stato. In tutti questi anni non avevo permesso a nessuno di intralciare la nostra amicizia, ed ora era arrivata quella rossa a rovinare tutto.
Il nostro gioco andava avanti da anni. Dean stesso aveva escogitato e preparato dei giochi per molti studenti. Ma ora all’improvviso aveva decido di darmi la schiena come se noi non fossimo mai stati migliori amici.
Lui me l’avrebbe pagato.
«Se decidi di schierarti dalla sua parte… oppure farai davvero quello che mi hai appena detto...», urlai con il petto che mi andava su e giù sempre più scostante. «la nostra amicizia finisce qui!»
Dean si strinse nelle spalle dicendo: «Oh, suvvia, quante volte l’hai detto. Eppure, siamo sempre qui. Solo che questa volta, capirai tu chi sei veramente e che cosa vuoi dalla vita. Essendo che Caleb, tra un mese avrai vent’anni e dovrai decidere se vorrai crescere, oppure continuare a vivere per sempre come una marionetta nelle mani di colui che dici di voler uccidere!»
Mi mancò il fatto mentre elaboravo le sue parole, per quanto tentasse di scacciare il demone dentro di me, non riuscivo a farcela. Era radicato nel profondo e ad ogni respiro che facevo. L’unica liberazione per non pensare all’inferno era Dalia Nera.
Avevo inventato quel gioco per soffocare il male dentro di me, facendo del male alle altre persone. E per quanto la cosa fosse ignobile, era l’unico modo per non cadere nel baratro della follia.
Forse quella piccola rossa aveva avuto ragione. Forse avevo davvero bisogno di andare a rinchiudermi in un ospedale psichiatrico. Forse, loro avrebbero saputo curarmi. Curare le mie deviazioni. I miei spettri. Forse l’elettroshock avrebbe fatto di me un’ombra vuota e priva di sentimenti. Eppure, non riesco a concepire me stesso in un altro modo. Mi avevano plasmato per essere cattivo. E il fatto era, che mi piaceva.
Stavo per rispondergli, ma Dean era scomparso nel buio.
«Forse, hai ragione.», bisbigliai rivolgendo lo sguardo verso la strada.
Non stavo guardando nulla, poiché il mio cervello stava andando a ritroso, io avevo sempre odiato l’umanità. E l’umanità odiava me. Era una bilancia equa. Tutto stava in equilibrio, ma la mia mente stava cedendo. Le mie azioni erano spesso contrastate dal senso di colpa per quella piccola dagli occhi viola. E dovevo prendere in mano la situazione il prima possibile.
🐺
Stavo per lasciare finalmente l’Wolves quando un Suv nero si fermò dall’altra parte della strada. Aveva i vetri neri, e il guidatore abbassò appena il finestrino guardando oltre le vetrate il bar.
Assottiglia lo sguardo. Non sapevo se loro mi avessero visto oppure no, ma c’era il sospetto che stavano cercando qualcosa. O, qualcuno. La macchina si fermò giusto il tempo di dare un’occhiata, così uscii dall’ombra ove mi ero rintanato per vederli meglio.
Potevano essere chiunque, ma il sospetto che fosse lui mi bussò sulla corteccia del cervello e la rabbia si depositò nel mio stomaco. Feci dei passi decisi verso l’auto con il controvento che mi sferzava il volto. Volevo vedere meglio, e quando incontrai un paio di occhi neri come la pece, assottigliai lo sguardo.
La persona dentro la macchina mi osservò per circa dieci secondi prima di dare gas alla macchina e sparire velocemente.
Un’idea malsana si manifestò nel mio cervello e senza pensarci due volte, corsi deciso verso la moto. M’infilai il caso alle bell’e buono e accesi la moto diretto al loro inseguimento. Era lui? Era tornato in città per torturarmi ancora? Erano stati quegli uomini a chiudermi in uno sgabuzzino? Misi la quarta e la quinta dando gas alla moto e sfrecciai nella loro direzione.
Oltrepassai un semaforo con il rosso, la strada era deserta e il freddo si infitti infilandosi nelle mie ossa. Ma tutto ciò che volevo ero riuscire a inseguirli.
La macchina sembrava scomparsa, non c’era nessuna traccia di loro. Con l’adrenalina a mille feci il giro diverse volte per tentare di trovarli, ma ancora nulla.
Persi le speranze, e il freddo della sera non mi aiutava a restare concentrato. Così decisi di tornare indietro.
Chissà chi erano. E soprattutto, perché fermarsi appena dall’altra parte della strada per scrutare l’Wolves e poi scomparire?
Avevo un brutto presentimento, ma tutto scomparve quando vidi Shannon guidare l’auto con Lilla al suo fianco. Mi fermai, spensi la moto e attesi sul ciglio della strada che il semaforo tornasse verde. Non volevo essere visto dalle due. Ma mi accorsi benissimo della rossa. Era rannicchiata sul sedile davanti, lo sguardo perso. Sembrava stanca e per un secondo pensai che vederla così mi spaccava il petto. Ma al diavolo. Ero un coglione. Lei era la mia preda. Il mio trofeo e non mi avrebbe impietosito con il suo broncio.
Tenni il casco addosso e restai fermo mentre Shannon partiva dopo il verde, e un pensiero molto interessante mi passò per l’anticamera del cervello.
Stava tornando a casa. E io le avevo fatto una promessa.
Attesi un po’ per vedere scomparire la macchina e mi misi al loro inseguimento. Una volta fuori dalla casa della rossa, ispezionai la casa. Nel viale c’era parcheggiata la macchina di Shannon e sul portico era accesa la luce. C’era la finestra aperta al primo piano ma presupposi che fosse quella della cucina essendo che c’era la camera d’aria. Le tende svolazzavano dal vento avanti e indietro.
Mi spostai di poco nascondendo la moto vicino a un albero alla sinistra dove ero sicuro nessuno ci avrebbe fatto caso all’una di notte e scesi giù levando il casco.
Al secondo piano, c’erano due luci accese, quella della camera che dava sul giardino, dove c’era l’albero di ciliegio e quella che dava verso Little Falls.
Mi avvicinai con cautela alle ringhiere del cancello quando la finestra che era aperta si chiuse di scatto dall’interno. Mi appoggiai immediatamente alla porta per non essere visto e mi accucciai facendomi piccolo in penombra.
«Merda.» bisbiglia con il panico che mi aveva aggrappato il petto. Se Shannon mi avesse vista, avrei avuto più di un problema da risolvere.
Presi un lungo respiro e attesi in silenzio che una delle due luci si spegnesse. Non ero sicuro su quale fosse la camera di Lilla, ma sarei entrato su entrambe se fosse servito.
Volevo toccare quella bambina. Volevo scopare la sua figa con la bocca fino a farle scordare che esisteva un altro dio oltre a me. Io sarei stato il suo unico dio. Il suo unico credo. Avrebbe pregato me per qualsiasi cosa. E mi avrebbe battezzata come l’unico essere al mondo che avrebbe voluto.
“Sogna Caleb”.
Almeno finché questo gioco non fosse finito con lei lontano da questa città. Passarono ben quindici minuti prima che le luci delle due camere si spegnessero. E fu in quel momento che entrai in azione.
Il muro che delineava la proprietà dei Baker dai vicini era basso, e coperto dalle piante arrampicanti. Sapevo che aveva un sistema d’allarme. Ogni casa lo aveva se non avevano i muri alti, quindi decisi di camminare sopra il muro fino a raggiungere l’albero di ciliegio.
Forse arrampicandomi e senza mettere i piedi per terra l’allarme non si sarebbe acceso. Ma era pur sempre una mia teoria. Mi aggrappai stringendo tra le mani una corteccia ben spessa e mi issai con le braccia. Trovai un appoggio per il piede destro su un ramo abbastanza robusto e spostando il peso del corpo sulle braccia di nuovo alzai il piede sinistro fino in cima.
Feci oscillare l’altra gamba e mi misi in piedi sopra il muro. Mi accucciai voltandomi a destra seguendo il sentiero e facendo attenzione a non inciampare su qualche ramo. Senza volere schiaccia delle foglie secche che fecero rumore. Il battito cardiaco mi schizzo in gola mentre la tempia sinistra mi pulsò appena.
Rivolgendo uno sguardo a destra e a sinistra nel caso qualcuno mi stesse osservando, ripresi a camminare ancora. Una volta di fronte all’albero alzai gli occhi sulla finestra chiusa.
Speravo fortissimo che non l’avesse chiusa del tutto, e fui più che certo che quella fosse la camera della bambina dagli occhi viola. Poiché c’era un cavalletto fuori dal balcone. Non c’era la tela, ma sapevo che a lei piaceva dipingere, quindi un sorriso bastardo mi si manifestò sul volto.
Feci un respiro profondo prima di mettermi in posizione per allungarmi sul ramo. Notai velocemente le luci basse e a terra che erano sicuramente collegati con l’allarme e feci mente locale che non dovevo in alcun modo oscillare in basso i piedi, o si sarebbe scatenato l’inferno.
Con una mossa veloce mi gettai sul ramo robusto dell’albero, aggrappai le braccia intorno al tronco spesso ma il piede destro cedette appena. Il cuore smise di battere quando mi accorsi che ci sarebbe mancato davvero, davvero pochissimo e tutta questa follia avrebbe finito per essere una brutta esperienza per me.
Prontamente ganciai il piede al ramo più basso, anche se era poco robusto e misi tutto il peso su quello sinistro. Una volta tornato in equilibrio. Sorrisi a mezza bocca. Mi arrampicai fino ad essere di fronte al balcone. C’era una luce soffusa dentro la sua camera, le tende erano color crema e un poco trasparenti, ma con il buio attorno, non riuscii a vedere un granché all’interno.
Mi allungai e mi aggrappai alle ringhiere, feci la stessa cosa di prima mettendo tutto il peso sulle braccia e mi issai scavalcandole. Il ferro era freddo e umido per via dell’umidità nell’aria.
Feci un lungo respiro una volta con i piedi per terra e mi avvicinai alla portafinestra. Chiusi gli occhi nella speranza di trovarla aperta. La camera era buia, oltre alla lucina sul comodino, non si vedeva nient’altro.
La sospinsi ed essa cedette. Non era chiusa.
“Bene bene, quindi mi stavi aspettando!”
Gonfiai il petto ed entrai. La camera era calda, e il letto era ben fatto, segno che lei non stava dormendo. Non v’era nessuno lì dentro. Voltai lo sguardo a sinistra verso il comodino azzurro, c’erano libri scolastici, e un paio di foto che non guardai, poiché mi aveva attratto quel dipinto attaccato all’armadio.
Era una mezza luna nascente, il cielo notturno con qualche stella qua e là che sbranavano ricreare il grande carro nelle zanne di un lupo dalla bocca spalcata e dagli occhi rosso fuoco. Come se quello significasse la morte della bellezza in persona. Era bellissimo e sapevo l’avesse fatto lei.
Deglutii e mi avvicinai per osservarlo meglio. Nelle zanne del lupo c’era del sangue, come se avesse morso la luna ed essa aveva sanguinato. Sembrava quasi che più la mordeva e più la sua sete non sarebbe stata appagata. Era… toccante.
Un paio di passi mi fecero distogliere l’attenzione. Rivolsi lo sguardo verso la porta e con passi felpati, mi nascosi dietro. La porta si aprii e l’ombra di lei entro dallo spiraglio di luce.
Quando fece per chiudere la porta mi guardò. I suoi occhi divennero due biglie viola increduli e spaventati e prima ancora che iniziasse a gridare , in una mossa veloce le tappa la bocca ammonendola con lo sguardo e con la mascella serrata.
Cercò di divincolarsi ma ci misi più forza afferrando i suoi capelli umidi nel palmo della mano e avvicinandola al mio volto.
«Non… gridare» l’l’ammonì sussurrandole.
I suoi occhi corsero alla porta socchiusa prima di tornare di nuovo su di me. Con un calcio leggero la chiusi del tutto. Eravamo soli e con il mondo all’esterno.
Lei mi stava ancora osservando incredula ma smise di opporre resistenza. La lascia andare piano, facendole un sorriso che la sapeva lunga.
«Cosa ci fai tu qui!» esclamò a bassa voce con la fronte aggrottata. «Vattene via o chiamo mia zia!» Minacciò a pungi stretti.
Alzai un sopracciglio, aveva i capelli bagnati, diverse ciocche rosse le incorniciavano il volto dalle gote rosate per via della doccia che si era fatta.
Abbassai lo sguardo ancora sul suo corpo, e un formicolio leggere mi si manifestò alla base dello stomaco. Aveva addosso un piangiamo azzurro con le farfalle. La maglietta era abbastanza sottile e scollata da scorgere i suoi seni dalla rotondità perfetta. Lei deglutì seguendo la mia traiettoria.
«Ti avevo fatto una promessa piccola Violetta. Ricordi?»
Il suo volto si indurì. «Cosa vuoi ancora Caleb? Non ti è bastato annientare la mia dignità al Wolves?»
Strinsi a mia volta la mascella. Sì, direi che aveva centrato il punto.
«Dimmi. Hai paura di me ora?» le domandai assottigliando appena lo sguardo piegando la testa per osservarla meglio.
Il suo respiro divenne irregolare e il petto le scattò una volta sola. Come se avesse talmente tante emozioni represse da annientare un intero mondo la fuori. Ma io ero qui dentro. Quindi se avesse voluto, poteva farmi male.
«N-non ho paura di te», sussurrò in quel modo amareggiato nel vano tentativo di darmela a bere.
Il mio ego si fece grande. E il cazzo mi pulsò nei pantaloni a sottolineare l’appagamento perverso nella mia testa.
Volsi lo sguardo verso il dipinto, prima di fare un passo in avanti dicendo: «Sicura?»
Lei annuii non perdendosi mai di vista ogni mia azione. «Vattene o chiamo la polizia!»
Sorrisi da psicopatico. «Oh, così mi ferisci Viola. Ed io che ero indeciso se mangiarti la fica o prenderti a sculacciate» la provocai derisorio.
I suoi occhi si ingigantirono e il suo collo si colorò appena sottolineando l’imbarazzo.
«Questo gioco non mi piace. Non puoi piombare a casa mia e voler mettermi le mani addosso quando ti pare e piace. Noi ci odiamo. Questo si chiama stalking!», sussurrò perplessa.
«È proprio per questo motivo che voglio mangiarti bambina.» Le roteai intorno, e lei si spostò ad ogni mio movimento. «Perché così saprai cosa ti perderai. Cosa io sarei stato disposto a darti ma tu non lo hai voluto accettare!»
I suoi occhi si spalancano appena mentre il petto le andò su e giù sempre più scostante. Deglutì e strinse forte i pugni lungo i fianchi lasciati nudi dalla canotta corta che indossava.
«Stavi per stuprarmi brutto mostro.» disse a bassa voce stringendo la mascella. «Stasera, tu stavi davvero per…», chiuse gli occhi come se non riuscisse ad accattare davvero le proprie parole.
Deglutii a mia volta, riconoscendo la morsa dello sbaglio.
«Ti avevo detto di essere un mostro.» , le feci notare. Smettendo di camminare mi avvicinai a lei che indietreggiò di riflesso.
«Ora sono qui perché voglio divertirmi. Devi fartene una ragione.» la mia voce fu bassa e il tono sottile e alterato dalla follia sembrò un gemito soffocato e pieno di aspettative sinistre.
Lilla aggrotto la fronte spaventata ma i suoi piedi tremarono appena. «Vuoi continuare ciò che stavi facendo? Beh non te lo permetterò!» disse decisa.
Risi, una risata leggera che non partiva dal cuore ma che le mostrò tutte le mie “buone” intenzioni. «No, non voglio infilarti il cazzo in gola. Anche se la cosa mi piacerebbe moltissimo in vero. Voglio farti gemere nel tuo stesso letto mentre ti mangio la fica come se fosse il piatto più gustoso del menù.»
Lei aprii e rinchiuse la bocca diverse volte mentre sbatteva le palpebre incredula. «Pensi davvero che ti lascerò giocare con il mio corpo lupo? Pensi davvero che dopo tutto quello che hai fatto a me e al mio migliore amico ti renderò le tue perversioni così facili?» parlò con determinazione.
Deglutii facendo un mezzo sorriso di scherno guidato dalla voglia matta di sbattere sul letto e di scoparla fino all’indomani.
«Hai intenzione di uscire con Dean?» le domandai a bruciapelo stringendo le mani a pugno lungo i fianchi.
Lei si passò le mani sul volto, gesto di esasperazione a parer mio e mi guardò aggrottando la fronte.
«Non sono fatti tuoi. Quindi levati dalle palle prima che mi metta a urlare e svegliare tutta Little Falls.» Minacciò invano ancora.
Gonfiai il petto facendo un respiro profondo e dedussi che la sua risposta fosse un “Sì”, lei aveva intenzione di uscire don il mio migliore amico.
«Lilla…», la minacciai chiamandola per nome. Il sangue mi correva veloce nelle vene e il mix di lussuria e perversione mi offuscarono la mente. Se c’era qualcosa che non avrei mai accettato, era una relazione tra lei e Dean.
«Non ve lo permetterò», risposi torvo tenendo gli occhi ben saldi su di lei. La vidi deglutire.
Lei credeva alle mie parole. Lei aveva sempre creduto alle mie parole nonostante il fatto che non volesse mai accettarle. E sapeva bene che non scherzavo su una cosa del genere.
«Allora accomodati stronzo!» disse a denti stretti restando bene a distanza da me.
In una falcata la raggiunsi trovandola impreparata, anche se doveva sapere che minare il mio autocontrollo non le avrebbe giovato un granché.
La presi per la gola stringendo appena fino a vedere i suoi occhi spalancarsi dalla paura. La sospinsi dritta nel letto e mi gettai sopra di lei per immobilizzare il suo corpo che andò ad incastrarsi su ogni curva del mio. La testa mi scoppiava dalla rabbia e senza pensarci due volte la baciai.
Piantai le mie labbra sulle sue assaporando il sapore meraviglioso che aveva suo, il rigonfiamento estremo nei miei pantaloni pulsò con forza, quando le sue labbra restarono ben chiuse. Il cuore mi scoppiò nel petto alla collisione inaspettato pure per me con le sue labbra morbide.
Cercò di liberarsi, ma strinsi più forte la morsa sulla sua gola e la morsi. Morsi con determinazione le sue labbra che si schiusero creando una perfetta o intrisi di dolore.
Tenni tra i denti il labbro inferiore fino a tagliarlo e il sangue dal sapore acre mi impostò la lingua. Lilla gemette. Un gemito sensuale che mi mandò in visibilio mischiato con il dolore che le stavo impartendo. Così mi staccai. Ci guardammo, eravamo così vicini, occhi negli occhi, notai il suo petto scattare con forza mentre restava muta con lo sguardo arrabbiato nel mio.
«Tu. Sei. Mia», le dissi sicuro di me. Lei restò muta ancora di più mentre un rivolo di sangue le scendeva fino al mento. L’avevo segnata e ne ero soddisfatto.
«E ti farò capire che anche se vorrai pensare agli altri, non potrai fare a meno di volere me e i miei demoni!» esclamai abbassando la mano sulla sua coscia.
Il petto le tremò e chiuse gli occhi come se le fosse impossibile da sopportare le mie mani addosso.
«Ti detesto!», disse a mezza voce. Sorrisi, carezzando la sua coscia liscia come il velluto languidamente. Con l’altra mano iniziai a scorrere la forma del suo collo e mi resi conto che le si riempì d’oca.
«Devi lasciarmi in pace. Io non ti voglio!» esclamò esasperata piagnucolando.
«Ti lascerò in pace quando capirai che esisto solo io per te bambina. Solo allora mi riterrò soddisfatto.» le sussurrai all’orecchio mentre con la mano iniziai a salire all’interno coscia.
Lei si mosse appena quando avvicinai le dita alla base della coscia destra. Ero così vicino alla sua fica, che mi sarebbe bastato un piccolo movimento. Ghignai, aveva gli occhi chiusi e mosse il capo nascondendo il volto nel cuscino.
«Allora cosa vuoi farmi?» domandò ansimando appena prima di mordersi le labbra per non tradirsi.
“Piccola Bugiarda. Sapevamo entrambi che le piaceva ciò che le stavo facendo”.
Con la mano strinsi forte la sua carne prima di schiudere le labbra e posarle sul suo collo scoperto dai capelli. Il suo piccolo gemito mi fece accapponare la pelle e la testa mi vorticò in preda alle vertigini.
Ringhiai: «Te l’ho detto: voglio mangiarti.» sussurrai lasciandole un bacio umido sulla carotide.
«Tu mi stai facendo male», sussurrò.
Negai, i miei capelli le sfiorarono il petto e lei ebbe uno spasmo al petto.
«No, io ti sto facendo capire che cosa vuol dire essere mia.»
«Caleb, ti supplico vattene via. Mi fai paura okay. Era questo che volevi sapere giusto? Beh, è così, tu mi terrorizzi.» sussurrò sussultando appena.
Smisi di baciare il suo collo e assottigliai lo sguardo osservandola. Aveva paura di me? Bene. Ma ora non volevo spaventarla. Ora ero deciso di impartire una lezione alla sua fica e soprattutto alla sua mente.
«Hai intenzione di farmi del male?» domandò di getto guardandomi con i suoi grandi occhi ingannatori. Il petto mi doleva dalla pressione del suo sguardo abbattuto.
«Vuoi scoprirlo?» le sussurrai portando la mano sull’elastico degli shorts. Lilla trattene il fiato e negò tenendo le labbra ben chiuse.
«No», disse con la voce rotta.
«Allora te lo farò.» aggiunsi mettendole una mano nella bocca per non farla urlare.
Osservai velocemente a destra e sinistra per trovare qualcosa e quando intravidi una sciarpa abbandonata sulla sedia, i miei occhi si illuminarono. Lei cercò di divincolarsi ma la tenni ben ferma e mi allungai alla destra per afferrarla. Notai una lacrima lasciare le sue iridi e deciso lasciai la sua bocca per alzare il collo e far passare la sciarpa.
«Caleb… no.» disse negando e la paura la paralizzò con lo sguardo sbarrato.
«Tu sei mia. E prima lo capirai. Prima finirà questa storia.» le dissi imbavagliandole la bocca. Iniziò a scalciare e a muoversi come una bestia impazzita, ma riuscii comunque a tenerla immobile.
«Non ti farò del male stasera. Ti farò vedere il paradiso.» sussurrai al suo orecchio mente le tenevo ben stretto i polsi tra loro sopra la sua testa con la mano.
«Lasciami fare, stasera lasciami dare del piacere al tuo corpo. Domani, torneremo ciò che siamo sempre stati. Nemici.»
Il suo petto si gonfiava sempre di più e chiuse gli occhi per tranquillizzare il battito del cuore. Cercò ancora di liberare le mani ma non glielo permisi.
Una volta calmata, i nostri occhi si trovarono. Finii per restare inglobato dalle sue pupille magiche mentre con la mano formavo delle traiettorie irriconoscibili sulla sua pancia piatta.
La osservai in continuazione facendomi largo oltre l’elastico dei pantaloncini e lei smise di respirare. Notai la sua gola fare su e giù e deglutire con difficoltà.
Ma era curiosa. Un mix di curiosità e paura che mi inebriò i sensi. Infilai la mano oltre le sue mutandine e trovai il monte di venere. Lei volse lo sguardo dall’altra parte e la sua gola iniziò a colorarsi mentre giocavo con il pistillo della sua femminilità.
Allungai le dita in mezzo alle pieghe della sua fica e ciò che trovai mi lasciò senza fiato. Era bagnata fradicia. Talmente zuppa da aver lasciato una scia pure sulle mutandine.
Sorrisi: «Oh», gemetti. Volevo assaggiarlo. Volevo mangiare ogni millimetro di quella squisita forma. Il dolore fisico che mi aveva indotto era ineguagliabile ma non volevo pensare al mio cazzo che pulsava dolorosamente nei miei pantaloni.
Iniziai a scendere lentamente e depositai un bacio sul suo addome prima di liberare i polsi.
«Ora ti mangio», le dissi portando le mani ai lati delle sue anche e abbassando in un unico strattone i pantaloni. Lei si mosse chiudendo le gambe di riflesso vergognandosi per la sua nudità. La osservai chiudere gli occhi mentre una lacrima scese copiosa lungo la sua guancia.
Senza perdere tempo, le aprii osservando la meraviglia che aveva tra le gambe. Era un sogno. Avrei potuto sprofondare dentro di lei subito se solo avessi voluto.
Era lucida e piccola, il pistillo ben gonfio e rosa pronto per ricevermi. Mi tolsi la felpa il caldo mi stava ustionato la pelle mentre il cuore mi batteva veloce nel petto. Mi abbassai in mezzo alle sue gambe e annusai il suo profumo. Sapeva di magia. E non riuscii ad attendere oltre.
«Sei così invitante cazzo!» esclamai portando la lingua in fuori e carezzando il suo clitoride. Lei ebbe uno spasmo e un gemito soffocato per via della bocca chiusa le uscii rotto.
Sorrisi sospirando. «Sì bambina. So che ti piacerà da morire.»
Con una lappata ben lubrificata la leccai da sotto a sopra ingoiando ogni suo umore per un paio di volte e finii per battere la lingua sul clitoride.
Lei gemette ancora sussultando nel letto e si spostò come se fosse stato impossibile da contenere il piacere ricavato. Alzai lo sguardo e la osservai ansimare.
Aprii di nuovo la bocca e succhiai le sue piccole labbra ingoiando tutto. Poi con la lingua mi feci largo dalla fessura stretta fino al clitoride ancora e ancora mangiando come se fosse una torta alla panna.
Lei gemeva e io leccavo. La leccai sempre più veloce. Succhiai il suo clitoride fino a indurirlo e passai la punta della lingua ancora e ancora dalla fessura fino in cima.
Il cazzo pulsava è non ho potuto fare altro se non slacciare i pantaloni per dare un po’ di sollievo all'esigenza fisiologica del mio corpo.
Mi aggrappai con le unghie alle sue cosce e continuai a leccare la sua fica sempre di più mente lei aveva spasmi e sussultava sul letto senza poter urlare.
Ad un certo punto, smisi di leccare e iniziai a giocherellare con il clitoride prendendolo fra i denti e stringendo appena come se fosse un mirtillo appena raccolto. Morsi piano le sue piccole labbra e seppellii il naso nella sua fica.
La rossa portò le mani sulla mia testa e inaspettatamente mi sospinse più veloce verso il suo piacere. Sorrisi tornando a leccare e mordere mentre lei mi conduceva verso il suo piacere.
Le sue mani viaggiavano tra i miei capelli, me li stringeva e me li strappava ogni volta che battevo la lingua sul suo clitoride. Poi la sentii trattenere il fiato uno due volte e deciso, presi fra le labbra il pistillo ormai gonfio e succhiai con forza picchiando sopra con la lingua.
Aprii la bocca e leccai per intero la sua fica bagnata fradicia ancora prima di sentirla tremare, chiudendo le cosce intorno a me per tenermi fermo.
Uno, due, e lei sussultò come non aveva mai fatto prima, un gemito più forte lasciò la sua gola e uscì fuori dalla parte più profonda di lei regalando un sorriso di soddisfazione che era ineguagliabile.
Finii ti ripulire i suoi umori leccando tutto e mi alzai piantando le ginocchia sul letto. Il cazzo mi faceva malissimo e il rigonfiamento era così visibile da non riuscire più a contenerlo.
Lei abbassò il bavaglio senza guardarmi, e vidi per l’ennesima volta una lacrima lasciare l’angolo delle ciglia e depositarsi sul cuscino.
«Vattene via!» esclamò sussurrando con la voce rotta chiudendo le cosce. Alzai un sopracciglio.
«Sicura che non vuoi un secondo round?» le dissi. «Sono piuttosto certo che sia stato la prima volta che un uomo ti mangiava la figa. Quindi te lo chiedo: sicura di non volere un secondo round bambina?»
Lilla deglutì, chiudendo gli occhi. Ma decise di non rispondermi.
Annuii assottigliando lo sguardo fiero di ciò che le avevo fatto.
“Perché a lei era piaciuto!”
“La prossima volta che vorrà uscire con Dean, vediamo se riuscirà a non pensare alla mia faccia seppellita nella sua bellissima fica fradicia”.
«Se avrai di nuovo voglia di essere mangiata. Sai dove trovarmi… nemica». Le dissi col tono sottile.
Mi alzai presi la felpa che avevo gettato a terra e sorridendo con il mento in alto mi diressi al balcone.
«E Shon?», bisbigliò raggiungendo le mie orecchie. Mi fermai di colpo vicino alle tende. Sapevo quanto ci teneva al suo migliore amico. Sapevo anche che Eliot stava iniziando ad avere un debole per lui per quanto riguardava al torturarlo.
«Shon mi deve un enigma, e so bene che te ne ha parlato non sono stupido. Quindi, finché non riuscirà a venirne a capo, non posso lasciarlo tranquillo.» risposi serio.
Lei si passò le mani sul volto e negò in evidente segno di disappunto. «Ti prego non fargli del male. Va bene se lo fai a me. Ma se attacchi lui per colpa mia allora…», le si spezzò la voce.
Aggrottai la fronte, vederla così sottomessa per quanto strano fosse non mi fece sentire affatto bene. Un groppo mi salì in gola e senza capirci più nulla, tornai indietro. Buttai la felpa a terra e mi sedetti ai piedi del letto poggiando la testa sul materasso.
Guardavo di fronte a me le tende che svolazzavano per via del venticello fuori in una specie di trance. «Farti del male non era quello che volevo e lo sai.» le dissi a fior di labbra. Sospirai, avevo un bisogno immenso di fumare una sigaretta.
Lei non rispose per un po’. «Non puoi stare in camera mia. Vattene via per favore.» sussurrò.
Sembrava stanca, la sua voce era flebile, come se gli dovesse costare una marea di energie pronunciare una sillaba. Deglutii allungando le gambe.
“Voglio stare qui, perché ti ho appena scopata con la bocca e perché così saprò che starai bene occhi Viola.”
«Quello che vuoi tu—», “non ha importanza”. Mi interrompi di netto. Non era la frase adatta da dire alla ragazza che avevo appena mangiato come se fosse il piatto più prelibato del menù.
«Quello che voglio io non ha nessuna importanza per te, ma si dà il caso che tu sia a casa mia. Il che ti impone in un dilemma morale. Non che tu abbia una morale sia chiaro, ma se ti chiedo di andartene, tu te ne vai.»
Ghignai, mi passai una mano fra i capelli e sorrisi ascoltandola. «Infatti, non ce l’ho. Quindi perché dovrei darti ascolto?»
La sentì fare un lungo respiro che si incrinò appena il letto si mosse. Volsi lo sguardo, e la vidi coprirsi fino in vita, era ancora nuda sotto e un sorriso di lussuria mi incurvò in su gli angoli delle labbra. I suoi mi trafissero per un attimo prima di parlare.
«Perché non c’è nessuno qui a cui dimostrare la tua cattiveria e la tua superiorità. Ci sono solo io, e io ti conosco bene.» sussurrò rivolgendomi uno sguardo fugace. Le sue parole fendettero l’aria come il coltello e sbattei le palpebre involontariamente perché mi aveva colto di sorpresa.
«Facciamo un patto?» le domandai voltando il collo per averla sott’occhio. Lei aggrottò la fronte.
«C-che tipo di p-patto?» balbettò perplessa. Si tirò su e si appoggiò alla testata del letto con le coperte ben strette fino al collo. Ghignai di nuovo.
Avevo già visto tutto di lei, non sarebbe stato necessario coprirsi, ma per il bene suo, non dissi nulla.
«Ti lascerò stare fino ai tuoi diciott’anni, niente più il gioco del gatto col topo, niente più Dalia Nera, niente più umiliazioni.» Le sue pupille viola si dilatarono increduli per un paio di volte, ma vidi benissimo lo scetticismo palesarsi nel suo bellissimo volto con le sopracciglia scure aggrottate e quel collo esile che continuava a deglutire sempre.
«E in cambio?», domandò restando sulla difensiva.
«Non avrai mai una relazione sentimentale con nessuno, e dico proprio nessuno! Il giorno del tuo diciottesimo ti scoperò come se fossi il tuo fottuto ossigeno fino a ridurti l’anima in brandelli.»
Le sue guance divennero all’improvviso rosse, di una tonalità cremisi che accentuarono le lentiggini che aveva sul naso a patatina.
«Tutto si riduce al sesso per te non è così? Per quanto mi riguarda, lo hai già fatto a casa tua ieri sera e a casa mia stasera. Quindi il tuo discorso non ha né testa né coda. Piuttosto dimmi che cosa vuoi davvero da me» strinse con forza le lenzuola al petto e mi guardò intensamente negli occhi.
Serrai la mascella mentre il cuore mi rimbombava nel petto. C’era una dannata risposta nella mia testa, c’era, era stata lì fin dal primo momento che l’avevo vista al Wolves.
«Voglio che tu…», deglutii perché era strano pure per me dirle ciò che mi frullata nel cervello precario. «Voglio che tu t’innamori di me per ciò che sono. E voglio che l’amore ti travolga in una maniera assoluta, voglio che ti consumi dall’interno, e che ti faccia vivere all'esterno. Voglio essere nei tuoi pensieri, nella tua testa, in ogni momento della tua vita. Voglio esserci soltanto io, così come sono, col pacchetto completo. Senza escludere nulla di me. Il fatto di essere cattivo, il fatto che non ho dei genitori, e che mi abbiano cresciuto come un cazzo di animale capobranco. Il fatto che ho dei demoni, delle paure e il fatto che tu mi stai fottendo il cervello come mai nessuna prima.» feci una risata amara abbassando la testa sulle mie ginocchia.
«Tu mi stai fottendo occhi viola, e questo mi fa incazzare sempre di più. Talmente tanto che vorrei sculacciarti senza freni, baciarti come se le tue labbra fossero ossigeno, e scoparti come se fossi la soluzione dei miei problemi».
Lilla spalancò la bocca incredula. I suoi occhi mi guardarono come se fossi un alieno che si è appena materializzato di fronte a lei. Le sue guance ancora rosee ora erano leggermente più rosse. Avevano assunto il colore del peperoncino, e i suoi occhi ingannatori mi guardarono confusi con una luce strana.
«Tu… Cosa?» esclamò incredula con le sopracciglia attaccate alla cute. «Beh non puoi ordinarmi una cosa del genere. Io ti detesto, non funziona così! Ma sai come funziona il mondo? Ti sei mai chiesto perché questo non accadrà mai?» era nervosissima, si passò le mani sul volto, gesto di esasperazione e sospiro chiudendo gli occhi per calmarsi.
«Ascoltami!» esclamò aggrappando i suoi occhi ai miei. «Non puoi impormi di innamorarmi di te, dopo tutto il male che mi hai fatto. Tu mi hai umiliata e non parliamo dei compagni di scuola che a malapena mi rivolgono la parola, quello è il minimo. Tu stasera stavi per stuprarmi in quel dannato ufficio Caleb. Come puoi pretendere che io possa amare uno come te? Eh?» stava quasi urlando, e se avesse continuato a inveire, sicuro come la morte che sua zia si sarebbe svegliata, infatti, volse il capo verso la porta chiusa e serrò le labbra.
«Io non so quali siano i tuoi problemi, o cosa ti sia successa da convincerti di imporre il tuo volere sugli altri. Ma io non ti amerò mai Caleb. Non lo farò mai e poi mai. E sai il perché.»
Sospirai incazzato, e mi passai le dita fra i capelli, mi alzai in piedi, poiché per me il discorso era chiuso. Lei aveva fatto la sua scelta. Ed era sempre quella sbagliata. Allora avrebbe subito. Punto.
«Questo è il patto. Prendere o lasciare». Risposi torvo.
«Ascolta me invece!», esclamò puntandomi un dito contro e si alzò dal letto. Era nuda cazzo e un ringhio mi uscì dalla parte più profonda di me. Cazzo quanto avrei voluto mangiarla ancora. Si mise addosso i pantaloncini e restò a debita distanza. Il suo copro era assolutamente perfetto. Tutto era al proprio posto e l’unica cosa che avevo in mente era: “Ti voglio. Proprio ora cazzo!”
«Non me ne frega un cazzo di fare un patto con te. Perché domani tu finirai in prigione!» esclamò arrabbiata. «Mia zia è decisa a denunciarti e di certo io non le dirò di no. E so forse che non ti faranno niente perché tu sei…», mi passò in rassegna dalla testa ai piedi con disprezzo. «ecco tu sei, tu cazzo e nessuno oserà mai a romperti le scatole, ma hai deciso di prendertela con la persona sbagliata lupo, e io ti distruggerò.»
Sentii il petto bruciare e stringersi, come se una mano invisibile mi avesse appena lasciato senza fiato. E una rabbia cieca mi inondo le vene. Una denuncia non avrebbe fatto bene, né a me né ai miei affari, soprattutto da quando avevo deciso di giocare la mia partita contro Trevor War.
Mi avvicinai ma per una volta non indietreggiò. «Allora l’unica soluzione che ti rimane è quello di scomparire da questa città. Non ti dirò cosa tu debba fare. Ma ti darò un avvertimento. Tu provaci soltanto ad andare dalla polizia e io ti distruggo la vita».
La rossa alzò il collo come a sottolineare il fatto che non mi temeva e senza pensarci due volte mi diede uno schiaffo che intercettati subito e le strinsi il polso a pochissimi centimetri dalla mia guancia.
«Non puoi distruggermi la vita stronzo. Hai appena detto che sono il tuo fottuto ossigeno.»
Alzai un sopracciglio ghignando: «Ne farò a meno.» le sussurrai.
«Non potrei mai sentire nulla per te. Come potrei, se ogni dannata volta mi minaci in continuazione.»
«Ti ho detto, niente più niente. Se accetti il patto. E Shon non soffrirà più. Ma tu vuoi denunciarmi, quindi per me ora non ha più importanza.»
Lilla restò zitta, le su spalle si affossarono appena e l’angoscia si palesò nei suoi occhi che si dilatarono, era confusa.
«Non usare questi sotterfugi con me Caleb. Ti conosco. Tu ti ecciti quando fai del male alle persone. Quindi so che anche se dovessi ingoiare il rospo e dirti che accetterei il patto. Chi me lo assicura che tu manterrai la parola? E perché dovrei fidarmi di te? Non mi hai mai dato prova della tua fiducia. E credimi, credimi, che venerdì, io avevo deciso di comprenderti, ma tu hai di nuovo voluto fare lo stronzo. Quindi dimmi Caleb, come posso fidarmi di te?»
Se c’era una cosa certa nella mia vita, era il fatto che prima o poi avrei commesso un omicidio, e la seconda cosa ancora più certa, che scoprii quando la sentivo parlare era il fatto che lei non si sarebbe mai fidata di me. E la cosa, per quanto assurda. Mi eccitava oltremodo.
«Non puoi. Quindi dormi serena stasera piccola occhi Viola, domani saprò la tua decisione.» feci un respiro profondo e senza dire nulla lasciai il suo braccio, e la sua camera.
Se mi avesse denunciato, avrebbe mandato a puttane tutto cazzo. Ma io avrei reso una puttana lei.
🌺 SPAZIO AUTRICE 🌺
Questo capitolo si conclude nei migliori dei modi, perché mi da spazio per altri capitoli di fuoco e furia che verranno al seguito. Vorrei comunicare a tutti voi che siete arrivati fin qui, che avete appena superato la pagina 210 di questa storia che mi sembra infinita.
Le cose tra Caleb e Lilla, non stanno cambiando per nulla. E me ne rendo conto. Ma, purtroppo la storia ha uno svolgimento tutto suo, e io ci posso fare davvero poco. Spero solo di vedervi sempre accanto a me in questo viaggio.
Sappiate che vi amo e vi stimo.
Per qualsiasi domanda mi trovate su IG: Kappa_07_author
Vostra, Kappa_07 💜
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