3.9│Unsteady

[ NdA ] Chi ha la sfortuna di seguire, oltre a questa storia, il mio profilo sa che nel pubblicare gli ultimi capitoli sto facendo un conto alla rovescia e spendendo due parole in bacheca. Ecco, in questo caso erano troppo importanti per non fissarle qui e troppo tante per riuscire a non scrivere un poema. E quindi non spaventare chi non conosce la storia e si ritrova l'annuncio e probabilmente si chiede che cosa mi sia fumata, senza probabilmente, dunque eccoci qui.

In questo capitolo ci lascio il cuore e dire così è comunque riduttivo. Ironia della sorte, capita vicino al finale della sesta stagione dell'anime - ci ho provato lo stesso giorno ma sono lenta come lo schifo, perciò una settimana in ritardo - in cui il personaggio in questione ha avuto uno degli sviluppi più belli di sempre. Niente spoiler ma mi piaceva questa riflessione, tutto qua: al solito spero di rendergli giustizia, con un capitolo pensato da tanto tempo e il più bello da scrivere e con il mio piccolo 'unsteady' Katsuki.

Dato che ho scoperto di amare in modo spropositato di scrivere di lui e dovevo metterci per forza tutte le cose che troverete, tra eventi, stupidate ed headcanon - altri ancora rimangono fuori, ma potrebbero comparire nei bonus di cui vi dicevo - questo sarà anche il capitolo più lungo in assoluto, per cui mi scuso già.

A proposito, ultima cosa. Verso la metà della prima parte quindi a un quarto (?) circa, sono menzionati i temi dell'alcolismo e della violenza domestica. È tutto abbastanza edulcorato come sempre, perché anche la sofferenza dei personaggi fa parte delle loro storie ma allo stesso tempo ci sto male di riflesso a essere troppo cruda, però mi sembrava corretto avvisare. Non sapevo se metterci un tw, perciò nel dubbio l'ho fatto e ho approfittato per spiegarvi qui. Appunto sappiate che interessa solo una minima parte, è leggero e vi potete rendere conto da voi quando arriva ed eventualmente saltare qualche paragrafo.

Sproloquierei ancora ma già arrivo alle 10.000 parole e non voglio uccidervi e che mi abbandoniate proprio sul più bello, perché ho già detto che il capitolo ha tutto il mio cuore sì? Della serie che ho pianto a scrivere la scena finale. Troppo emotiva lo so, ma che ci posso fare, li amo.

Buona lettura e a presto con l'epilogo!

TW: accenni a alcolismo, violenza domestica. ⚠

now playing:
Unsteady,
X Ambassadors

0:40 ━━❍───── 3:25
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volume: ▁▂▃▄▅▆▇ 100%

Mama, come here, approach, appear
And Daddy, I'm alone, 'cause this house don't feel like home
If you love me, don't let go (hold)
Whoah, if you love me, don't let go (hold)
Hold, hold on, hold onto me
'Cause I'm a little unsteady, a little unsteady

C'erano due specifiche cose che Katsuki odiava, tra le altre si intende: le canzoni pop della, suo malgrado, amica dai capelli rosa e l'hangover. E si dava il caso che quella domenica le due specifiche cose stessero convergendo in una combo micidiale mentre riportava a casa lei e gli altri sbandati dopo la festa della sera prima da Faccia Piatta, come se già questo non fosse abbastanza per testare la sua pazienza.

Normalmente avrebbero fatto tappa al Mc Donald's o simili per rifornirsi di energie e schifezze in una delle loro colazione-pranzo-merenda in uno, ma erano le due del pomeriggio passate e avevano un carico inumano di compiti per i giorni seguenti. Ergo, erano talmente nella merda che persino i meno studiosi del gruppo si erano rassegnati a rimandare. Il che aveva meno probabilità di avvenire che un cazzo di asteroide precipitasse sul pianeta Terra, proprio sulle loro fottute teste, quindi rendeva la gravità della situazione. Però, come diceva il buon vecchio portasfiga Murphy, se qualcosa può andare storto lo farà, così eccoli lì.

«What am I now? What am I now?
What if I'm someone I don't want around?
I'm falling again, I'm falling again, I'm falling»

«Cambia».

«Uhm?» l'Oca finse palesemente di non capire.

Katsuki inspirò a fondo. «La canzone».

«Ah. Mmh, no, perché?»

«Ho. Detto. Cambia».

«Ma è bella!»

Premette giusto un po' bruscamente sull'acceleratore nell'eseguire un sorpasso sul rettilineo che conduceva al paese dove abitava la ragazza, che non vedeva l'ora di scaricare davanti casa. Il respiro pesante e le dita strette al volante che gli prudevano come non mai mentre il dannato Harry Styles continuava con la sua lagna.

«What if I'm down? What if I'm out?
What if I'm someone you won't talk about?
I'm falling again, I'm falling again, I'm falling
And I get the feeling that you'll never need me again»

«Ora vomito. E poi mi taglio le vene».

«Kat!» lo rimproverò Capelli di Merda, al lato del passeggero. Non trattenne però una risata, che non passò inosservata all'Oca.

«Voi due!» Si agitò tutta sui sedili posteriori e così svegliò l'Emo di Merda e Faccia da Scemo, appiccicati l'uno sull'altro in dormiveglia.

«Scusa, Mina, hai ragione».

Il biondo lanciò una rapida occhiata all'amico prima di tornare subito attento alla strada. «Tch, lecchino di merda».

«No, caro mio» fu corretto «È che Eiji sa che le donne hanno sempre ragione e soprattutto sono la sua migliore amica e mi vuole bene, quindi mi asseconda».

«In realtà è che non voglio mettermi contro di te...»

La battuta scherzosa o neanche troppo di Capelli di Merda fu sovrastata da un altro di una lunga serie di sbuffi di Katsuki, mentre implorava tra sé e sé che prima o poi qualcuno dicesse all'Oca che non funzionava così. O di sicuro era già successo ma tanto quella non ascoltava.

Per l'appunto, continuò a lamentarsi, con quel suo tono di voce maledettamente alto che unito al mal di testa gli mise una vaga voglia di strapparsi i timpani.
«In più, non insulta gratuitamente i gusti degli altri».

«Se fanno cagare al cazzo non è colpa mia».

«Kaaat!»

Stavolta i due piccioncini, qualunque cosa fosse successa le ore prima tra loro e Katsuki non ci teneva a saperlo, si resero utili. Bloccarono l'Oca appena in tempo dall'avventarsi in avanti e afferrare il sedile dell'autista per scuoterlo, oppure direttamente portargli le mani al collo.

«Ehi, ehi, a cuccia tutti e due. Se mi aveste fatto finire... Nessuno vuole offenderti, Mina, ma dovresti avere un po' di pietà per Kat. È già un miracolo che ha detto sì».

Ecco, ora si ragionava. Emise un grugnito che doveva suonare come un ringraziamento. «Mia la macchina, mie le regole» ricordò secco. Era sul serio già tanto che prima di partire, in un momento di clemenza misto a dolori e scazzi vari per cui avrebbe acconsentito a qualsiasi cosa, le avesse concesso di collegarsi con il suo telefono all'auto. Quanto mai lo aveva fatto.

«Uff, va bene. Quanto sei noioso» si arrese l'amica, bisbigliando qualche altra parola poco cortese che fu lasciata correre per la salute di entrambi.

Nel frattempo cominciò un'altra canzone.
«Ho sognato di volare con te
Su una bici di diamanti»

«Oh sì, questa!»
«Dio, no!»
I due urlarono in contemporanea. Il biondo le riservò un lungo sguardo truce dallo specchietto retrovisore, lei una linguaccia.

«Su su, ammetti che non le odi così tanto queste canzoni, se le conosci!»

«Questa la conosco perché forse per un periodo è stata ovunque e, dico forse, ha scartavetrato abbastanza i coglioni?»

A tal punto rimpianse, rimpianse davvero di essere molto responsabile alla guida e non potersi distrarre durante una svolta per skippare il brano o schiacciare un qualunque tasto sullo schermo centrale prima della tragedia: Faccia da Scemo che si univa a lei e loro che insieme stonavano all'inverosimile il ritornello.

«Nudo con i brividiii
A volte non so esprimermiii
E ti vorrei amaaare ma sbaglio sempre
E ti vorrei rubaaare un cielo di perle
E quanto dareeei per andar via- No! Katsuki!»

Il biondo riuscì nella sua missione salva orecchie, o meglio salva vita. «Vi sta bene, stronzi».

L'Emo di Merda approvò con un cenno silenzioso. Diede dei coppini ai due e disse qualcosa del tipo che si meritava un po' di tregua. Almeno qualcuno lo capiva in quel branco di idioti.
Poi, aggiunse dell'altro. «Insomma guardatelo, povero Kacchan. È così esaurito e non ha ancora bestemmiato, domani nevica».

D'accordo, come non detto. Voleva la guerra?

«Potevi dirlo subito che oggi volevi morire. Ti accontento anche adesso» sibilò a denti stretti e regalò anche a lei una delle sue occhiate omicide.

Eppure, bisticciare in quel modo era la normalità e in generale tutti erano abituati all'atteggiamento del ragazzo che sapevano nascondeva in fondo, molto in fondo, dell'affetto per loro. Così, si limitarono a riempire l'abitacolo di risate.

«Ho lasciato troppi segni
Sulla pelle già strappata
Non c'è niente che si insegni prima
Che non l'hai provata»

«Aaah, sì, questa! Lasciala ti prego!»
«Col cazzo».
«Ti danno fastidio solo perché parlano di te! Ascolta e basta, per una volta!»
«Hah? Ma che stai...»

«Sono andato sempre dritto come un treno
Ho cercato nel conflitto
La parvenza di un sentiero»

«Dai, 'Tsuki» ci mancava Capelli di Merda. Stavolta non lo sostenne, anzi, bloccò gentilmente la mano già a un millimetro dallo schermo. «Ascoltiamo almeno questa».

«Ho sempre fatto tutto in un modo solo mio
E non ho mai detto resta se potevo dire addio
Poche volte ho dato ascolto a chi dovevo dare retta
Ma non ne ho tenuto conto
Ho sempre avuto troppa fretta»

«Soltanto perché è l'ultima, siamo arrivati...» sbuffò solo, mentre le parole dell'Oca attecchivano e anche il tono del migliore amico che, realizzò, non era stato altro che schifosamente dolce nei suoi confronti.

«Almeno tu rimani fuori
Dal mio diario degli errori
Da tutte le mie contraddizioni
Da tutti i torti e le ragioni
Dalle paure che convivono con me
Dalle parole di un discorso inutile
Almeno tu rimani fuori
Dal mio diario degli errori»

Katsuki frenò lentamente. Accostò e spense il motore. Per qualche secondo, solo il silenzio che li avvolse. Nemmeno Faccia da Scemo aveva da dare aria alla bocca e la BakuSquad sembrava in attesa di qualcosa, da parte sua. Ma era abbastanza preso dall'elaborare che mormorò soltanto un secondo «Siamo arrivati».

Aveva gli occhi fissi sulla strada davanti a sé, perciò non vide il sorriso altrettanto tenero di Mina. «Va bene, Katsuki. A domani».

Quel "Va bene" rimase a ronzargli in un brusio di sottofondo nel cervello, anche mentre la ragazza scendeva e loro riprendevano il viaggio.

Era chiaro che sottintendeva di più. Così come tutta la scenetta, non altro che un fantasioso tentativo dei suoi di fargli sputare il rospo, come amava dire, o almeno farlo ragionare su qualcosa.

E non gli era difficile immaginare cosa. La frecciatina dell'Emo con il soprannome, i silenzi di Faccia da Scemo non solo dovuti al post sbronza, Capelli di Merda dolce e l'Oca che aveva scelto appositamente quelle canzoni... Anche se nessuno aveva ancora accennato alla sera precedente, era ovvio che ricordavano lo spettacolino che aveva dato con Deku. Quindi, forse, intendevano solo punzecchiarlo il giusto come al solito. Incoraggiarlo senza troppe pressioni lasciandogli il suo tempo e ricordargli che ci sarebbero sempre stati per lui.

Il fatto era che non ci voleva pensare, a Deku. Non adesso che si sentiva più incasinato del normale e i postumi della sbornia non c'entravano, perché non era la testa il problema quanto quella fastidiosa sensazione al centro del petto che più si sforzava di scacciare quegli occhi, quel viso, quella voce, più tornava a riempirlo.

Arrivarono nel parcheggio del condominio dell'Emo.

Faccia da Scemo insistette a scendere con lei per aiutarla, anche se tra tutti e due non si poteva dire chi ne avesse più bisogno, e per parlarle di qualcosa. Katsuki lasciò il compito di origliare a Capelli di Merda e si estraniò guardando fuori dal finestrino.

Salvo rompersi le palle dopo neanche due minuti. «Oi, Faccia da Scemo» gli diede la voce «Ne hai ancora per molto?»

«Arrivo! Un attimo!»

Buttò uno sguardo allo specchietto retrovisore. Ancora appiccicato all'Emo. L'uno di fronte all'altra, mani intrecciate, lui che tornava a sussurrarle qualcosa e lei che lo prendeva a pugnetti. Insieme a un calcio ipotizzò ben meritato ai coglioni, che purtroppo quello schivò.

Nulla di nuovo, constatò mentre la risata dell'idiota si spandeva e veniva accompagnata dall'altra. Ma vederlo flirtare così spudoratamente gli aveva sempre dato il voltastomaco, con lei senza sapersi decidere a maggior ragione e quella mattina in particolare per qualche motivo.

«Hai tre secondi per riportare il tuo culo qui, o ti lascio a piedi».

«Kat!» l'ennesima risata anche del rosso «Dai, si stanno divertendo e sono carini!»

«Carini 'sta minchia. A me fanno solo venire il nervoso. Trent'anni di tira e molla per dichiararsi e adesso non sanno stare lontani due minuti».

«Non hanno ancora ufficializzato ma comunque sono i primi giorni, immagino che sia normale che vogliono-»

«E io immagino che è la volta buona che vi scarico tutti, se da adesso dovrò subirmeli sempre attaccati come fottute cozze».

«Ma io cosa c'entro-»

«Tempo scaduto».

Neanche si preoccupò che Faccia da Scemo avesse effettivamente sentito l'ultimatum o obiettato. Si allungò verso i sedili posteriori per chiudere la porta, riaccese la macchina e sgommò via.

«Ma... Ehi, Bakubro! Io sono ancora qua!» l'idiota rimasto senza passaggio prese a gridare qualche metro dopo, la voce via via sempre più sottile e lontana.

Capelli di Merda abbassò il finestrino e si sporse indietro. «Te l'aveva detto che ti lasciavamo a piedi!»

«Pure tu, Eiji! Ehi Kyoka non c'è niente da ridere... Siete tutti degli infami!»

«Ti vogliamo bene anche noi! A domani!»

Katsuki captò questo e poco altro, più impegnato ad afferrare l'amico per la maglietta e ritirarlo dentro perché si stava sporgendo troppo e non ci teneva ad avere un morto sulla coscienza.

«Cazzo fai coglione, è pericoloso! Vuoi morire anche tu, hah?!»

Soltanto dopo essersi asciugato le lacrime per le grasse risate, delle sue contagiose che strappavano persino a lui un sorriso ma non in quel caso, Capelli di Merda bisbigliò delle scuse. Non pentito o offeso dalla cazziata, quanto incuriosito che se la fosse presa tanto, per così poco.

«Tch». Katsuki tentò di essere meno duro. «Scusa un par di palle, volevi farmi venire un infarto?»

Lo fece ridacchiare sommessamente, quando liberò una mano per dargli una veloce arruffata a quei capelli di merda che si ritrovava.

«Sai, Kat, è bello che stai imparando davvero a preoccuparti degli altri».

«Hah?»

«Nulla».

L'uscita buttata lì così si aggiunse al marasma di pensieri e ad alimentare la sensazione al petto, durante quel resto di tragitto in silenzio. Ma non erano i flirt di Faccia da Scemo o le parole scambiate con Capelli di Merda, la causa. Quelli erano solo una copertura, una scusa per non ammettere la vera cosa che gli dava fastidio. Che tutto quanto, pianificato dagli amici o meno, gli ricordava Deku.

L'idiota e l'Emo, le stesse considerazioni che aveva brontolato su di loro: che fottuto ipocrita, non era in fondo la medesima identica cosa? Una situazione simile, solo che quei due avevano raggiunto un finale felice e questo lo irritava perché per lui non sarebbe mai stato possibile, non ci sarebbe mai riuscito e...

No, non era irritazione o fastidio, quello schifo di sensazione. Era più qualcosa che lo riempiva e paradossalmente lo svuotava, lo lasciava pesante ma senza sicurezze e pieno di niente; acido che dall'interno corrodeva le pareti del suo cazzo di stomaco e tutto il resto fino a lasciare un vuoto pesante come un macigno.

E se cominciava a dirsi queste cose senza un fottuto senso era davvero messo male e se anche fosse stata un po' vera quell'ultima affermazione di Capelli di Merda non bastava, e tutto ciò non importava. Non ci voleva pensare, a Deku.

In automatico, perché ormai conosceva a memoria la strada meglio di quella per casa propria, aveva svoltato nella via del rosso e si era fermato nel suo vialetto.

Folle, freno a mano, giro di chiavi e di nuovo quel silenzio surreale.

Non era la prima volta che andava così quando loro due erano soli, significativamente dopo una delle poche bevute che il biondo si concedeva. Il suo migliore amico lo sapeva, cosa voleva dire con quella sosta e quel viso leggermente imbronciato, appoggiato su una mano a fissare fuori senza osare guardarlo in faccia. Era il suo modo evitante di dire che se volevano parlare adesso potevano farlo, anzi ne aveva bisogno anche se mai avrebbe fatto il primo passo.

«Scusa per Mina, anche per me e gli altri» iniziò quindi Capelli di Merda. «È solo che cercavamo di dirti qualcosa... Ma l'hai già capito, no?»

Annuì piano.

«Allora non c'è altro da dire».
Il ragazzo dai capelli rossi lo colpì risoluto con una delle sue pacche virili e un suo sorriso accecante come il fottuto sole, così caldo e incoraggiante. «Noi ci siamo sempre, 'Tsuki. E andrà tutto bene».
Uscì dalla macchina, chiudendo energicamente la portiera nonostante le raccomandazioni ricevute negli anni. Si riaffacciò solo un secondo sul vetro abbassato, per sussurrargli un'ultima cosa seguita da un occhiolino. «Parlagli e basta».

Segretamente Kastuki aveva immaginato a lungo quel confronto. Se a Faccia Piatta e da Scemo aveva circa spiegato qualche ora prima, venuta fuori la foto, e se con la yaoista dai capelli rosa non sembravano esserci problemi nemmeno dopo lo stupido gioco della bottiglia, con Capelli di Merda... Era diverso. Per quanto, fatto che gli costava ammettere, volesse bene agli altri bastardi, lui era quello che considerava davvero il suo più stretto confidente, il suo migliore amico.

Aveva tanto atteso di dover chiarire anche con lui e si era aspettato chissà cosa, chissà che discussione profonda tra dovute spiegazioni e reticenze sui suoi dannati sentimenti che onestamente lo agitava, invece lui come se ne saltava fuori? Con un lo sai, andrà tutto bene, parlaci. Poche semplici parole, dritto al punto e fine.

Allora fanculo, fanculo Eijiro. Perché in realtà aveva fatto esattamente ciò di cui aveva bisogno.

Katsuki guidò fino a casa con quello schifoso del magone.

Neanche il tempo di metterci piede che già le urla di sua madre la riempirono. La casa e la sua testa, che se prima era sul punto di esplodere adesso era la volta giusta che faceva una strage.

«Sto parlando con te, disgraziato!» la vecchia strega continuò a gridargli contro mentre appoggiava chiavi e giacca e si toglieva le scarpe. Si alzò dal tavolo in cucina, ma il corpo che tremò di fatica tradì il tentativo di sembrare minacciosa. «Ti sembra questa l'ora di tornare?!»

Non riuscì a muovere più di qualche passo verso il figlio. Ormai barcollava pericolosamente e il marito, seduto al suo fianco, dovette sorreggerla. Le mormorò qualcosa come che era il caso di tornare a stendersi sul divano, lei protestò dimenandosi e riprendendo a imprecare contro entrambi.

L'allarme scattò subito nella testa di Katsuki e una veloce analisi non fece che confermare. La vecchia che non si reggeva in piedi ed era più manesca del solito, il salotto dove sembrava essere passato un uragano, le bottiglie vuote ai piedi del divano e infine il silenzioso sguardo di scuse di papà che conosceva fin troppo bene... L'aveva fatto di nuovo.

«È solo che ci stavamo preoccupando» blaterò lui in uno dei suoi tentativi di mediare, mentre forzava Mitsuki a sedersi. «Hai fame, Katsuki? Ti preparo qualcosa?» chiese poi gioviale. Come se si potesse sorvolare, non fosse successo niente, come se fosse tutto fottutamente normale.

Lo ignorò e fissò la madre. Strinse i pugni talmente forte da conficcarsi le unghie nei palmi. Fanculo tutti e due, papà che si comportava sempre così e lei che...
«L'hai fatto ancora» ripeté piano l'unico pensiero compiuto di quel momento, con la delusione dietro a quell'accusa e la voce che si spezzava sul nome che non usava mai «L'hai fatto ancora, mamma».

Se lei ne fu colpita, non si scompose e anzi iniziò con i suoi discorsi vittimisti. «No e comunque non sono cazzi tuoi quello che faccio io. E secondo te, Sherlock, perché l'ho fatto, eh? Per chi?»

«Certo, è colpa mia adesso! Finché Katsuki è un figlio perfetto va bene, ma al minimo sbaglio è colpa sua se tu sei un'alcolista di merda!»

«Katsuki» tuonò Masaru. Si spostò tra i due, pronto a dire di smetterla con queste solite discussioni inutili e controproducenti.

Sapeva che stava per dire qualche stronzata del genere. Ma quella non lo era. Quella volta non poteva passarci sopra ancora, cazzo, perché non lo capiva?

«Lo sai che non è più così da tanto...»

«Ah sì? A me sembra il contrario invece».

Per un attimo, quando scattò a guardare lui, Katsuki colse la paura nei suoi occhi. Si sentiva così schifosamente ferito da non potersi perdere a pensare che razza di figlio era se con il suo essere problematico spaventava il padre e spingeva la madre a bere. Perché era così, come aveva detto lei. Era colpa sua, in parte, quella famiglia disastrata.

«D'accordo. Sei arrabbiato, lo capiamo. Va tutto bene e adesso ci calmiamo, entrambi, ok?»

«No! Va tutto bene un cazzo! Voi e la vostra merda, sono stanco, fanculo tutti!»

Masaru non ebbe modo di avvicinarsi che stava già correndo su per le scale. Mitsuki gli urlò di nuovo dietro qualcosa del tipo che gli stavano parlando, ingrato, non avevano finito; Katsuki gridò di rimando altro di insensato che nemmeno ricordava. Inciampò sui gradini e sulla ciabatta che gli fu tirata, continuò a scappare finché poté chiudersi nella sua stanza e scivolare contro la porta sbattuta con forza.

In posizione fetale, con le mani tremanti a tapparsi le orecchie e stringersi i capelli e con gli occhi appannati, li chiuse e cominciò a dondolarsi lentamente.

Era troppo a pezzi per preoccuparsi anche di sentirsi un idiota ed era semplicemente stanco, stanco di tutto come aveva gridato fino a bruciarsi la gola. Del fatto che si dovesse sempre urlare in quella maledetta casa, di essere una famiglia disfunzionale, dell'accondiscendenza e del permettere tutto di papà e di sua madre che... Non voleva neanche dirselo nei suoi pensieri.

Si sentì gettato indietro nel tempo, come in un limbo, come nel medesimo identico copione che pensava di aver superato e invece si ripeteva ancora, e lo odiava.

Poteva vedere il sé stesso moccioso che andava a rintanarsi da qualche parte e si rannicchiava in quella posizione. Mamma a volte beveva troppo e diventava cattiva. Si arrabbiava e faceva del male a lui e a papà. In generale poi era il suo metodo educativo, alzare la voce e le mani.

Così il piccolo Katsuki si nascondeva dove nessuno poteva trovarlo oppure scappava di casa a giocare con qualche amichetto. Come se seppellire la testa nella sabbia avesse potuto cancellare il problema, solo per un po'. Finché papà non ricompariva e lo stringeva con le lacrime agli occhi felice di averlo ritrovato, lo riportava indietro e lo convinceva a perdonare la mamma.

Crescendo si era detto che non voleva più che andasse così. Non voleva più essere un vigliacco e non voleva più lasciar correre se qualcuno non se lo guadagnava, se dopo si tornava punto e a capo.

Imparò a rispondere a tono alla vecchia strega, a ribellarsi anche a suo padre e le sue cazzate sul perdono.

Riversò questo anche nei rapporti con gli altri, diventando certo un essere spregevole ma così riusciva ad andare avanti. Sapeva bene che la sua situazione non giustificava i suoi comportamenti, e che anzi per la volontà di cambiarla stava finendo ad agire allo stesso modo, a perpetuare gli stessi atteggiamenti sbagliati, la stessa violenza su chi non lo meritava. Lo sapeva bene ma nella sua coscienza bilanciava i fatti perché almeno così sopravviveva.

Riversò tutto questo anche nei confronti di sé, quando le consapevolezze diventarono tanto pesanti da non poter perdonare nemmeno la persona che era diventata e che ora odiava più di qualunque altra al mondo.

E pensare che adesso si stava ripetendo ogni cosa di nuovo, mamma, papà e lui che non sapeva come gestire la situazione perché in passato se ne era illuso e gli ultimi eventi lo dimostravano... Non faceva che buttare benzina sul fuoco, farlo sentire di nuovo incapace e solo con i suoi problemi e il suo odio per tutto e tutti e sé stesso.

Non credeva nel destino, ma quel bastardo del karma o quello che era sembrava divertirsi a prendersi gioco di lui. Perché ancora, perché adesso e sarebbe mai finita quella merda, se ne sarebbe mai liberato? Non poteva essere come da bambino che scappava e tutto magicamente scompariva? Davvero non poteva essere felice, solo per un po', solo per due minuti?

«Katsuki».

Una voce dall'altro lato della porta lo ricatapultò nella realtà. Non sapeva per quanto fosse rimasto lì così, con le orecchie tappate a isolarsi dai rumori dell'esterno e del suo stesso pianto.

«Katsuki, so che ci sei, ti sento. Mi apri? Dai, parliamo un po'».

Si asciugò velocemente le guance e rimase in silenzio. Trattenne anche il respiro. Come gli animali che si fingono morti e come quando da piccolo giocava con papà a nascondino, se non che adesso fuggiva dai propri sentimenti ma non poteva più farlo.

Un sospiro, il tonfo sordo della testa che si appoggiava al legno. «Ti ho fatto il pollo marinato».

Oh, ok, questo era giocare sporco. Anche la sua pancia era d'accordo, a giudicare dal brontolio osceno che emise. Katsuki si rassegnò a slittare accanto alla porta e brontolare qualcosa di indecifrabile, che Masaru prese come invito ad entrare.

Non parlarono, all'inizio e ne fu grato.

Dopo aver fatto il prezioso, rimanendosene rannicchiato e scacciando via il piatto, cedette davanti agli occhi soddisfatti del padre. Era da tutto il giorno che non metteva qualcosa sotto ai denti e adorava la carne e il piccante. In altre parole, il vecchio sapeva come comprarlo, aggiungendoci che cucinava da Dio. Il nirvana per il suo stomaco sottosopra, i suoi sensi e per un po' anche la sua mente che non si dovette occupare di altro.

«Buono?» Masaru lo stuzzicò quando ebbe finito di divorare tutto con la foga di un animale.

«Meh».

«Bene».

Ritirò il piatto e imitò il figlio puntando lo sguardo davanti a loro, sul muro bianco e sulla finestra che dava sul cielo limpido di quella domenica di fine aprile. Respirò profondamente.

Katsuki capì che era arrivato quel momento. «Non parleremo di lei» lo anticipò.

«Ma-»

«No».

Per l'amor del cazzo, avevano già avuto quella discussione, la solita che non portava mai a niente. Già lo sentiva: la mamma era solo tanto preoccupata, lo sai che ha questo modo di dimostrarlo e bla bla. Sì, un modo che fa crescere figli disadattati e complessati, bel modo di merda.

Al contrario, lui era sempre stato l'angelo della casa, il pacificatore, quello fin troppo buono pur di mantenere equilibrio in quella famiglia che altrimenti sarebbe andata in frantumi.

Ma Katsuki non li odiava. Biasimava suo padre per aver sorvolato molte volte e sua madre quasi quanto sé stesso per il passato violento e di alcolismo, che però appunto era passato. Avendone suo malgrado preso il carattere, in fondo la capiva fin troppo, e riconosceva quanto si era impegnata tra farmaci e terapie e ancora ogni giorno provava ad essere una persona migliore.

Li detestava a volte, spesso, ma non li odiava. Soprattutto quella donna che lo aveva cresciuto con tutte le sue forze anche senza sapere come fare. Che aveva scatti d'ira ma se accadeva che li rivolgesse verso il suo bambino, anche se troppo tardi, si rendeva conto e si scusava nel suo modo impacciato di coccolarlo. Che era la strega cattiva ma anche colei che gli raccontava le favole della buonanotte dove il bene trionfava sempre sul male, gli eroi vincevano sempre sui mostri. Che era la sua prima sostenitrice in qualsiasi cosa faceva non perché voleva pressarlo e che fosse perfetto, solo felice.

«Non lo penso davvero» proseguì quindi in un mormorio, che fece sobbalzare Masaru di sorpresa. «Quello che ho detto prima della mamma. So che non è più così. E non la odio come pensa. È solo che mi ha attaccato appena mi ha visto, per non si sa che cazzo di motivo. Vorrei soltanto averci una conversazione normale qualche volta. Poi ho notato le bottiglie e allora...»

«Lo so» fece lui per riempire il vuoto. Non affrontavano spesso quei discorsi, andava bene così. «Anche lei e le dispiace tanto, credimi. Ma hai frainteso. Sì è solo fatta un bicchiere ieri sera con Inko e poi ha insistito a rimanere sveglia in attesa che tornassi, per questo ha un aspetto un po'...»

«Orribile?»

«Ecco. Non dirle che l'ho detto però».

Il ragazzo si abbandonò a uno sbuffo vagamente divertito. Dopo, il dubbio: «Ma Inko la mamma di Deku? Che c'entra?»

«Non te l'abbiamo detto? Mitsuki l'ha incontrata per caso al supermercato e dato che non ci vedevamo da un po' l'ha invitata da noi a cena, approfittando che voi ragazzi eravate fuori. Una serata tra amici, come ai vecchi tempi...»

«Ah».
E comunque fottuto Deku, sempre in mezzo. Non era il momento di pensarci.
«Quindi voi vecchi vi siete ubriacati come degli stupidi adolescenti».

«Non abbiamo esagerato, ho detto! In più ti sei appena insultato da solo. Avrete fatto lo stesso voi a quella festa, o sbaglio?»

La domanda retorica fu sufficiente a innescare a tradimento le immagini della sera precedente. Di quando dopo il litigio era venuto meno al suo voto di non bere, ed era sempre più convinto che la storia di sua madre c'entrasse eppure finiva con il fare i suoi stessi errori, infatti si era scolato diverse cose perché se doveva ubriacarsi, dannazione, doveva farlo maledettamente bene. A seguire, i flash della chiacchierata con Faccia Piatta e da Scemo tra confessioni e quella scadente vodka alla frutta e poi il gioco della bottiglia, quegli occhi verdi divertiti ed eccitati, le labbra che sapevano di fragola e cercavano disperate le sue e quello sì che era il fottuto nirvana e come ubriacarsi senza stancarsene mai...

Beh, cazzo, il vecchio non sbagliava e si ritrovò a spintonarlo quando scherzò: «Katsuki che arrossisce, questa me la segno sul calendario».

«Non sono cazzi tuoi». Affondò il viso tra le braccia, avvolte attorno le ginocchia.

«A proposito...» Masaru temporeggiò e si fece più serio. «È... È per Izuku, vero?»

La testa scattò automaticamente su, senza però né il coraggio né la capacità di dire nulla.

«È da diversi mesi che io e la mamma pensiamo che c'è qualcosa che non va. Non sai quanto mi rimprovero per non averti fatto capire abbastanza che con me puoi parlare di tutto. O meglio, per non averti costretto perché figurarsi se lo faresti di tua spontanea volontà-»

«Papà».

«Il tuo recente comportamento era una chiara richiesta di aiuto e non arrenderci con te, ma forse un po' l'abbiamo fatto-»

«Pa'».

«Parlando con Inko sono venute fuori cose che... Ci hanno dato da pensare e unire i punti. Anche se in fondo già lo sapevamo, lo sentivamo da sempre-»

«Pa'...» Quando il suo vecchio divagava così c'era sotto qualcosa, qualcosa di grosso che bisognava cavargli fuori e non sapeva se essere più nervoso o spaventato. «Puoi arrivare al fottuto punto».

Un'altra risata, abbastanza isterica. «Accidenti, sembra proprio di parlare con tua madre...»

«Pa'. Per favore».

Gli occhi nocciola scuro, contornati da qualche ruga, si spalancarono gradualmente dietro alle spesse lenti degli occhiali a quelle parole rotte, insicure nella fermezza che il figlio tentava di ostentare. «No, ehi, non ti prendo in giro e non è niente di grave, proprio il contrario. Solo, non so neanche perché siamo finiti a parlarne dato che è così ovvio che...»
Si spostò di modo da essergli di fronte e guardarsi in faccia. Quello che stava per dire era estremamente delicato e importante e spesse volte rimpiangeva di non riuscire, pur con la sua bontà, a trasmettergli quanto lo amasse.
«Come comincio... Inko ci ha detto che anche il suo Izuku è strano e pensa che c'entri tu».

Katsuki si rabbuiò. Tornò subito sulla difensiva. «Non è più quel periodo delle medie. Non sono più quella persona di merda, se è questo che intendi. Pensavo di averlo fatto capire».

«No, infatti. Lo sappiamo bene che non è più quel tipo di rapporto che avete...» Si schiarì la voce, sotto allo sguardo sempre più confuso che si assottigliava. «Inko pensa che... che ci sia qualcosa tra voi».

«Qualcosa...? Cioè?»

La bocca si fece improvvisamente secca e il respiro fu di nuovo trattenuto, mentre il padre si perdeva nei ricordi con espressione malinconica.

«Quando eravate piccoli lo pensavamo anche noi, sai? Avevate un legame davvero speciale. Tutti i bambini raccontavano dell'amichetta che gli piaceva e poi c'eravate voi due inseparabili che parlavate solo di quanto vi divertivate e vi volevate bene. Fino a quella volta che Izuku si fece male mentre giocavate insieme e finì in ospedale. Forse non siamo stati attenti, non abbiamo compreso tutto il tuo senso di colpa o Mistuki ti ha sgridato troppo e io l'ho permesso... Te l'abbiamo fatto pesare ed eri solamente un bambino. Quello è stato l'episodio che ha fatto peggiorare tutto, sia a casa che fuori. E Izuku, tu... Non l'hai più trattato allo stesso modo. Lo tenevi alla larga perché temevi di fargli male e con le pressioni che ti abbiamo messo hai iniziato a fare l'arrogante con lui e gli altri. Da lì i primi litigi a scuola, i primi richiami per la condotta, le prime crisi e la terapia familiare che tanto si è faticato a far accettare anche a Mitsuki...»

«Papà...» Quasi non realizzò di aver emesso lui quel rantolo, così come di avere ancora la gola bloccata e gli occhi che pizzicavano. Non ne voleva parlare. Non aveva mai voluto parlarne, con i suoi genitori o i suoi amici e anche sé stesso e non vedeva perché dovessero rivangare il passato proprio ora.

«Volevo soltanto dire che so di non essere stato un genitore perfetto ed è troppo tardi per scusarmi. Ma voglio che tu sappia che ci sono sempre. Anche la mamma, per quanto dia a vedere. Dovevi sentirla ieri...» un sorriso più disteso «Ecco, tornando a questo... Inko ha detto che vi siete riavvicinati, tu e Izuku, quindi... È una bella cosa che avete... ricucito il rapporto e...»

Fu il turno di Katsuki di sgranare gli occhi. No, no, no, cosa cazzo stava... Cosa si era lasciato sfuggire il dannato nerd stavolta e cosa stava succedendo? Papà stava cercando di...

«Ah, insomma, state insieme no?» Masaru sospirò come se si stesse togliendo un peso. La buttò sul ridere: «Era ora! Perché lo veniamo a sapere solo adesso e da un'altra persona?»

Non voleva credere che stesse succedendo. Cristo, non voleva un cazzo di coming out, men che meno con suo padre...

«Intendo, va bene che lo vuoi tenere per te, però il fatto che tu... Perché non ce ne hai mai parlato? Non è un problema per noi, lo sai. In più, sapere che è di Izuku che si tratta mi solleva!»

Katsuki si sentì come uno stupido ragazzino alla prima cotta, che un po' era quello, quando realizzò di stare arrossendo un'altra volta e che quella reazione fu registrata attentamente da uno sguardo ora furbo, quasi pettegolo che non si sarebbe mai aspettato dal vecchio.

«Non... Non stiamo insieme» fu l'unica cosa che riuscì a borbottare, evitandolo in ogni modo. «Non stiamo insieme e non parleremo di lui, è fottutamente imbarazzante!» buttò fuori tutto d'un fiato, tentando di darsi un tono ma ottenendo solo che il padre ridacchiasse ancora, intenerito.

«Ok, ok» fece, visibilmente più sereno, e si alzò in piedi. «Solo, trattalo bene, d'accordo? Come si dice... Non far cazzate?»

Ne aveva già fatte fin troppe, avrebbe voluto dirgli.

Ringhiò e gli scalciò contro, non tanto da fargli male, quando una sua mano gli scompigliò i capelli.

«Visto? Non è stato brutto parlare».

Katsuki mugugnò qualcosa che suonava come qualche insulto innocuo. In fondo ne era felice anche lui. Avevano chiarito sulla questione della vecchia e, imbarazzo a parte, avevano persino parlato come un genitore e un figlio normali.

«Oi» lo richiamò prima che si chiudesse la porta alle spalle. «Non è stato troppo tardi, pa'. Non è mai troppo tardi».

Scommise che stava trattenendo le lacrime, come le più uniche che rare volte in cui gli diceva che gli voleva bene o cose del genere. Masaru infatti non parlò, si limitò a un cenno commosso e si ritirò.
Un attimo dopo, però, rifece capolino. «Quindi sicuro che non state insieme?»

«Papà! Ho detto no!»

«Posso dirlo alla mamma? Che state insieme? Quasi insieme? Ci tiene molto sai...»

«No! Sparisci, vecchio!»

Schivando una scarpa da ginnastica, primo oggetto che il figlio si ritrovò sotto mano, e ridendosela di gusto, si dileguò in corridoio e giù per le scale. Lasciandolo a riflettere, o piuttosto a pensare a qualsiasi cosa da fare per potersi distrarre perché a quello là ancora non ci voleva pensare.

Katsuki sfogò un po' la tensione sul sacco da boxe, appeso accanto al letto. Già, ne aveva uno proprio come in quelle mediocri serie televisive americane su teenager difficili, che non era poi tanto distante dalla sua realtà. Gliel'aveva fatto Capelli di Merda a un compleanno. Mai regalo fu più utile.

Quando ebbe colpito abbastanza da avere il fiatone e le nocche rosse, fece una pausa. Una doccia e poi via a tuffarsi nei compiti, senza osare guardare il telefono perché, oltre alle disperate preghiere di aiuto dagli amici idioti, non voleva imbattersi in storie compromettenti di Faccia da Scemo o messaggi stupidi su WhatsApp o ancora immagini strane in galleria. Soprattutto una certa foto.

Finito di lottare a suon di imprecazioni con quel maledetto di Cicerone e i suoi ablativi, fu il momento di algebra.

Gli piacevano, le materie scientifiche. Nessuno spazio per costruzioni incomprensibili e mille interpretazioni su una dannata singola parola, nessun costringimento in pipponi filosofici né sentimentalismi. Semplicemente delle scienze esatte. Nella matematica, nella fisica, nella chimica ci sono soltanto delle cose certe, razionali; tutto segue una logica, delle regole, delle leggi che ti dicono che da quei reagenti avrai questi prodotti, che da questa espressione c'è quell'unico risultato, sempre e comunque. Katsuki la considerava quasi una metafora della sua vita e ci stava bene, era come la sua comfort zone.

Ma esistono anche le disequazioni con più risultati o dei misteri che nemmeno la scienza è ancora in grado di spiegarsi, e forse era un po' questo il punto che iniziava a capire. Non sempre si hanno risposte perfette, delineate o quelle che si vorrebbero, non sempre si può essere nel giusto o infallibili e allo stesso modo lui doveva affrontare anche i possibili errori e le variabili.

Nello specifico, quelle che più lo spaventavano: i sentimenti. Ormai sapeva bene che c'era da fare i conti anche con loro. Questi però non li poteva scomporre e analizzare a un microscopio, trattare come elementi che si integrassero nel sistema, perché erano quelli più instabili in grado di mandare a puttane ogni cosa in un battito di ciglia.

La realizzazione, sulla propria pelle, che nulla potesse mai essere veramente sicuro nei rapporti umani... la odiava. No, non la odiava. Gli faceva paura, era diverso. E quando qualcosa lo spaventava, si convinceva di odiarlo per tenerlo fuori da quella sua vita costruita sulla razionalità, sull'ideale della perfezione e sull'essere il numero uno senza potersi permettere distrazioni, cose che sfuggissero dal suo controllo.

Tuttavia reprimere le emozioni non equivaleva ad imparare a gestirle e così, nel tempo, gli era tornato tutto indietro. I suoi problemi di rabbia, il male che aveva fatto e continuava a fare. Era questo il vero fatto che odiava, lui si odiava. Katsuki il migliore del fottuto universo Bakugo era sempre stato bravo in tante cose, tranne questo. Soprattutto se c'era di mezzo una variabile dagli occhi verdi e le costellazioni sulle guance, di quelle incognite incomprensibili che ci sono sempre state, lì insospettate ai margini dell'esperimento e all'improvviso scelgono di stravolgere tutto.

Adesso, prese queste consapevolezze, dopo i casini che aveva combinato poteva fare qualcosa. Se non per rimediare, per essere migliore da lì in poi. Del resto, gliel'aveva detto proprio Deku ciò che aveva ricordato poco prima a suo padre. "Non è mai troppo tardi per cambiare e migliorarsi".

Magari, essendosi reso conto a costo di ferire e ferirsi, era il momento di lavorare sul rendere quelle sue caratteristiche una sua responsabilità e non un vulcano che esplodeva incontrollato e seppelliva con i suoi sentimenti marci tutto quanto, un peso collaterale sulle spalle di chi gli stava intorno, specie di chi gli voleva bene e provava a farlo tutti giorni, a esserci. Era il momento di preoccuparsi davvero per gli altri, se aveva imparato un po' a farlo come aveva detto Eijiro, e di mettersi in pace anche con sé stesso e ciò che provava.

Oh, perfetto, adesso si perdeva a rimuginare anche mentre studiava, completando in modo automatico gli esercizi sui limiti con la testa altrove. Doveva evadere da quelle quattro mura e distrarsi in altro modo, se non voleva uscire pazzo.

Scese furtivo al piano di sotto. La televisione in salotto riproduceva una qualche vomitevole soap opera, a volume basso per non disturbarlo durante il suo sacro paio d'ore di compiti, ma dei genitori non c'era traccia. Pensò che l'avessero dimenticata accesa e non fossero in casa. Papà doveva aver portato la madre a fare due passi o simili cose da vecchi, per anche schiarirsi le idee.

Spense e si spostò all'ingresso con l'intenzione di prendere le sue cose, l'essenziale tra casco e chiavi della moto, e andare a farsi un giro anche lui. Però, prima di passare davanti alla cucina, sentì appena delle voci. Si accostò al muro.

«Ha detto così?»

«Mm-mmh. Ti ho detto, sta bene e con lui sembra tutto a posto. Quanto a prima, non diceva sul serio».

«Lo so. Lo so ma ho sempre l'impressione che... Cazzo».
Immaginò che il rumore fosse la mano della madre che sbatteva sul tavolo, in un gesto di stizza o impotenza, prima di tirare su col naso e sfregarsi gli occhi.
«E se ci ricado davvero? Se rovino ancora tutto? Mi sembra che non sarò mai in grado e... di aver sbagliato ogni cosa con- con Katsuki...»

«Mitsuki, no... Ehi, 'Tsuki. Tesoro, vieni qui».

«No...»

«È tutto ok, su. Così, brava, fai uscire tutto».

Il ragazzo si sporse leggermente oltre lo stipite. Mitsuki protestava ma infine si lasciò accogliere in un abbraccio. Affondò il viso in una spalla del marito e si abbandonò a qualche singhiozzo. «Sono così patetica... e stupida, incapace...»

«Non è vero. Tutto il contrario. Sei diventata una donna e una mamma fantastica, lo sai?»

Masaru continuò ad accarezzarle la schiena e di tanto in tanto sussurrare cose dolci, lei a dirgli di piantarla di esagerare eppure sorrideva. Alzando gli occhi, incontrò quelli uguali ai suoi. E anche Katsuki, osservando di rimando quei lineamenti così simili, rivide un po' sé stesso. Si ritrovò a pensare che la mamma era un essere umano più di quanto mostrava, che fosse coraggioso da parte sua mostrarsi vulnerabile tra le braccia della persona che l'aveva e l'avrebbe sempre amata non importava cosa, e per un attimo che avrebbe voluto lo stesso.

Ma non ci doveva pensare, giusto? Scambiò un ultimo sguardo di tacite scuse con lei, come a dire che nonostante il loro rapporto complicato potevano venirsi incontro piano piano, capendosi a vicenda più di quanto volessero. Senza aggiungere altro, uscì.

Il cane arrivò subito a fargli le feste, appena fu sul vialetto in giardino che conduceva al garage.

«Ehi, Cane».

Era un classico Golden retriever che viveva con loro da una decina d'anni ormai. Bella pelliccia color crema, amichevole, compagno di pomeriggi solitari a giocare, anche se con il tempo era divenuto molesto per la ricerca di attenzioni e con la sua stazza rischiava di spezzargli un osso ogni volta che entusiasta gli saltava addosso.

E sì, l'aveva chiamato Cane.

Per l'appunto, dovette giocarci una buona mezz'ora prima di essere liberato. Si poteva affermare che fosse l'unico essere sulla Terra da cui Katsuki prendesse ordini e non il contrario. Il loro gioco preferito era quando gli gridava arrabbiato «Muori!», quello eseguiva sdraiandosi e si faceva ammazzare di coccole. Tutto ciò sul retro della villetta, dove quel lato tenero del ragazzo non poteva essere visto e dove le sue grida non arrivavano a quei rompicazzo dei vicini perché erano soliti lamentarsi e in passato era anche successo che, pensandole rivolte seriamente a qualcuno, fossero a un soffio dall'allertare le autorità.

Dopodiché, Katsuki prese la moto e partì. Senza una meta precisa, per non sentire altro che il rombo del motore e l'aria addosso.

Ma qualche parte inconscia della sua mente doveva essere ancora fissa sul problema che stava evitando se nel vagabondare finì proprio lì. E doveva anche avere qualche sesto senso o semplicemente senso dell'umorismo storto, se quando parcheggiò per sgranchirsi le gambe vide un'unica sagoma, decisamente troppo familiare.

Era lì.

Rannicchiato su una panchina del parco giochi, chino su uno dei suoi sketchbook. I soliti capelli disordinati scossi dal vento, che portava il profumo dei fiori e i maledetti pollini, il cielo di un blu intenso e persino i fottuti uccellini che cantavano a completare il quadretto. Infine quegli occhi che si incastravano nei suoi, illuminandosi, un lieve sorrisino lentigginoso.

Per tutto il giorno si era detto che non voleva pensarci, a Deku. Eppure, forse, aveva proprio solo bisogno di vederlo. Perché qualcosa tipo il suo cuore fece una capriola, perse un battito o simili stupidaggini. Il senso di oppressione vuota e fastidiosa al petto svanì facendolo tornare a respirare per davvero.

Lo raggiunse incerto al suo cenno. «Oi».

«Ehi. Ciao».

Si sedette sullo schienale della panchina e lo osservò scarabocchiare, per diverso tempo, in silenzio, dopo quell'unico imbarazzante saluto.

Stava scrivendo delle didascalie a dei modellini di personaggi chiaramente ispirati ai fumetti di "All Might". Per quanto negasse di essere un tale nerd, anche il biondo lo seguiva ancora.

Era strano che Deku non parlasse, lui che aveva sempre tanto da rimuginare. Non fu spiacevole e di certo non rimpiangeva i tempi in cui si agitava ad averlo a solo qualche metro di distanza, non in senso positivo. Che fosse calmo in sua presenza, che tutto fosse così tranquillo, era un bene ma Katsuki sentiva di dover parlare come aveva detto Capelli di Merda e chiarire come con papà, anche se non sapeva cosa dire né come.

Si accese una sigaretta.

«Che c'è, nerd?» lo schernì un po' quando soltanto allora lo sguardo tornò incuriosito su di lui «Vuoi? Scommetto che non hai neanche mai provato».

Deku gonfiò le guance. «Kacchan, non trattarmi come un bambino! Non sono così... indietro e inesperto in tutto...»

Mugugnò un «Come dici tu», mentre un'idea prendeva forma nella sua sadica mente. «Allora provalo».

La sfida venne impulsivamente accettata. «Anche subito».

Katsuki sogghignò. Bingo. Sbuffò un ultimo tiro e poi portò la sigaretta alle sue labbra. Gli spiegò come fare, ignorando l'imbarazzo di quel finto innocente per il bacio indiretto. Inutile specificare che fu un completo fallimento. Per un attimo pensò proprio che sarebbe soffocato nel fumo e schiattato lì sul colpo.

«Stavo morendo!» esclamò infatti dopo un minuto buono di colpi di tosse e pacche sulla schiena. «Ma come fate sempre con questa roba!»

«Sei tu che sei un disastro».

Deku gli fece il verso e così si guadagnò un altro pseudo-soffocamento, stavolta per il braccio che gli circondò il collo per tenerlo fermo mentre gli venivano spettinati i capelli.

Rise, in quel suo modo più limpido del cazzo di cielo. E anche Katsuki si sciolse un po'.

«Quindi, che è quella roba?»

«Oh, questi!» si illuminò di nuovo, contento che si interessasse dei suoi sgorbi su carta, e cominciò a straparlare. «È per il concorso di Yagi! Avrai sentito sicuramente anche tu. Per l'ultima selezione bisogna inventare un breve racconto, così sto disegnando diversi personaggi, li vuoi vedere? L'idea di base è che il protagonista viene notato da All Might durante una missione in Giappone e lui decide di prenderlo sotto la sua ala protettrice, facendolo entrare in questa... Accademia per eroi, tipo? Perché praticamente ci troviamo diversi anni dopo gli eventi canon, quando ormai i vigilanti sono eroi a tutti gli effetti che possono operare alla luce del sole grazie al sostegno del governo, ed è appunto una vera e propria professione insegnata nelle scuole e...»

Quanto mai gliel'aveva chiesto. Irritantemente logorroico, eppure quasi... adorabile, con gli occhi che brillavano e le labbra più veloci del dannato Eminem a parlottare delle sue nerdate e viaggi mentali. Si perse a guardarlo senza più far caso a ciò che diceva.

Finché si placò, più che altro per respirare. «In breve è questo. Che ne pensi?»

«Frena, nerd, fin troppe poche informazioni...» brontolò. «Riassumendo, ruota tutto attorno al protagonista sculato in questa accademia, giusto?»

«Sì!»

«Tch, trattieni l'entusiasmo...» Si strofinò teatralmente una mano sulla fronte e sugli occhi, come anche a ripararsi da quella luce. «E come si chiama?»

«L'accademia o la storia in generale? Per l'accademia è divertente, sai? In giapponese "hero" si dice "eiyuu" e invertendo i kanji esce "yuuei"... Come la nostra scuola, Ugolini Amedeo, U.A., pronunciata all'inglese! All Might è ispirato all'America, dove ha anche vissuto per un po', e Yagi ha studiato proprio nel nostro liceo, perciò... Mi sembra un easter egg carino, anche se solo lui può capire. Che coincidenza vero? Per la storia, invece, pensavo qualcosa di semplice come "All Might's successor"... "All Might Junior", magari? "Mini Might" o... Kacchan? Tutto bene?»

Non ce la fece più. «Sul serio, Deku?!» Scoppiò a ridere, piegato in due sulla panchina tappandosi inutilmente la bocca. «I soprannomi inventati da piccoli...»
Merda, come gli era uscito così nostalgico? Doveva essere stata la chiacchierata col vecchio.
Sorvolò sul suo stupore. «È basata su quella scuola per eroi e vuoi un nome inglese, giusto? Chiamala "My Hero Academia" o qualcosa del genere».

«Oh, è un'idea bellissima! Veramente, mi piace!»

«Ovvio che lo è» mormorò solo, intanto che lui scorreva le pagine del notebook per arrivare a quelle iniziali e segnarselo. «Ma dai» sentenziò quando l'occhio gli cadde sul primo disegno «È palesemente Faccia Tonda quella».

«Ah, sì». Il ragazzo dai capelli verdi si tirò su, perché se non scriveva appiccicato al foglio spaccandosi i maledetti occhi non era contento, e si massaggiò la nuca. «Diciamo che ho preso ispirazione dalla nostra classe, per creare quella della storia. A ognuno ho assegnato un potere e un costume particolare...»

Faccia rotonda, guance rosse, sorriso entusiasta: c'era tutto del Kirby. Ed era proprio tutta tanto rotonda, in quel vestito rosa attillato, che evidenziava fin troppe curve...
«Ah, sì» lo scimmiottò. «Allora è così che la vedi».

Deku prese fuoco. «No, non è...! Ti sbagli! È che ogni shōnen che si rispetti deve avere una waifu e ho pensato che lei fosse perfetta per quel ruolo e...» Stava facendo tutto da solo. «Come i rivali, naturalmente! Eccoli...» Girò furiosamente le pagine, fino a trovare ciò che cercava.

Katsuki finse di lasciar perdere, mentre lottava per non scoppiare ancora. «Non ci credo». Si ritrovò davanti un ragazzo slanciato e dal design accattivante, sui colori del bianco e del rosso, che produceva ghiaccio da una parte e fiamme dall'altra. «Bastardo a Metà. Letteralmente».

«Sì, Shoto! Gli ho dato un doppio quirk e ho anche ottenuto il permesso di usare la vera storia della sua famiglia, rivisitata, per parlare del lato più negativo della società degli eroi».

«Sul serio... Altro che breve racconto, sarà una storia infinita».

«Ammetto che mi sono fatto prendere e sta diventando un po' lungo e complesso... È che ogni dettaglio mi sembra importante!»

Si lasciò sfuggire un sorriso idiota, contagiato dall'espressione sognante che non l'aveva mai abbandonato da quando erano bambini. «Sarà il manga del secolo, cazzo».

«Magari! "My Hero Academia" sugli scaffali delle librerie, ti immagini?»

«Farà miliardi. Vorrò una percentuale per il nome».

«Ovviamente, e ti menzionerò ogni volta nei ringraziamenti».

«Col cazzo, in copertina come minimo».

Deku rise ancora. Si fece più timido, dopo, riprendendo a scorrere le pagine. «A proposito di rivali, lui è il più importante...»

Katsuki sentì gli occhi verdi addosso tutto il tempo, a scrutarlo per carpire ogni reazione senza stavolta avere il coraggio di chiedere cosa ne pensasse.

Quello che adesso aveva davanti era chiaramente sé stesso in versione eroe. Estremamente cazzuto, con delle statistiche altissime e mille altri dettagli appuntati ovunque più di qualunque altro bozzetto. Aveva il quirk Esplosione e un costume che Deku doveva aver pensato fino alla morte, stando a tutte le cancellature e i segni sbiaditi sotto, e gli ricordò tanto quei disegni che facevano da piccoli, soltanto molto migliore.

«È... Figo» disse solo. Dannatamente riduttivo.

Risollevò lo sguardo in tempo per vederlo sorridere stupidamente felice prima che riabbassasse la testa.

«Vero, Kacchan è proprio un figo» ridacchiò. «Il problema è il protagonista. Ancora mi sembra che gli manchi qualcosa per renderlo interessante, sai, speciale».

«Che saresti tu ma più depresso» specificò il biondo, mentre il disegno veniva sottoposto ai suoi occhi critici.

«Tipo».

«Meh. Da' qua». Senza aspettare, gli sottrasse la matita e cominciò a cancellare e ridisegnare.

«Kacchan, aspetta, non me lo rovinare...» Deku si lamentò, all'inizio, e si protese per riprendersi lo sketchbook, ma si fermò a osservare rapito mentre le modifiche prendevano forma. «Oh. Sei bravo».

«Avevi dubbi? E non sbirciare!»
Glielo sbatté in testa e terminò. Sistemò le proporzioni e il corpo di quella specie di ragazzo emo troppo mingherlino. Eliminò i capelli scuri che gli cadevano su un occhio e li fece più ribelli. Rese gli occhi più grandi e profondi, disegnò un'espressione irritantemente felice e un sorriso contagioso, e infine quattro puntini per lato sulle guance.
«Toh» glielo rilanciò contro. «È abbastanza speciale per te?»

«Oh...» Deku rimase un po' a rimirarlo. Come se non si capacitasse che Katsuki avesse, in fondo, quella visione di lui. «Quindi... Per te lo è? È speciale?»

«È quello che ho detto». Viso appoggiato su un pugno e girato dalla parte opposta, finse noia o che l'anziana che passava per la strada poco lontana con il cane fosse interessantissima, per dissimulare il disagio che gli colorò le punte delle orecchie non appena realizzò che non stavano esattamente parlando del bozzetto.

«Capisco... Grazie» pigolò piano. «Sei carino quando cerchi di flirtare con me, Kacchan».

«Hah?!» Katsuki si voltò di scatto. Stronzetto impertinente... Era per vendicarsi dello scambio di prima su Faccia Tonda, ma così non valeva! Se la rideva pure! «Io non sto...! E hai iniziato tu! Sei tu quello che flirta sempre con me e con tutti. O ti devo ricordare di ieri?»

Fu il momento di Deku di arrossire e boccheggiare. «Sei ingiusto, quello non c'entra! Ochako e gli altri mi hanno raccontato... Non ero in me! Mi sono già scusato con tutti e-»

Soffiò un'altra risata. Stavano sul serio litigando per quello?
«Ti prendo in giro, nerd».

Gli regalò un pugnetto sulla spalla, che fu ricambiato. Andarono avanti a farsi piccoli dispetti, mentre l'imbarazzo scemava.

Sembravano tacitamente d'accordo sul tralasciare l'argomento, per ora, perciò ripresero a discutere del progetto di Deku.

Sul versante narrativo mancava solo il pretesto per far avvicinare il protagonista ad All Might. Approdarono all'idea che fosse lui stesso a donargli un quirk dopo qualche sua impresa che dimostrasse che fosse un vero eroe, o qualche stronzata da shōnen simile, e Katsuki suggerì che salvasse il rivale. Ormai il confine, il limite, tra parlare della storia inventata e di loro due anche se indirettamente era sottile. Per adesso, era ok così. Perché aveva davvero solo bisogno di vederlo e passare del tempo insieme anche a fare nulla. Anche soltanto a battibeccare per cose stupide, a sognare come da bambini, senza finire a litigare e distruggersi a vicenda come sempre, a farlo sorridere.

Discussero fino a perdere la cognizione del tempo, creando quello che anni dopo sarebbe diventato effettivamente un fumetto e un anime a quattro mani capace di superare persino "All Might". Ma pure questa è un'altra storia.

Finché una, due gocce caddero a bagnare i fogli e le loro teste e in breve si trovarono sotto a uno scroscio di temporale primaverile. Come se una nuvola avesse deciso di scaricarsi proprio sopra le loro sfigate teste. Katsuki iniziava a vederci un loop strano e ad odiare che quando faceva apprezzamenti mentali al cielo finiva sempre male.

«Sul serio? Fanculo!»

Continuò a imprecare mentre si spostavano sotto all'albero più vicino, in attesa che passasse. Maledette previsioni che non davano pioggia e maledetto parco che non aveva nemmeno una cazzo di tettoia.

«Kacchan, me li tieni?»

Neanche il tempo di elaborare, Deku gli aveva rifilato in mano il quadernino e l'astuccio e aveva mosso qualche passo. A farsi la doccia completamente sotto alla pioggia, con braccia aperte e lingua fuori a prenderla tutta addosso.

«Cazzo fai, coglione?»

Vedere la sua espressione accigliata, se non scioccata, sembrò non far altro che divertirlo di più. Rise e fece una piroetta. «Mi piace la pioggia!»

«Sono solo particelle di vapore acqueo che si staccano dalle nubi per condensazione».

«Cinico. Così togli tutta la magia. È così bella! E buona!»

«È odiosa e fa schifo, chissà quanto sarà inquinata».

«Ma a me piace la pioggia» ripeté piano. «È come se il cielo piangesse con te».

Fu allora che Katsuki capì di essere fottuto.

Così si disse guardando Deku ormai fradicio da capo a piedi, che si voltava con il suo sorriso impacciato di quando diceva qualcosa strana delle sue in cui però credeva fermamente, che sapeva essere così fragile e così vero insieme da fare male.

L'aveva già pensato, mesi prima, in una situazione simile proprio in quel parco quando in un certo senso era cominciato tutto tra loro, o meglio era ricominciato perché erano legati, in realtà, da sempre e per sempre. Da quando andavano allo stesso asilo o giocavano lì, o da quando le loro mamme li portavano nei passeggini, oppure addirittura nei loro grembi, prima ancora di nascere.

Era questa la sua più vera e profonda paura: dipendere così tanto da una persona e non saperlo dimostrare. Perché non credeva nel destino ma in quel momento un po' sì, e non era solo uno stronzo se da quell'inverno tutto l'aveva condotto a vivere quell'istante. A vivere, anche soltanto guardando, Deku che era... semplicemente bellissimo.

Capì di essere fottuto anche quando quello, approfittando della sua temporanea trance, lo afferrò per le braccia via da sotto l'albero, a bagnarsi interamente anche lui.

«Deku! Ti uccido bastardo!» urlò con tutto il fiato che aveva in corpo prima di iniziare a rincorrerlo.

Smise presto, tra le risate cristalline di lui e la stanchezza. Forse erano ancora gli effetti della festa, forse il pianto e lo sfogo a casa, forse il peso, nonostante quel pomeriggio che lo aveva alleggerito, di tutte le parole non dette.

Si fermò al centro del parco. Deku smise di scappare e gli andò incontro. Si riavvicinò lentamente, timido ma sicuro. Con un gesto delicato gli scostò i capelli appiccicati alla fronte e che gli finivano negli occhi, ancora con un accenno di sorriso divertito. Katsuki lasciò che vi si appoggiasse, dopo aver allacciato le braccia attorno al suo collo. Fu legato a sé e si guardarono e basta. Smeraldo che si perdeva nel caramello e caramello nello smeraldo, come se fosse la prima volta.

«Sono felice, Kacchan» Izuku spezzò l'infinito silenzio fatto dal sottofondo dello schiantarsi delle gocce sull'erba e dei loro respiri uno contro l'altro. «Di essere qui, così, ora, dopo tutte le cose belle e brutte che ci hanno portato ad adesso. Non cambierei nulla. Perché ci ho messo troppo ma ho capito. L'ho fatto per tutta la vita fino a non rendermene più conto, mi sono comportato da stupido anch'io e probabilmente, no sicuramente, non sarà mai facile, però... Non importa cosa accadrà. Niente mi farà smettere di amarti, mai».
Sorrise ancora in quel modo da contorcere lo stomaco, di fronte agli occhi che non poterono che fissarlo sgranati.
«Scusa, non volevo dirtelo così. È che non posso più trattenerlo. Ti odio e ti amo... So che ti fa paura e non pretendo che provi lo stesso o stai ai miei tempi, perciò... Non mi serve una risposta. Già ce l'ho in fondo. Sei tu. E qualsiasi cosa sarà io ti aspetterò. Come ho sempre fatto e sempre farò».

Nella testa di Katsuki era tutto così surreale. Rimase imbambolato, quasi in apnea a guardare il ragazzo che diceva ancora qualcosa, del tipo che a questo punto conveniva tornare a casa approfittando che si era calmato un po', e si spostava a recuperare le sue cose. L'unico suo pensiero era che non riusciva a capacitarsi.

Non si capacitava di quei sentimenti che gli aveva riversato addosso, al solito un fiume in piena con tutta l'ingenuità e la sincerità del mondo, ironicamente simile a quel breve temporale.

Non si capacitava che non si era arreso e mai lo avrebbe fatto con lui. Che lo avrebbe accolto anche quando si permetteva, poteva permettersi, di essere fragile e che gli si poteva affidare sempre. Come i suoi amici, ma lui gli voleva più che un bene fraterno. Perché Katsuki Bakugo, il più egoista di tutti, in realtà non aveva mai amato davvero sé stesso e forse mai ci sarebbe riuscito, avrebbe continuato a odiarsi per molte cose, eppure aveva accanto qualcuno che lo amava davvero.

Non si capacitava e lui che non si faceva mai trovare impreparato di fronte a niente non era pronto a dire un semplice "Anch'io, anche per me è lo stesso ma sono un coglione e non lo dimostro, perché certe volte va bene come oggi e altre male, ti faccio soffrire e non voglio". Però, anche se si odiava ancora un sacco, se gli aveva detto così non doveva essere soltanto un pezzo di merda e basta, giusto? E soprattutto voleva impegnarsi per non esserlo più, per essere migliore pur tra tutti i suoi sbagli.

Deku tornò indietro con stretti al petto i suoi averi, diretto all'albero dove aveva lasciato lo zainetto giallo. Non diceva nulla, sorrideva sereno. Come ad accettare il suo silenzio e come se non gli importasse. Non nel senso che non gli interessava cosa pensava ma che andava bene così perché quel sentimento bastava a tenerlo vivo e lo rendeva felice e allora, allora Katsuki era un po' felice anche lui sapendo che, in qualche modo, ne era la causa e avrebbe voluto continuare a esserlo e viceversa.

Lo trattenne per il polso, prima che muovesse gli ultimi passi verso l'uscita del parco. Senza dargli il tempo di elaborare, lo avvolse tra le sue braccia.

Ci fu il rumore di tutte le sue cose che cadevano a terra, del suo respiro che si mozzava. Poi, una risata, la più bella risata che avesse mai sentito e un mormorio mentre con quel suo fare goffo ricambiava.
«Non mi avevi mai abbracciato così, Kacchan. È bello».

Stupido, patetico, imbarazzante Deku. Strinse un po' di più.

«Vuoi rimanere così ancora un po'? Due minuti. Anche se piove e tu odi la pioggia?»

Stava tentando di sciogliere la tensione, Katsuki sentiva bene il cuore che gli scalpitava nel petto e si confondeva altrettanto con il suono del suo. Si limitò ad annuire, affondando la testa nell'incavo del suo collo, inspirando il suo profumo che sapeva di casa e stringendo forte per comunicare ciò che non riusciva.

Doveva, voleva dirgli così tanto. Aveva sbagliato tutto con lui venendo perdonato troppe volte. Anche lui era contento ma era brutto come erano arrivati lì e aveva paura di ripeterlo di nuovo, non riuscire ad essere mai felici. E un pochino forse lo amava pure lui, anche se dell'amore non sapeva niente e non si sentiva ancora in grado di gestire tutto.

«Mi dispiace». Un sussurro, due banali parole ma non per loro.

Ancora non poteva ricambiare la dichiarazione, ma questo era anche più importante. Era ciò che aveva sempre pensato per tutta la vita e avrebbe dovuto dirgli tempo prima però non aveva mai trovato il coraggio, preferendo altri modi sbagliati e allontanarlo per le sue insicurezze quando adesso che lo aveva vicino stava così bene.

Non che volesse essere perdonato o cancellare tutto. Quello faceva e sempre avrebbe fatto parte della loro storia. Ma accettando di lavorare insieme a lui, accettando la sua mano, forse poteva raggiungerlo e ricostruire qualcosa di positivo da quelle loro fondamenta. Anzi, più macerie del loro personalissimo gioco al massacro, fatto di Deku che aveva lottato con le unghie e con i denti fino a sanguinare per fare breccia nel suo muro e demolirlo una volta per tutte e di Katsuki che solo allora aveva la forza di uscire, di essere vulnerabile e di stare con lui davvero. Anche se ancora non sapeva come fare, anche se non c'era nessuna certezza matematica nel loro rapporto matematicamente impossibile, nelle loro variabili, nella loro reazione chimica tendenzialmente distruttiva ma inevitabile e necessaria.

Quel momento, in quello stesso parco che li aveva visti crescere senza mai separarsi veramente e sotto quella pioggia, poteva essere la loro fine e un nuovo inizio. Insieme. Loro due. Non Izuku e Katsuki, ma "noi".

«Mi dispiace» ripeté con voce flebile e rotta. «Izuku, mi dispiace per tutto».

«Lo so, Kacchan. Va tutto bene».

Quando era lui a dirglielo, ci credeva un po' di più.

Deku si staccò, solo per tornare a guardarlo in viso. Gli asciugò le lacrime e sorrise dolcemente. Infine, gli tese una mano. «Andiamo a casa?»

Per la prima volta, Katsuki Bakugo raccolse il coraggio per afferrare quella mano davvero, e non lasciarla mai più. Sapendo che, ovunque l'avrebbe trascinato, la sua casa sarebbe per sempre stata il suo Izuku.

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