★ │Epilogo: Farfalle
Hitoshi Shinso si svegliò con il mal di testa. Tanto per cambiare.
Non aveva dormito per niente e le evidenti occhiaie sotto alle iridi scure che dallo specchio gli restituivano uno sguardo rassegnato erano sufficienti a ricordare che andava avanti da mesi, anni in realtà. Era passato dalla melatonina ai farmaci più pesanti, benzodiazepine e altri ansiolitici, fino alla terapia di recente, ma ancora si ritrovava a rigirarsi nel letto per tutta la notte e avere la voglia di vivere di uno straccio di giorno.
Sospirò passandosi una mano tra i capelli viola che si stavano decolorando, tornando neri come i suoi occhi e come il suo umore, e che sembravano avere la stessa intenzione della sua faccia di non avere un aspetto decente nemmeno per l'ultimo giorno di scuola.
Ingollò le pastiglie, si fece un caffè veloce a costo di arrivare in ritardo ed uscì.
Alla fine lo perse, l'autobus. Quello stronzo dell'autista fece palesemente finta di non vederlo mentre correva alla fermata sotto casa con un braccio alzato. Correre per dire, assomigliava più a una balena spastica che si trascinava agonizzante sulla sabbia. Ipotizzò di meritarselo, una sorta di vendetta dopo cinque anni di sopportazione dei suoi ritardi cronici che aveva scelto di consumare proprio l'ultimo giorno. O forse era semplicemente che la sfiga era talmente una compagna fedele ormai che si era inglobata a fare parte del suo stesso essere.
«Ehi, tu».
Una macchina accostò al marciapiede da dove il ragazzo, fiatone e maledizioni mentali annesse, guardava il pullman che scompariva. Allo stesso identico modo di ogni speranza nella sua vita, tipo Achille e la tartaruga.
«Dico a te».
L'uomo alla guida si sporse leggermente verso il finestrino abbassato del lato del passeggero. La ragazzina lì seduta lo guardava incuriosita, con la testa inclinata e in silenzio, come se stesse studiando una forma di vita aliena.
«Ti serve un passaggio, no? Sali, o arriveremo in ritardo».
Una piccola mano si allungò per schioccare le dita davanti agli occhi di uno spiazzato e immobile Hitoshi. Scosse impercettibilmente la testa come per scrollarsi lo shock di dosso e si limitò a un ringraziamento mormorato prima di salire.
Sprofondò nei sedili posteriori, constatando con sollievo che la macchina dell'insegnante aveva l'aria condizionata perché l'afa di quell'otto giugno era talmente insopportabile che gli scioglieva i pochi neuroni non ancora esauriti rimasti.
Già, a primo impatto quello sembrava un maledetto adescatore o qualcosa del genere, se non fosse che lo conosceva, avendolo incrociato per i corridoi a scuola e per il proprio condominio. Shota Aizawa, professore di liceo, Grinch dello U.A. e suo dirimpettaio gattaro, occasionalmente volontario presso la casa-famiglia a pochi isolati dal loro palazzo e, a quanto pareva, anche per gli studenti che rimanevano senza passaggio. E per quanto quella situazione fosse abbastanza assurda, lui non era che avesse grandi alternative.
Ecco, rifletté, la ragazzina dai capelli platino-celesti e gli intensi occhi castani doveva venire da quella struttura. Li aveva già visti insieme diverse volte, anche se la somiglianza era poca quindi escludeva che fosse una parente, una figlia o simili. A meno che avesse ereditato tutto dalla madre, ma quell'uomo non era tipo da relazione. Più semplicemente doveva averla presa in simpatia, come testimoniavano gli sguardi che le lanciava di tanto in tanto, un poco meno stanchi e ripugnanti della vita, o il permesso che le accordò di frugare nel cruscotto alla ricerca di qualche cd che le piaceva e che si sarebbe rivelato prepotentemente rock.
Prima che potesse porre domande, fu accolto un ultimo passeggero sul taxi Aizawa: un teppistello dal viso imbronciato in parte nascosto dalla visiera del cappello rosso, stesso colore delle scarpe consumate. Borbottò un saluto di malavoglia, eccetto verso la coetanea cui ne dedicò uno quasi più timido, e affondò nel sedile accanto al ragazzo dai capelli viola. Eri, così chiamò la ragazzina.
«E tu chi cavolo sei?» rigirò poi a Hitoshi la stessa domanda che quest'ultimo si stava ponendo nei suoi riguardi.
«Kota, lui è Hitoshi. Frequenta la scuola che vi sto portando a vedere. Sii educato» prese la parola il professore. Attraverso lo specchietto retrovisore, scrutò ammonitore il ragazzino, che reagì in modo maturo scimmiottandolo. Un sospiro e continuò: «Hitoshi, loro sono Kota ed Eri. Tra qualche anno verranno a studiare allo U.A. Approfitto del casino dell'ultimo giorno per farli infiltrare e dare un'occhiata in giro».
«Oh, ok, ha senso» fece solo. Era più impegnato a pensare che il docente aveva fama di essere un bacchettone di prima categoria, eppure faceva quel genere di eccezioni e in generale sembrava così alla mano e sciolto in quel momento.
«Certo che hai una gran voglia di vivere pure tu».
Hitoshi inarcò un sopracciglio e squadrò quel Kota. «Mmh?»
«Sembrate parenti voi due, giuro» sostenne convinto, alternando un indice tra lui e il professore alla guida. «Vecchio, sicuro che non è il tuo figlio perduto?»
«Kota» l'ennesimo richiamo e respiro profondo. «Ti ho già detto di non rivolgerti così agli altri. E ho solo una ventina d'anni in più di voi, non sono così vecchio».
«È proprio una cosa che direbbe un vecchio».
«Magari essere suoi figli!» se ne uscì quella che si chiamava Eri. Si rivolse ad Aizawa. «Non hai mai pensato di averne, signore? Per me saresti un bravissimo papà!»
Hitoshi da tanto non associava il termine purezza a qualcosa. Era puro il modo in cui la ragazzina espresse quell'ingenuo quanto dolce pensiero e fu pura la reazione di Aizawa che, rimasto senza parole, tenne solo fisso lo sguardo sulla strada davanti a sé. Ma non stava altro che evitando di guardarla per non scoppiare a piangere, perché una semplice frase aveva smosso con forza e all'improvviso qualcosa dentro di lui.
Un clacson li fece sobbalzare. Il semaforo che li aveva bloccati durante il fatidico commento era tornato verde e stavano bloccando il traffico.
Aizawa pigiò sull'acceleratore mentre tirava su col naso e, alla preoccupazione di lei che si mise subito a cercare dei fazzoletti, si giustificò dando la colpa alla maledetta allergia. Kota osservò cinico che era passato il periodo dei pollini, trattenendo sotto sotto un sorriso e il ragazzo dai capelli viola si ritrovò a fare lo stesso. Già, Aizawa Shota non era per niente un Grinch.
Rimaneva il fatto che non capiva cosa c'entrasse lui in tutto questo, ma ottenne ogni risposta quando, dopo il viaggio a suon di Metallica rimbombanti nelle casse, giunsero nel parcheggio della scuola.
Il professore fece incamminare i ragazzi per primi e prese Hitoshi in disparte. Gli spiegò velocemente la situazione: quei due erano rimasti orfani e senza figure parentali decenti nelle loro brevi eppur già difficili vite; li aveva incontrati durante il volontariato alla casa-famiglia dove vivevano per il momento e presi sotto la sua ala protettrice, in effetti un po' come dei figli.
«Mi scuso per averti tirato in mezzo» concluse. Recuperò la borsa dal bagagliaio e lo richiuse accompagnandolo pigramente con il braccio libero.
«Si figuri» il più giovane si strinse nelle spalle. Aveva smesso di stupirsi delle cose impensabili che gli capitavano, abbandonandosi agli eventi. «E poi ci ho guadagnato un passaggio gratis».
«Dammi del tu. Ci vediamo tutti i giorni, dopotutto, e tra poco finirà anche questa stupida formalità di studente e professore».
Si spostò al suo fianco, o meglio cercò di stare al suo lento passo, per raggiungere i ragazzi già febbricitanti davanti all'imponente ingresso dell'istituto.
Si perse a osservare la facciata a cui era passato davanti tante volte da conoscerla a memoria. Adesso gli sembrava di rivederla come la prima volta e di sentirsi quasi scrutato a sua volta.
Aveva visto quella scuola cambiare nel tempo e, viceversa, quella scuola lo aveva visto crescere.
Da quando allo scientifico lottava per la sufficienza in quelle materie che iniziò ad odiare con tutto il suo arido cuore a quando trovò il coraggio di trasferirsi allo scienze umane seguendo la sua vera vocazione, tra peripezie per ottenere il nulla osta per il passaggio e tutto quanto, la disapprovazione dei genitori, la curiosità invadente delle persone.
Da quando era il primino introverso e solitario ad adesso che, beh, introverso lo era ancora però erano anche successe cose belle. Si era fatto degli amici, persino nelle altre classi, lui che se ne stava sempre nella sua bolla. Aveva mantenuto l'amicizia con quella svitata di Mei Hatsume, un tempo compagna di indirizzo, e ne aveva strette di strane come Neito Monoma e Fumikage Tokoyami del classico. Evidentemente attirava lui tutti i casi problematici, ma come gli disse una volta Fumikage era contento di aver trovato degli "oscuri spiriti affini".
Da quando, poi, c'era stato Denki a irrompere nella sua esistenza come un fulmine a ciel sereno, o più un cielo nuvoloso e tenebroso, ed aveva smesso di farsi sballottare di qua e di là in balia del nubifragio del suo pessimismo per inseguire quel che voleva, ciò che sentiva davvero.
Perché Denki era... Non era semplicemente una cotta, la sua prima cotta, no. Era, e sarebbe sempre stato, molto di più. Gli piaceva paragonarlo a uno spillo, di quelli che si usano per far scoppiare i palloncini. Denki era un fastidioso, petulante spillo eppure bellissimo nei suoi colori caldi e brillanti, che di colpo si era piazzato davanti a lui che volava solitario. Aveva iniziato a punzecchiarlo e in breve aveva rotto quella sua bolla, facendogli prendere la prima vera boccata d'aria fresca e luminosa della sua vita.
E così Hitoshi Shinso che, tra le altre cose, schifava l'umanità, per la prima volta aveva provato la bellezza di essere umano insieme a qualcun altro. La complicità di sguardi che dicevano tutto, il permesso di lasciarsi andare e il conforto di sfiorare una pelle diversa dalla sua, di sentire il calore di un corpo contro il proprio, di fondersi creando una nuova bolla dentro la quale stavolta non era più solo.
«Anche tu ne hai passate tante qui, eh?» la voce improvvisamente nostalgica del professore lo riportò alla realtà. Gli rivolse l'ombra di una smorfia che doveva essere un sorriso, prima di cambiare argomento. «Ricordi quel favore che mi hai fatto a Berlino?»
A Hitoshi il sorriso scappò eccome. Aizawa incazzato come una biscia e una buona parte della sua classe, collega Hizashi incluso, completamente ubriaca da riportare in stanza in hotel... Doveva ammettere che era stato divertente. «Ricordo bene».
L'insegnante sembrò rabbrividire, nonostante il caldo. «Ecco, tralasciando quel disastro... Mi chiedevo se mi potessi dare un altro aiuto. Sei un ragazzo con la testa sulle spalle, di cui potersi fidare e ad Eri stai simpatico, capisco quando è così. Quindi, ti dispiacerebbe guidare quei due dentro per un po'? Devo solo andare un attimo a corrompere il preside per poter farli rimanere, poi ci penserò io a loro».
«Oh, ok» fece spallucce «Tanto non ho nulla da fare».
Letteralmente. Uno dei vantaggi di essere rappresentante di classe e di far parte del club di giornalismo era che quel giorno, tra riunioni e report in giro per la scuola che teoricamente avrebbe dovuto fare, gli erano state abbonate le lezioni.
L'ultimo giorno lo metteva sempre a disagio. Era il vuoto più assoluto, con i docenti che lasciavano spazio ai festeggiamenti o comunque ad attività libere, anche solo parlare, ma lui non aveva legato particolarmente con nessuno e odiava perdere tempo così. Perciò, proporsi per quei ruoli a inizio anno aveva dato i suoi frutti. Poteva passare un po' più in serenità quello che, tolto il pizzico di nostalgia di prima, era l'ultimo sacrificio che non vedeva l'ora di scontare. Finalmente era davvero l'ultimo giorno in assoluto in quella scuola, poi addio e fine.
Anche se non ci sapeva fare con i mocciosi, spendere la giornata in quel modo era la prospettiva più rosea al momento. Si apprestò a recuperarli, mentre Aizawa lo ringraziava prima di scappare in presidenza. Anche quello fu l'inizio di un rapporto più stretto e quasi tra padre e figlio, tra un docente trentenne depresso e già stanco della vita e un ragazzo che era altrettanto, tra i due vicini di casa e animi non poi diversi, tra Hitoshi e, come si premurò di essere chiamato, Shota.
Alla fine, nell'oretta seguente, badare ad Eri e Kota non si rivelò così orribile. L'una con più e l'altro con meno entusiasmo, lo seguirono per il labirinto di corridoi e aule più importanti da vedere, giocando a non farsi beccare dai bidelli o da altro personale: la stanza di musica, i laboratori spiati di sfuggita passandoci davanti, e infine la preferita di Hitoshi, la biblioteca.
Poco prima che scattasse l'intervallo e si scatenasse il solito inferno, se li trascinò dietro al bar. Prese loro delle focacce farcite, la specialità che andava a ruba durante le pause, e si rifugiarono appena fuori, sulle scale per l'uscita d'emergenza isolate che erano la sua costante e il suo posto felice, se poteva dire di averne uno lì. Del resto, il cortile e il parcheggio venivano affollati dai primini, dai casinisti e dai fumatori che si illudevano di non venire beccati dietro a qualche macchina. Il tetto era off-limits, secondo una legge non scritta che, se prima era il rifugio degli sfigati e solitari come lui, adesso che era avvenuta la rivoluzione della BakuSquad, che si era messa in testa di volerci stare, lo riservava alle classi quinte e ai più popolari. Infine di rimanere dentro a soffocare al maledetto caldo non se ne parlava.
Forse era anche che Hitoshi avrebbe dovuto rassegnarsi a indossare qualcosa di diverso dalle sue lunghe maglie scure con il logo di qualche band, jeans cargo in cui affondava sempre le mani, polsini e bracciali neri, e così magari non avrebbe sofferto tutta quell'afa, ma dettagli.
Buttò uno sguardo all'orario sul telefono. Le questioni erano due. Aizawa, cioè Shota, o era caduto in un buco nero o gli aveva mollato i mocciosi con l'inganno. Ma mentre Eri spalancava gli occhioni e lo ringraziava per la focaccia con le guance piene e Kota affermava che non faceva così schifo per poi strafogarsi non proprio di nascosto, pensò che non era così terribile la loro compagnia. Poco a poco cominciarono anche ad essere più loquaci e parlottare con lui del più e del meno. Grazie al cibo aveva conquistato la loro fiducia.
Dopo la pausa li portò all'ultima tappa, la parte più estesa del cortile sul retro della scuola. Non aveva calcolato, però, il gran fervore che ci sarebbe stato tra preparativi per lo spettacolo finale di musica e foto di classe che alcuni gruppi dovevano ancora fare. Per sua fortuna, Hitoshi l'aveva fatta la settimana precedente, venendo simile a uno spettro come al solito e quello era bastato.
Come se li avesse evocati con i suoi pensieri, incrociarono Denki e i suoi compagni che uscivano per la foto. Dovevano essersi accordati per farla a tema gangster o qualcosa così, a giudicare dai vestiti eleganti e le espressioni da duri in cui i più idioti, ossia chiaramente il biondino e i suoi amici, si stavano esercitando. Non per niente erano noti in tutto l'istituto per essere una classe... particolare.
«'Toshi!» Denki captò subito la sua presenza e si precipitò da lui, sprizzando la solita gioia da tutti i pori. Più luminoso del maledetto sole, e in questo caso non lo odiò. «Non ti ho visto stamattina, dov'eri? Stai bene? Sei un po' pallido...» allungò una mano sulla sua fronte e subito la ritrasse «Ahi, scotti! Sicuro di non avere la febbre? È colpa dei vestiti neri, te lo dico sempre!»
Hitoshi si portò le dita alle tempie, trattenendo però un sorriso. Parlava troppo, come sempre. «Denki, sto bene. È solo il caldo...»
Non lo disse, ma forse il calore improvviso era anche dovuto a vederlo in quel completo. La camicia bianca sbottonata, la cintura che gli circondava la vita stretta, quei pantaloni che gli fasciavano alla perfezione le gambe e quel culetto che...
«E questi due cuccioli smarriti chi sono?»
Scosse la testa. Era da un po' che non c'era più nulla di fisico tra loro e non doveva esserci, avevano deciso così. Denki era preso da Kyoka ben al di là di un rapporto carnale come era stato il loro, stavano pure insieme ufficialmente adesso e lui non era nessuno per intromettersi in una relazione che in fondo esisteva da anni. In più, certo, il sesso con Denki era fantastico, ma non lo rimpiangeva se significava vederlo felice. Ci teneva di più a stare al suo posto e rimanere amici, anche perché lentamente la cotta si era trasformata più in affetto verso la persona che aveva rischiarato la sua bolla buia e gli aveva insegnato un po' a vivere.
Il biondino si era piegato sulle ginocchia, mani su di esse e voce stupida come quella che si usa con gli animali, rivolto allegro ai mocciosi che Hitoshi aveva incoraggiato con una spintarella sulla schiena a spostarsi da dietro di lui e farsi avanti, che Denki non era in grado di mangiare nessuno, non ancora.
«Ciao piccoli! Io mi chiamo Denki, voi? Cosa ci fate qui? Tesoro, lo sai che quel vestitino ti sta benissimo?» Si fermò un solo secondo per annuire radioso ad Eri che si indicò insicura con un dito «Sì sì! E adoro i tuoi capelli! E tu-»
«Guarda che andiamo alle medie, siamo grandi. Chiamami ancora cucciolo o piccolo e ti do un calcio dove non batte il sole».
Gli occhi color ambra si spalancarono e cercarono quelli increduli del ragazzo dai capelli viola, che con una mano schiaffata in fronte borbottò qualcosa come di non far caso a Kota.
Denki scoppiò in una delle sue fragorose risate che attirò l'attenzione di mezzo cortile su di loro. Si voltò indietro, sbracciandosi verso gli amici. «Ragazzi, venite! Non ci crederete mai... 'Toshi ci ha portato un mini Bakubro!»
Eri tirò timidamente Hitoshi per la maglietta, spingendolo ad abbassarsi per sentire la sua esile vocina. «Cos'è un Bakubro?»
«Ah, fidati, non vuoi saperlo».
Tuttavia, era troppo tardi.
«Hah?! Cazzo c'entro io, Faccia da Scemo?»
«Kat, linguaggio! Non vedi che ci sono dei bambini?»
«Non me ne può fregare un'emerita minchi-»
«Kat!»
Katsuki ed Eijiro che bisticciavano si sentivano già a metri di distanza, accompagnati da Hanta che se la rideva.
In breve, gli amici di Denki e non solo, anche tutta la classe, furono attirati lì, a indagare curiosi su Kota che restituiva sguardi di sfida ed Eri che tornava a rifugiarsi dietro il corpo slanciato di Hitoshi.
Quest'ultimo spiegò brevemente la situazione e i ragazzi gli dissero che anche loro stavano aspettando il professor Aizawa, sapevano che sarebbe dovuto arrivare a breve.
Ad un certo punto, Eri si staccò dal suo scudo umano per avvicinarsi a Izuku.
Midoriya Izuku... Hitoshi ci aveva avuto a che fare durante i giochi sportivi in seconda superiore ed era finita che l'aveva trascinato in una chiacchierata e incoraggiato per il suo percorso scolastico. A volte si salutavano ancora per i corridoi. Perciò non si stupì quando riservò un sorriso accogliente alla ragazzina e le chiese se poteva aiutarla in qualcosa.
«Uhm, ecco... Sei tu, vero?»
Il ragazzo dai capelli verdi inclinò la testa e lei smise di giocherellare con l'orlo del vestito per continuare con più convinzione. «Sei tu quello che mi ha salvata! Qualche settimana fa mi sono persa al centro commerciale e tu e lui» puntò il ditino verso Katsuki «Mi avete aiutata a ritrovare il signor Shota in quel posto gigantesco!»
«Oh, sei quella bambina!» il volto lentigginoso di Izuku si illuminò «Infatti mi sembravi familiare! Mi ricordo!»
«Sì! Meno male che c'eravate voi, non so come ringraziarvi!»
«Sentito, Kacchan?» Gli occhi verdi cercarono quelli del biondo e sorrisero alla sua smorfia meno scocciata, più morbida del solito. Tornò a rivolgersi ad Eri: «Di niente, l'abbiamo fatto con piacere! L'importante è che si è risolto tutto per il meglio».
Lei annuì ancora energicamente. «Grazie davvero, non lo dimenticherò mai... Mi avete anche offerto il gelato dopo. Era buonissimo...» Sì rabbuiò un attimo. «Però mi dispiace tanto. Ho rovinato il vostro appuntamento».
«Il... Cosa?»
«Hah?»
«Non era un appuntamento?» I grandi occhi castani si spostarono dall'uno, che aveva sbuffato una risatina nervosa, all'altro preso in causa che sbottò così spaventandola. Riprese a torturare l'estremità del povero vestito. «Io pensavo che... Insomma, stavate mangiando un gelato...»
«Oh... Ecco, ehm, piccola...» Izuku si massaggiò la nuca impacciato «Piccola Eri, giusto? Anche gli amici prendono il gelato insieme, sai? Intendo, non deve essere per forza un... un a... quello-»
«Ma era un gelato solo. In due».
Qualche secondo di surreale silenzio e poi il putiferio: Izuku, sconfitto dall'innocenza di una bambina, si coprì il viso in fiamme tra le braccia incrociate, mentre Denki e Mina, a Hitoshi pareva che si chiamasse così quell'esuberante che gli ricordava Mei, procedevano ad emettere ultrasuoni; da parte sua, Katsuki fu subito vittima dei cori inteneriti dei suoi amici su quanto sapeva essere romantico sotto sotto, ai quali brontolò di smetterla, idioti, non era vero e altro di insensato mentre arrossiva tutto.
Già, stare con Eri non era così terribile, anzi era proprio divertente.
Meno si poteva dire di Kota, che interruppe quel casino. «Avete finito?» protestò «Che schifo, queste cose sdolcinate mi fanno vomitare».
Katsuki gli rivolse quasi uno sguardo di gratitudine.
«È proprio un mini Bakugo». L'osservazione piatta di Shoto, nel frattempo, trovò i cenni saggi di assenso da parte di tutti.
«Ehi, Deku, quelle non sono le tue scarpe?» Ochako distolse, in parte, l'attenzione dai due piccioncini. Hitoshi non ne sapeva granché, ma a quanto pareva volevano tenere segreto che stavano insieme sebbene fosse assurdamente evidente, o comunque ci tenevano a non urlarlo al mondo e fare con calma.
«Ma dai...!» Izuku si accovacciò ai piedi di Kota, che in tutta risposta scattò indietro rifilandogli quasi un calcio. «Ehi, ehi, tranquillo» si affrettò a rassicurarlo, mortificato per averlo spaventato. Si allontanò e portò avanti, cautamente, solo una sua scarpa. «Guarda...» Erano proprio identiche, rosse e alte con le stringhe nere e qualche dettaglio bianco, dello stesso modello, solo di misure diverse. «Io è da quando sono piccolo che le prendo così, ma è sempre più raro questo modello. Che coincidenza, vero?»
«Sì...» Kota si fece più calmo. Concentrò il viso corrucciato sui loro piedi. «A me piace il colore...»
«Pure a me! Il rosso è proprio bello, eh? Poi sono comodissime, sono adatte per qualsiasi cosa dall'andare a scuola a camminare in montagna, e non si consumano velocemente e...»
«Eccolo che straparla di nuovo» commentò Ochako e anche Shoto accanto a lei divertito, per i suoi standard, sollevò un angolo della bocca.
Eri si intromise per una legittima domanda: «Ma perché le prendi sempre uguali? Non ti piace cambiare?»
Izuku distolse lo sguardo ed esibì un sorriso altrettanto dolce mentre lo faceva viaggiare più in là, alla automatica ricerca di una chioma bionda e di occhi caramello nella massa di compagni che si erano già spostati richiamati dal fotografo. «Come dire... Cambiare è una buonissima cosa, ma a volte non puoi fuggire da qualcosa che è sempre stato parte di te... E forse è bello anche quando cambia tutto ma non cambia niente...»
«Non ho capito».
«Bleah».
Hitoshi trattenne una risata. Eri era ancora ingenua, Kota fin troppo sveglio e disilluso già alla sua età.
Il ragazzo con le lentiggini tornò a loro. «Niente, niente! È solo che questo tipo di scarpe me le ha regalate da piccolo una persona a cui ancora adesso voglio tanto bene... Ecco perché non riesco a separarmene» ammise in un altro sincero sorriso. «Auguro di trovare la vostra persona speciale anche a voi! E-»
«Deku! Muoviti, manchi solo tu!»
Gli altri si erano spostati nel luogo per la foto a pochi metri da lì, con tanto di fondo scuro dato dalle mura dell'edificio scolastico, tavolini e sedie per simulare la location.
«Cavolo, devo proprio andare! Ci vediamo ancora, magari dopo al concerto? A presto, anche a te Hitoshi!» Izuku esclamò di nuovo così e improvvisò una corsetta per raggiungere gli amici.
Li guardarono da lontano. Videro Aizawa raggiungere il fotografo e scusarsi per il ritardo, poi ripetere per l'ennesima volta a Mina che no, non avrebbe posato con loro e i complimenti non le avrebbero alzato la media. Tenya lì accanto gesticolava per indicare le posizioni e dirigeva tutto in modo impeccabile. Le ragazze stavano rassicurando Ochako che quei vestiti non la gonfiavano anzi le stavano benissimo e lei era bellissima. Il ragazzo dai capelli verdi sistemava la cravatta a un imbarazzato Katsuki e Denki, Hanta ed Eijiro ripassavano le loro mosse idiote...
«Sono proprio una classe strana, eh?»
«Dio-» Hitoshi fu a un soffio dal bestemmiare. Non sapeva come, si trattenne davanti ai mocciosi. «Senti chi parla, Mei».
L'amica dai dreadlocks rosa e dalla cattiva abitudine di spuntare a caso si alzò in punta di piedi per dargli un affettuoso coppino, prima di decidersi a spiegare cosa ci faceva lì. Era venuta a raccattarlo per il ritrovo con gli altri rappresentanti e già che c'era ammirare "quel bonazzo del suo ragazzo" in smoking.
Così, Hitoshi aspettò che la classe di Aizawa finisse gli scatti per riconsegnargli Kota ed Eri e non ebbe nemmeno il tempo di salutare per bene che Mei lo stava già trascinando via, blaterando direttamente nelle sue povere orecchie che doveva lasciare modo agli artisti di svestirsi, prepararsi, accordare gli strumenti e tutto quanto e agli altri di recarsi all'auditorium per lo spettacolo, mentre loro capiclasse dovevano sistemare il discorso che avrebbero enunciato in apertura.
Infatti, anche se ancora non avevano preso il diploma, avevano buttato giù due parole di fine anno per la gioia del prof Hizashi e la sua ossessione con le robe inglesi. E Hitoshi Shinso avrebbe potuto finalmente dire qualcosa di decente su quell'anno che incontri inaspettati avevano reso un po' meno tremendo di altri.
Mei Hatsume adorava gli ultimi giorni. In generale per lei ogni scusa buona per festeggiare, c'era sempre un gran fermento, tante cose da fare, tante persone con cui condividere momenti ed emozioni. Ma gli ultimi giorni li amava proprio. Per definizione capitavano una sola volta nella vita e segnavano l'inizio di un nuovo capitolo, con tutte le sorprese belle e brutte che avrebbe portato e che era sempre pronta ad accogliere con entusiasmo, anche fin troppo come le facevano spesso presente.
Perciò non stava più nella pelle. Non riusciva proprio a stare ferma sulla sedia che si era accaparrata al centro dell'immenso auditorium dello U.A., che eppure sembrava minuscolo così affollato di persone, dagli studenti ai professori, dai genitori ai vecchi alunni.
«Oddio! Sono i Big Three quelli?!»
«Mei...» Tenya la richiamò rassegnato per la volta di cui aveva perso il conto, mentre veniva afferrato e scosso per la camicia dalla sua ragazza che continuava a saltellare sul posto. Si beccarono varie occhiatacce da quelli seduti sulla stessa fila, vittime di quel terremoto. Terremoto tutti i sensi.
«Ti ho già detto che potresti muoverti di meno, sì? Hai tutto il tempo dopo per stalkerare la gente e sfogare la tua euforia, adesso, ti prego, cerca solo di stare ferma prima che ci caccino!»
«Quanto sei melodrammatico! E va bene, sto calma, scusa, scusa».
«Perché non ci credo neanche un po'?»
«Tenya! Piccolo, dovresti sostenermi! Non credi in me?»
Il ragazzo dai capelli scuri con i riflessi blu fece per replicare, ma richiuse la bocca per riformulare. Si era rassegnato anche a quel nomignolo. «Certo che credo in te. Il tuo discorso era ben costruito e toccante e sei stata fantastica su quel palco, prima. Tuttavia adesso-»
«Aww, Tenya!» Lo fece ammutolire rubandogli un bacio, veloce sulla guancia perché non amava le effusioni in pubblico, e scompigliandogli giocosamente i capelli. «Non dicevo sul serio, ma sei un pasticcino!»
«Lo so» fece aggiustandosi gli occhiali «Intendo, che non eri seria. Volevo solo approfittare per dirlo».
Tenya era strano, su questo non ci pioveva. Sempre così serio, rigido, intoccabile. Eppure erano le uscite come quella o le piccole attenzioni che le riservava, come il premurarsi di fare cambio di posto per stare più vicino alla finestra per il caldo o il permetterle di appoggiarsi alla sua spalla di tanto in tanto, a intenerirla. La cosa di quel giorno che rendeva Mei più felice, in realtà, era questo.
«Ehm, prova?» Una voce e qualche fischio risuonarono dal microfono. Kyoka della 5ªA del classico, al centro del palco, stava introducendo la sua band che avrebbe concluso la giornata e che per l'ultima volta si sarebbe esibita lì. «Siete pronti, U.A.? Partiamo!»
Impossibile non riconoscere subito le prime due canzoni che si susseguirono l'una all'altra, "Stray Heart" e "Mad Word", secondo il loro schema di aprire con cover di classici orecchiabili per poi arrivare al più bello. Però stavolta nessuno poteva prevedere quanto li avrebbero sorpresi, quanto bello e magico sarebbe stato.
La cantante riprese la parola, con la voce timida nonostante la forza di cui era capace durante il canto ma sicura di sé. «La prossima canzone l'ho scritta dopo un periodo difficile e da cui sto appena uscendo grazie a delle persone importanti. È un ringraziamento a chi mi ha ricordato che valgo e vuole essere un promemoria per tutti. Anche voi siete importanti, ognuno lo è. Perciò combattete le vostre battaglie, ma permettetevi anche di non farlo da soli. Accettare aiuto non significa che siete deboli, solo che c'è qualcuno che tiene a voi. Lasciate che anche questo qualcun altro possa aiutarvi, che possa essere... il vostro eroe. Bene, allora... Questa è "Might+U"».
Nel silenzio calato in sala, più unico che raro e carico di curiosità, Kyoka si scambiò un cenno con Momo.
«You're not alone
There's no doubt
Your gift
Isn't futile to be
If we'll be united
We're stronger together
We always have the high hope
Not all for one but one for all»
In pochi secondi la sola base appena sussurrata al piano si diffuse per l'auditorium, accompagnando quella voce di solito adattata a canzoni energiche e che adesso era comunque perfetta, così delicata e leggera, angelica.
«Don't worry 'bout a thing
We'll reach out to you
Even if it's a harder way
It's plain to see the reason why
Oh, that's all because of the mighty heart
Remember it's just natural that we'll be there if you need help
Far across the distance, rest assured that our faith just won't die»
Il brano andò avanti su quelle strofe e alcuni effetti aggiunti alla tastiera. Fu semplice e insieme così potente da ipnotizzare tutti. In quell'atmosfera sospesa, ci volle qualche secondo per realizzare che la canzone era finita e scoppiare in un applauso generale.
Da qualche parte imboscato agli angoli della sala, Aizawa Shota si asciugò di sfuggita una lacrima. Dannazione, non solo il Natale, ora anche l'agognato otto giugno, che attendeva tanto e adesso quasi non voleva fosse arrivato per la classe a cui segretamente si era più affezionato, lo rendeva rammollito. O forse era solo davvero orgoglioso dei suoi ragazzi.
«Su su con gli animi, non abbiamo finito!» Kaminari urlò al microfono «Concludiamo con il botto! Non potevamo che farlo con loro... Forza U.A.! Facciamo casino!»
«Non ci credo, Yamada» mormorò al collega. Quello aveva insistito per stargli accanto e, sebbene gli avesse borbottato contro che non gli importava, facesse quel che voleva, in realtà era grato di averlo vicino in quel momento. «Gliel'hai permesso...»
L'amico ridacchiò al suo sconvolgimento per le note di "Welcome to the Black Parade" dei My Chemical Romance. «Well, non è la musica più adatta a un concerto scolastico ma Tokoyami la adora e in generale è l'ultimo saggio. Ho voluto lasciar scegliere a loro, you know, che facessero col cuore».
«Sì, sì, le tue stronzate» lo liquidò con un gesto della mano. Eppure, guardando come i suoi alunni sul palco si divertivano e tutti venivano trascinati da quel "We'll carry on, we'll carry on", pensò che non potessero trasmettere messaggio migliore che li rappresentasse, più giusto. Gli mise anche un'improvvisa nostalgia.
«E poi, questa canzone mi ricorda Oboro».
Al commento commosso dell'amico, che al solito gli aveva letto nella mente, si abbandonò a un sorriso. «Sì. Gli sarebbe piaciuta».
Rimasero fino alla fine del concerto e anche dopo che l'auditorium si svuotò quasi totalmente, ad eccezione di come Shota era solito. Solo adesso realizzava che quella sarebbe stata l'ultima volta. Non ce ne sarebbe stato un altro, non con i suoi pulcini cresciuti della 5ªA.
Nell'uscire per recuperare Kota ed Eri, tornati al bar con Hitoshi per altre focacce, ne incrociò alcuni, quei piantagrane di Kaminari e Ashido che esclamarono di non vedere l'ora che arrivasse quella sera. Esatto, si era lasciato convincere ad un'altra pessima idea: un'uscita con loro professori e la classe. Non una banale pizzata, perché loro essere normali non se ne parlava, ma al luna park. Insomma, per essere alternativi e perdere definitivamente la dignità prima ancora del grande scoglio finale della maturità. Ma a quanto pareva non potevano aspettare a festeggiare e beh, Shota doveva ammetterlo, voleva vederli un po' spensierati dopo tutto ciò che avevano affrontato.
Dopo fu il turno di Yamada di salutare Mei, la studentessa di cui era praticamente amico. Si tenne in disparte mentre quelli parlarono un po', rimuginando ancora sul pensiero di poco prima.
«... E quindi ieri ho fatto l'esame della patente!»
«Ah sì? Com'è andata?»
«Benissimo! L'ho presa!»
«Chi? La signora sulle strisce pedonali?»
«Prof! La patente!»
«Che bello. Così avremo un altro pericolo pubblico... Oh my, crescono così in fretta».
Captò questo e poco altro, prima che Yamada la lasciasse andare con Iida, commentando a proposito: «L'ho sempre saputo che sarebbe finita col ragazzo serio».
Shota sentenziò che quel suo ficcanasare nella vita sentimentale dei suoi alunni e accoppiarli era inquietante, poi si congedò per raggiungere la macchina dove Hitoshi e i ragazzi lo aspettavano. Lì così, in mezzo ai due come a proteggerli, sembrava un po' il loro fratello maggiore. Sorrise anche a notare che gli si erano già affezionati.
Ancora con la mente altrove, portò tutti a casa. Finalmente poté rientrare nella sua e prepararsi qualche piatto veloce da riscaldare e mangiare in pace, sprofondato sul divano e assaltato dai suoi gatti.
Continuò a pensarci molto, quel pomeriggio di meritata e beata nullafacenza, a quel fatto che i suoi studenti avevano passato tanto. In un raptus di nostalgia, prima di andarsene da scuola aveva recuperato i loro temi di filosofia di inizio anno. Si ritrovò a prendere quel plico, rigorosamente ordinato secondo l'elenco alfabetico, e sfogliarlo un po'.
Aoyama Yuga e Ashido Mina. I primi anni il loro continuo farsi dispetti, in una sorta di lotta per la supremazia entrambi eccentrici quali erano, lo aveva portato ai suoi esaurimenti nervosi migliori. Dopo avevano capito come andare d'accordo ed erano finiti a condividere le loro passioni. Aoyama aveva assolutamente un futuro come make-up artist e anche Ashido non se la cavava male coi social, anzi aveva avuto l'idea coraggiosa di sensibilizzare sul tema della violenza sulle donne usando la sua popolarità.
Asui Tsuyu, promessa del nuoto e studentessa eccellente che non si faceva problemi ad esprimere la sua opinione, e poi...
Ah, Bakugo Katsuki. Ci avrebbe potuto scrivere pagine, tipo di quei trattati sugli alunni difficili che diventavano la base di nuovi studi e teorie pedagogiche. Non aveva mai capito fino in fondo quel ragazzo, non era mai riuscito a superare il suo muro di arroganza e orgoglio sotto il quale sapeva nascondersi un animo fin troppo vulnerabile. Però qualcun altro alla fine ci era riuscito, Shota voleva credere anche grazie alla sua mediazione quella volta in punizione. Anche Katsuki sembrava aver capito che poteva permetterselo e meritarselo.
Hagakure Toru... Una di quelle ragazzine nella norma, di quegli alunni che a lungo andare purtroppo dimentichi. Lei gli avrebbe saggiamente ribattuto che l'apparenza non era tutto, avendo capito di dover cercare il meglio per sé a prescindere dai giudizi altrui.
Iida Tenya. Da sempre studente modello, voti alti e disciplina ancora di più. Aveva svolto un egregio lavoro come rappresentante, tanto che certe volte Shota stesso si chiedeva veramente come faceva. Tuttavia anche lui doveva apprendere ancora qualcosa e da quell'inverno ci era riuscito: essere meno rigido e godersi le cose, accogliendo piano piano nella sua preimpostata vita una presenza caotica quanto benefica.
Kaminari Denki. L'aveva sempre detto che i voti non definivano la persona. Quel ragazzo che non credeva in sé, convinto in fondo di essere inutile e destinato a nulla nella vita, aveva fatto tanto più di altri messi assieme. Certo, spesso si comportava da stupido apposta per non applicarsi e sapeva essere una spina nel fianco per le sue bravate. Come dimenticarle, dalla serata degli ex alunni di cui venne a sapere poi, perché Shota Aizawa veniva sempre a sapere tutto, fino alla gita a Berlino, solo per citare l'ultimo anno. Ma Kaminari Denki era anche così prezioso. Una pila inesauribile di gioia e un grande amico, anche profondo quando ci si metteva; aveva riappacificato la classe più volte, aiutato alcune persone ad uscire dalla loro bolla come Hitoshi o Kyoka ed era un continuo esempio di come combattere per essere sé stessi prendendosi finalmente sul serio.
Kirishima Eijiro. Un altro con la scarsa autostima, all'inizio, che viveva più per gli altri che per sé. Non si capiva e pensava fosse meglio voltare le spalle allo specchio, perché i suoi problemi non erano così gravi, c'era chi stava peggio. Con la scusa di fare il bravo ragazzo finiva con il trascurarsi, come il sole che illumina la luna e periodicamente ne rimane eclissato. Ma in tutti quegli anni aveva imparato che andava bene essere insicuri nei propri confronti e che poteva essere migliore, poteva prendersi del tempo per farlo senza che ciò implicasse smettere di occuparsi anche degli altri, di essere il raggio di sole altruista.
Koda Koji, il timido passato sempre in secondo piano che aveva cominciato a far sentire la sua voce.
E dopo, Jiro Kyoka. Un po' la sua prediletta in cui Shota rivedeva sé stesso. Mentre al concerto diceva quello che anche lui aveva impiegato molto a comprendere, non aveva potuto che pensare che era diventata così forte. In seguito ai problemi al terzo anno per il disturbo alimentare, all'assenza alla gita di quinta, alle varie ricadute... A piccoli passi riusciva ad essere sincera, aprirsi, farsi aiutare. Non si dissolveva più tra le sue bugie o lasciava affogare, temendo di trascinare a fondo chi le tendeva una mano, perché adesso era pronta ad accettarla.
Midoriya Izuku. Il nerd della classe, il sognatore sempre perso tra le nuvole, il ragazzo così puro nei suoi sentimenti fino a non accorgersene e rimanerne ferito. Aveva provato con tutto sé stesso a capire la sua antitesi, ci aveva dovuto lottare tanto. Finché aveva capito cosa erano l'odio e l'amore di cui parlava il suo tema, che ce li aveva sempre avuti sotto agli occhi e la sintesi passava anche per viverli facendosi male, eppure così bene.
Poi ancora Mineta Minoru, caso perso che il professore aveva dovuto punire non ricordava quante volte; Ojiro Mashirao, al contrario onestà e pudore fatti a persona. Sato Rikido che rallegrava sempre tutti con i suoi dolci e Sero Hanta che lo faceva in altro modo meno legale e che, battute a parte, stava rialzandosi per non buttare via la sua vita.
Shoji Mezo... Anche lui mai inquadrato perfettamente, la cosa sicura era che avesse grande pazienza ed empatia per essere il migliore amico di Tokoyami Fumikage. Shota sapeva bene quante ce ne volevano per avere a che fare con persone così, essendo stato anche lui uno che vedeva solo nero, specialmente dopo la perdita del suo amico. Come lui e Yamada, così quei due si sostenevano a vicenda capendosi anche nei silenzi.
Todoroki Shoto. Si era sciolto a modo suo, dimostrando quanto teneva agli amici e di saper essere persino divertente nella sua ingenuità. Aveva ancora strada da fare nei rapporti sociali e da risolvere con la famiglia, ma credeva in quel ragazzo che aveva scongelato la sua corazza di apatia permettendo alle sue emozioni di uscire, facendosi trascinare da quella fiamma che aveva scoperto di avere dentro, e che dietro la facciata da principe di ghiaccio custodiva un cuore buono.
Infine, le ultime studentesse.
Uraraka Ochako, tenera ragazza innamorata dell'idea dell'amore e che forse ci aveva perso dietro tempo. Non era stato sprecato, però, perché le era servito per ristabilire le priorità, per curare le proprie ferite prima di gettarsi a soccorrere gli altri, un po' come Kirishima. La verità non era che era voluta bene ma mai amata, piuttosto che non era amata ma voluta bene. Non ne doveva fare una colpa a nessuno e anzi l'affetto autentico era più importante della ricerca di un amore non corrisposto, e la prima persona da amare proprio sé stessa.
Yaoyorozu Momo, l'altra alunna modello, prima della classe, brava in ogni cosa. Proprio per questo talvolta era stata sopravvalutata e abbandonata a sé, con il risultato che si era un po' persa la vera Momo, sotto alle maschere della persona perfetta che tutti si aspettavano fosse senza sforzo. Ora aveva trovato il coraggio di togliersele e aveva scoperto la sua strada che era pronta a seguire.
Ormai tutti lo erano, riflette Shota sereno come mai prima, mentre riponeva i temi sulla scrivania e si preparava per la serata.
Uscì di buon umore, tanto che, quando passò dall'amico per dargli un passaggio, Yamada lo guardò stralunato. Gli lanciò anche diverse battutine delle sue durante il viaggio, lasciando intendere quanto in realtà ne fosse semplicemente felice.
Dovettero parcheggiare molto più in là e fare diversa strada a piedi, in un insolito ma placido e confortevole silenzio. Arrivarono che già la quinta del classico era radunata all'ingresso dell'affollato luna park. I ragazzi si sbracciarono per salutarli e incitarli a raggiungerli. Per la cronaca, dannatamente rumorosi e casinisti come sempre.
Quella serata avrebbe portato altri disastri e insieme quei disgraziati avrebbero vissuto tante altre avventure, ma anche questa è un'altra storia.
Per il momento, Shota si lasciò sfuggire un altro sorriso. Lo stavano aspettando, ma adesso il suo ruolo si era compiuto e potevano andare avanti da soli. Mosse l'ultimo passo verso di loro, verso i suoi pulcini ormai cresciuti che stavano imparando ognuno a modo proprio a volare. Come delle bellissime farfalle che sarebbero sopravvissute più di due giorni nella vita vera. Perché, ne era certo, la sua 5ªA avrebbe fatto tanta strada e lui, da terra, li avrebbe guardati orgoglioso sbattere per la prima volta le loro ali verso il futuro.
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