1.0│Il Natale rende rammolliti
[ NdA ] Sapete che questa storia non segue propriamente gli eventi dell'anime, fa solo riferimenti velati, e non contempla spoiler del manga, ma meglio specificare: questo capitolo potrebbe contenere uno spoiler dell'episodio 05×19.
Dico potrebbe perché non so se è da considerarsi tale:
1) Al momento (estate 2022) è passato un anno dalla messa in onda e so che sta uscendo anche doppiato in italiano in tv - così diffondiamo un po' il verbo del doppiaggio ita in generale, ma gli scleri li lascio alla bacheca che se li metto anche nelle storie ciao.
2) Si accenna a un personaggio che compare solo una volta, in occasione di quell'episodio appunto, e per come è descritto qui non spoilera nulla sul seguito della storia di Horikoshi sensei.
3) Credo che questa cosa ormai la sappiano tutti lol, grazie agli spoiler e alla ship poco nota che ne è nata ma una delle più normali e sensate che questo fandom ha saputo partorire.
In sintesi, secondo me non si tratta di uno spoiler vero e proprio e chiunque può leggere in serenità. Anche se non siete in pari con la serie, sapere o meno dell'esistenza di questo personaggio non vi cambia niente. Qualcuno più accorto avrà già capito a chi mi riferisco, quindi mi taccio. Mi sembrava corretto avvisare, tutto qui. Buona lettura!
☆
Dicembre: l'ultimo mese del calendario, in cui si tirano le somme dell'anno trascorso e si progetta il successivo, in cui già si respirano l'imminente inverno e l'atmosfera natalizia, in cui le città si decorano e illuminano di mille colori in vista delle feste e le case si riempiono di calore umano.
Ecco, Shota Aizawa odiava dicembre.
Certo, non gli dispiaceva passare i weekend spaparanzato sul divano, al calduccio sotto una coperta intanto che fuori pioveva, a correggere qualche compito dei suoi studenti mentre sorseggiava una tisana bollente o coccolava uno dei numerosi gatti che affollavano il suo modesto bilocale. Ma le canzoni, i film smielati e le pubblicità sul Natale, le cene dai pochi parenti e amici con cui non aveva tagliato i ponti, le iniziative della scuola come le pizzate di classe e la festa di fine anno... No, tutto questo proprio non lo digeriva.
In quelle quattro settimane scarse di lavoro altresì note come dicembre che lo separavano dalle agognate ferie, le rughe d'espressione sulla sua fronte si facevano più evidenti, si presentava a scuola ancora più trasandato del solito e trangugiava il doppio delle tisane per sopravvivere agli schiamazzi eccitati degli studenti nei corridoi e alle conversazioni con i colleghi, che di contro gli ricordavano la sua disperata condizione di trentatreenne frustrato e già stanco della vita. Non a caso si era guadagnato la fama di Grinch del liceo U.A.
L'unica sua consolazione era tartassare gli studenti con interrogazioni e verifiche a sorpresa con la scusa delle vacanze in arrivo e dei terribili voti a cui dovevano rimediare entro la fine del quadrimestre.
«Hai ancora quel cipiglio in faccia».
Il pomeriggio del penultimo giorno di scuola, Shota stava ritirando dal suo armadietto in sala professori le ultime scartoffie da portarsi a casa per le vacanze, quando fu interrotto da una voce familiare. Spostò pigramente lo sguardo all'ingresso della stanza, dove il collega e amico Yamada Hizashi stava appoggiato allo stipite della porta, braccia incrociate e solito sorriso scherzoso sulle labbra sovrastate dai suoi ridicoli baffetti biondi.
«È diventato perenne, per caso?» riprese quello a stuzzicarlo. Adorava mettere alla prova quella sua facciata stoica che si dipingeva addosso ogni mattina, unico modo, insieme alle amate tisane, per superare la giornata.
«Può darsi. Sai, si attiva quando percepisco degli idioti nei paraggi» borbottò in risposta, la voce strascicata e poco chiara, camuffata dalla sciarpa grigia tirata su fino alla bocca sebbene il riscaldamento all'interno dell'edificio andasse a meraviglia. Una delle poche cose che funzionasse a dovere in quella scuola.
Yamada sentì comunque e si fece una grassa risata. Eppure lo aveva appena offeso, intenzionalmente. «Peccato, non rende proprio giustizia alla tua bellezza».
Shota sbuffò e si portò con fare drammatico una mano al viso, già esasperato dopo neanche due minuti di discussione, il che del resto non era una novità. «Yamada, non è il caso, siamo a scuola. Dimmi cosa vuoi e basta».
Lo conosceva bene e, anche senza questo presupposto, era palese che quando si comportava così voleva qualcosa. Lo faceva anche con gli altri colleghi. La differenza era che non li prendeva per il culo e di certo non parlava con loro così. Era estroverso e spigliato ma non fino a quel punto. Forse.
Da parte sua, Shota non parlava tanto con gli altri. Era già molto se si scambiavano il buongiorno. Se loro due potevano discutere così, almeno quando erano soli, era in virtù di un legame pluridecennale sorto ai tempi di quando erano loro ad essere al liceo, dall'altra parte della cattedra. Più che altro erano stati il biondo e un altro compagno, Oboro Shirakumo, a insistere ad essere suoi amici, nonostante all'inizio li trattasse con indifferenza, e così piano piano ne era nata una bella amicizia fino a diventare inseparabili. Fino all'incidente, a quel maledetto incidente di quindici anni prima.
«Ti assicuro che non sto cercando di estorcerti informazioni o altro stavolta» l'amico lo riportò alla realtà «Andiamo, non posso neanche farti un complimento? Preferisci che ti chiami Grinch?»
Sbuffò di nuovo e continuò a frugare nell'armadietto, anche se in realtà non doveva cercare altro, solo per avere una scusa per evitare il contatto visivo. «Beh, sì, perché è quel che sono».
«Hey, no way man, non dire così!» esclamò l'altro, non potendo evitare di infilarci espressioni inglesi come al suo solito. Dopotutto era insegnante di inglese e aveva vissuto una decina di anni a Londra.
«È vero, sei testardo e burbero, non ispiri simpatia, ti fai temere e non solo dagli studenti. È vero, hai diversi traumi alle spalle che ti rendono un inguaribile nichilista, un gattaro dipendente dalle tisane e un quotidiano cosplayer di un barbone. È vero, ti atteggi a complessato e hai l'anima di un novantenne intrappolata in un corpo di trentatré anni. Che non valorizzi abbastanza, in my opinion. E-»
«Puoi saltare la parte in cui mi insulti e arrivare al dunque?»
Yamada ridacchiò. Portò una mano ad aggiustarsi gli occhiali rettangolari, rigorosamente con dettagli dorati perché se non era abbastanza appariscente non era contento, e gli posò l'altra sulla spalla. «Sai come si dice: ma hai anche dei difetti. Il dunque è che in fondo sei una buona persona. Come on man, su con la vita!»
Shota lo guardò dubbioso. Consolare le persone non era mai stata la sua specialità e a volte le sue capacità di conversazione sembravano regredire a quando aveva la metà degli anni. La sua essenza era quella di un eterno bambino, come Peter Pan. In ogni caso, riconosceva i suoi sforzi. Sapeva che avere a che fare con sé stesso non era facile e non faceva il minimo sforzo per renderlo tale.
Così alla fine si abbandonò a un minuscolo sorriso. «La fai facile tu. Dai, dobbiamo andare alla riunione».
Yamada stranamente non infierì e lo affiancò per raggiungere l'aula della 5ªA dell'indirizzo classico.
Il mattino seguente, ultimo giorno di scuola di quell'anno infernale quanto i precedenti a cui era giunto vivo per miracolo, Shota passava per una delle entrate secondarie dell'istituto quando si imbatté proprio in alcuni studenti della classe che lo aveva fatto tanto penare al consiglio del pomeriggio prima.
«Buongiorno prof!» Kirishima fu il primo a salutarlo, vivace come sempre, ma anche con la voce più alta di qualche ottava. Aveva un braccio attorno alle spalle di Bakugo e tolse la mano dalla sua bocca solo per farlo parlare. Cosa che non avvenne, perché il biondo si limitò a rivolgere all'insegnante uno sguardo di sfida.
Se Kirishima era vagamente allarmato, lui non si preoccupava neanche di inventarsi una scusa. Il fatto era che poco prima l'amico gli si era avvicinato da dietro di soppiatto e gli aveva appoggiato sul collo scoperto le dita di una mano. Dovevano essere gelide, data la temperatura. Quella notte aveva persino nevicato un po' e per le strade della città erano rimasti dei residui di neve, nel giro di poche ore già anneriti dallo smog. Comunque, Bakugo non aveva trattenuto una delle sue potenti bestemmie, facendosi sentire nel raggio di almeno un chilometro.
Anche Shota, ovviamente, aveva sentito anche se era lontano, grazie ai suoi sensi affinati in anni e anni di lavoro e verifiche in classe a sorpresa. Tuttavia decise di fingere di non essersene accorto. Bakugo non meritava attenzioni per quello, se le voleva doveva sudarsele in altro modo. Essendo una persona intelligente, pure se quella facciata da teppistello arrogante a volte lo faceva dimenticare, lo aveva capito anche lui, infatti lo sguardo provocatorio si trasformò in omicida. Avere a che fare con quel ragazzo continuava a essere difficile anche dopo tutto quel tempo.
«Cosa ci fate qua fuori?» brontolò invece. Non voleva dare l'impressione che si stesse preoccupando per i mocciosi, per il freddo e tutto il resto, perciò lo disse come un rimprovero.
«Aspettiamo Kyoka» rispose subito Kaminari con fare ovvio.
«Potete aspettare i vostri compagni anche dentro».
«Abbiamo paura che si presenti a scuola ma scappi all'ultimo secondo» intervenne Ashido, con la sua voce squillante che ogni volta rischiava di recargli un trauma acustico, nonché diverse grane durante le gite scolastiche presso i musei. «Sa, per l'ansia da palcoscenico. Non sarebbe la prima volta».
«Dovreste avere più fiducia in lei. Non è il tipo da abbandonare gli amici in difficoltà, no?»
Sopresi, non poterono che annuire. Era raro che si immischiasse nelle faccende personali dei suoi studenti. Con quella classe però era diverso, per vari motivi, dall'enorme quantità di tempo che passava con loro alla facilità con cui si immedesimava in alcuni.
Una di essi era proprio Jiro. Si sentiva affine a quella ragazza problematica, un ammasso di fragilità nascoste da una maschera di sarcasmo. Ma, che fosse per il concerto di fine anno o altre piccolezze, non avrebbe lasciato i propri amici nella merda, dato che la sperimentava personalmente ogni giorno.
Il discorso cambiava se era lei ad avere bisogno di aiuto: si poteva star certi che non avrebbe mosso un passo, anzi ne avrebbe compiuti diversi all'indietro. Come quando al terzo anno si assentò continuamente per delle visite mediche, che alla fine le diagnosticarono la bulimia, e fece rimanere il tutto tra lei e i professori, senza parlarne nemmeno agli amici più stretti.
«Adesso sta un po' meglio, prof».
Si accorse che il suo sguardo si era perso nel vuoto solo quando Kirishima gli rivolse quelle parole, il solito sorriso rassicurante, come se lo avesse letto nel pensiero nonostante fosse così bravo a celare tutto dietro al cipiglio severo.
Aveva notato fin da subito, ai tempi della prima superiore, la sua spiccata intelligenza emotiva, simile a quella di Ashido. Per questo aspetto non erano cambiati di una virgola ed era una fortuna per i restanti membri del gruppo che, chi più e chi meno, ultimamente erano un po' tutti allo sbando. Gli ricordavano Oboro, anche lui collante perfetto della sua compagnia del liceo.
«Anche lei la trovo meglio, prof!» Kaminari interruppe il suo ennesimo viaggio mentale. In quel periodo dell'anno, come una maledizione inestinguibile, il suo pensiero tornava spesso all'amico di gioventù.
«È più elegante. Sta bene così» continuò quell'impertinente, con la mano portata al mento come se fosse un vero intenditore di moda e Ashido accanto a lui che lo assecondava annuendo con forza. Kirishima, da parte sua, tratteneva invano una risata, mentre Bakugo borbottava di smetterla di fare i leccaculo.
«Kaminari, Ashido» l'insegnante li richiamò dopo un respiro profondo. «Non vi alzerò i quattro in greco e latino».
La ragazza protestò che non lo stavano assolutamente dicendo per quello ma perché era un dato di fatto, al che la liquidò con un gesto della mano e intimò di nuovo loro di entrare. Tutto perché Yamada lo aveva convinto a prendersi un po' cura di sé stesso, tipo facendosi la barba e indossando qualcosa di più decente rispetto alle sue tute nere, in vista dei festeggiamenti di quel giorno.
Comunque era convinto che quei due avrebbero fatto strada nella vita, con quella loro spigliatezza. A scuola facevano pena e tutti gli anni si salvavano le chiappe dalla bocciatura per un soffio, ma la carriera scolastica non era tutto. I voti, la svogliatezza nello studio, i disturbi di apprendimento non li definivano unicamente come persone, poiché gli esseri umani sono estremamente complessi.
Solo di recente Shota si era reso conto che era proprio questo ciò che più gli piaceva del suo mestiere. Per anni si era chiesto perché aveva intrapreso quella carriera, quando aveva la risposta esattamente sotto gli occhi. Non perché, con due lauree in Lettere Classiche e Filosofia in mano, era l'unica alternativa a lavorare al Mc Donald's, non per fare sfoggio delle proprie conoscenze, niente di tutto questo: erano gli studenti, il motivo. Conoscerli nella loro complessità, con tutti i problemi che degli adolescenti possono trascinarsi dietro, esserci nei momenti belli come in quelli difficili, e infine vederli uscire dal loro bozzolo, mettere le ali e spiccare il volo. Come delle bellissime farfalle, con la differenza che sperava sopravvivessero più di un paio di giorni nella vita vera.
Insomma, pur rimanendo il solito cinico e pessimista e pur affermando il contrario, si stava davvero innamorando del suo lavoro. Accidenti, quanto si stava rammollendo. Qualche anno prima non si faceva scrupoli a far piovere insufficienze e a bocciare più gente possibile e adesso, invece, si ritrovava in questo stato, ad affezionarsi a quella classe di piccoli scapestrati.
Iniziava persino a capire Toshinori Yagi e la sua insistenza a tenere almeno una conferenza all'anno nella loro scuola, come durante le prime due ore di quella mattina. Anche a lui stavano a cuore i ragazzi.
Il rapporto con quel fumettista di fama internazionale non era cominciato nel migliore dei modi, doveva ammetterlo. Le prime volte che dovevano per forza interagire in occasione di incontri simili, era palese che non si stessero simpatici e finivano sempre per avere qualche screzio tipo riguardo al rapporto tra arte e filosofia.
Erano un po' come Voltaire e Rousseau, i due filosofi illuministi che se ne dicevano di ogni andandoci anche pesanti, ma continuavano a condividere il rispetto reciproco e l'obiettivo di rischiarare le menti delle persone attraverso i lumi della ragione. Ecco, anche lui e Yagi, divergenze di opinione a parte, si stimavano e si dedicavano allo stesso ideale di trasmettere dei valori agli studenti, donne e uomini di domani, l'uno disegnando e l'altro insegnando.
Dopo la sua conferenza, durante la quale un esemplare di Midoriya in versione fanboy monopolizzò le domande, ci fu una pausa, in cui Shota ci scambiò qualche battuta, e poi arrivò il momento del famigerato concerto di Natale.
Vi parteciparono diverse classi e a chiudere fu proprio l'assortita band della sua 5ªA composta da Jiro, Kaminari, Tokoyami, Yaoyorozu e Bakugo, con tre canzoni: una natalizia riarrangiata in chiave meno stucchevole, poi una prepotentemente rock e l'ultima... Oh, l'ultima. Appena sentì le note iniziali, a Shota venne un tuffo al cuore.
"Wind of Change" degli Scorpions.
Si sentì catapultato indietro nel tempo, alla sua adolescenza. Sembrava che Yamada, anche responsabile dei corsi di musica, avesse fatto apposta a scegliere quel brano, colonna sonora dei loro anni migliori, di quando Oboro era ancora lì con loro, e anche di quando avevano dovuto fare i conti con la sua prematura scomparsa e quella canzone lo cullava nei pomeriggi che passava depresso in camera a fissare il soffitto e piangere di nascosto.
«The future's in the air
I can feel it everywhere
Blowing with the wind of change
Take me to the magic of the moment
On a glory night
Where the children of tomorrow dream away
In the wind of change»
Erano così giovani, allora, avevano tutta la vita davanti. Fino a quella fredda sera d'inverno di quindici anni prima.
Dopo averlo portato a casa da un'uscita con Yamada, Oboro aveva un incidente. Un frontale con un'altra auto che viaggiava in contromano. La sua breve vita da diciottenne era stata stroncata da un maledetto pirata della strada.
Era morto sul colpo e con lui morirono anche la la sua capacità di far ridere gli altri nelle avversità e il suo sogno di diventare un poliziotto per essere una specie di eroe. Lo era già stato a tutti gli effetti, un eroe, almeno per Shota, anche se si illudeva che avrebbe continuato ad esserlo per molto di più. Era grazie a lui che stava imparando ad aprirsi timidamente al mondo con più ottimismo, e senza il suo esempio non sapeva più come fare.
Quando gli era sbattuta in faccia la cruda realtà, si era chiuso in sé stesso e aveva passato un periodo completamente segregato in casa, a rimproverarsi e dannarsi. Se solo non avesse accettato il suo passaggio, se solo non gli avesse suggerito una scorciatoia per il ritorno, se solo fossero partiti un singolo minuto prima o dopo...
Anche Yamada aveva risentito tanto della perdita. Ma lui era il tipo di persona che non palesa quanto sta male e preferisce fuggire, infatti dopo il diploma era partito subito per l'Inghilterra. Da parte sua, Shota aveva iniziato a cercare risposte nella filosofia. Solo anni dopo i due superstiti del gruppo distrutto si sarebbero ritrovati, nello stesso posto di lavoro. E si sarebbero accorti che il dolore non solo non era passato, nemmeno si era ridotto. Era sempre lì quel vuoto paradossalmente pesante come un macigno e ci sarebbe sempre stato. Una mancanza impossibile da accettare che li avrebbe uniti in eterno, più di qualsiasi altra cosa.
Lo Shota adulto si ritrovò con le speranze sgretolate e la vita ridotta in pezzi impossibili da rimettere insieme, come i cocci di un vaso rotto. Però bisognava comunque andare avanti. Lo doveva ad Oboro. Non poteva riunire i cocci a ricreare il sé stesso precedente, ma poteva usare i pochi rimasti e, zoppicando e arrancando, cavarsela anche così. Doveva almeno provarci. Non buttare la propria vita, valorizzarla, rendersi utile alla società anche al posto dell'amico era ciò che lui avrebbe voluto.
«The wind of change blows straight
Into the face of time
Like a stormwind that will ring
The freedom bell for peace of mind
Let your balalaika sing
What my guitar wants to say»
La voce angelica di Jiro, così pura eppure rotta e partecipe, l'assolo di chitarra di Kaminari, il resto della band che suonava e tutti gli studenti nell'auditorium che prendevano a ondeggiare le braccia all'ultimo ritornello... Faceva così male e allo stesso tempo così bene. Cantavano il vento del cambiamento che si percepiva negli anni Novanta facendolo proprio, rendendo quella canzone un inno al loro, di cambiamento. Quello dell'anno venturo, dei loro ultimi mesi di liceo, dell'imminente svolta nelle loro vite. E in quel momento al ricordo della sofferenza si affiancò un'inedita nota positiva. Gli tornò la speranza e non desiderò altro che il meglio per loro, per tutti i suoi pulcini ormai cresciuti della 5ªA.
«Buon Natale, Shota».
Una mano che all'improvviso si posava sulla sua spalla, uno sguardo intenerito.
Solo allora Shota si accorse di avere gli occhi lucidi. «Bel regalo del cazzo, Yamada» fu l'unica cosa che farfugliò, preso alla sprovvista. Si staccò dal muro dove il collega lo aveva raggiunto, di preciso nell'angolino in fondo alla sala perché odiava gli eventi collettivi e stare al centro dell'attenzione. Gli piaceva proprio metterlo in difficoltà, ma sapeva anche che non era il suo vero scopo, quella volta. Perciò, prima di incamminarsi verso l'uscita dell'auditorium, sorrise e aggiunse un «Grazie» spezzato.
Aizawa Shota, il Grinch dello U.A., il famoso professore che si faceva temere e pareva odiare tutti, si stava emozionando per una canzone. Il Natale lo stava proprio facendo rammollire. E addio reputazione e dignità. Tuttavia una piccola vocina dentro di lui gli ripeteva che era proprio ciò di cui aveva bisogno.
«Ma funziona 'sto coso? Ah, sì, bene».
Si voltò di scatto e puntò la sua vista da aquila sul palco. Mentre gli altri componenti della band si stavano congratulando l'uno con l'altro per l'esibizione che, a giudicare dal pubblico in visibilio, era stata un successo, Bakugo aveva abbandonato la sua postazione alla batteria nelle retrovie e occupato quella di Jiro. Che intenzioni aveva?
Il biondo picchiettò sul microfono e si schiarì la voce. «Sentite, comparse, lo spettacolo è finito. Noi dobbiamo sistemare gli strumenti, quindi potete andarvene e lasciarci lavorare in pace. Ergo, siete pregati di levarvi dalle palle». Fece cadere il microfono sulla pavimentazione di legno, producendo un tonfo e un fischio assordante, e scese dal palco. Uscita di scena di tutto rispetto.
Tra Tokoyami che scuro in volto ci schiaffava una mano sopra, Kaminari che iniziava a sghignazzare mentre ancora abbracciava Jiro e quest'ultima che per niente stupita dall'impresa di Bakugo cercava di scollarsi di dosso il chitarrista, solo Yaoyorozu ebbe la prontezza di prendere in mano la situazione. Recuperò il microfono per qualche grazia divina ancora funzionante, ripeté gentilmente l'invito e per concludere ringraziò ancora tutti e augurò buona vacanze.
Quel topo da biblioteca di Nezu doveva essere particolarmente di buonumore, quel giorno. Il preside si limitò a lanciare proprio a Shota un'occhiata di ammonimento, in quanto era pur sempre il coordinatore e responsabile di quella testa calda di Bakugo e la sua classe, per poi dedicarsi a salutare gli altri colleghi. Intanto la folla rispondeva entusiasta all'appello di Yaoyorozu, cominciando a defluire dalle porte laterali dell'auditorium che davano direttamente sul cortile e sui parcheggi dell'edificio scolastico.
Dato che tutto sembrava essersi risolto, Shota fece per andarsene. Di nuovo gli fu impedito, stavolta da Iida che gli si parò davanti all'improvviso.
«Prof, perdoni la maleducazione di Katsuki!»
«Non sei tu quello che deve scusarsi. Non farlo al posto suo» gli fece presente, con tutto l'autocontrollo possibile. Sapeva che avrebbe dovuto rimproverare Bakugo per la sua bravata, perché era un atteggiamento riprovevole e tutto quanto, eppure l'accaduto lo aveva fatto sorridere. Non riusciva proprio più a essere un bacchettone come una volta nei confronti di quei disgraziati.
Tenya Iida era sempre stato troppo ligio al dovere e alla disciplina, fino ad assumersi responsabilità che non aveva. Si intrattenne ancora un minuto con il suo professore. Si disse felice che il concerto fosse stato un successo e gli augurò buone feste da parte di tutta la classe.
Dopodiché tornò dai compagni. Uscirono insieme e aspettarono che i rimanenti cinque finissero di ordinare, come aveva annunciato poco prima Katsuki in quei suoi modi rozzi.
Il capoclasse davvero non capiva il motivo di usare simili termini. Il linguaggio umano era uno strumento così vario e flessibile, forgiato in millenni di storia, che offriva innumerevoli possibilità di esprimersi in maniera perfettamente rispettosa e civile e invece quel ragazzo...
«Indovina chi sono?» una voce squillante ormai familiare interruppe i suoi pensieri.
Una risatina, poi il nulla. Non vedeva più niente. Più precisamente, persone e oggetti diventarono un ammasso unico e indistinto di diversi colori. In altre parole, Mei Hatsume gli aveva rubato gli occhiali.
Era sicuro che fosse lei. Chi altri? Era consapevole di incutere una certa reverenza, per cui in sua presenza le persone evitavano di sgarrare dalle regole o mancarsi di rispetto. Non a caso dopo il liceo voleva studiare giurisprudenza e portare avanti la professione di famiglia. Ma quella sua aura seria e irremovibile non sembrava avere effetto su di lei.
Quando si guardò dietro la schiena, trovò conferma alle sue ipotesi: distinse un essere antropomorfo con una macchia rosa in corrispondenza della testa. Sospirò e allungò un braccio, con il palmo della mano verso l'alto. «Molto divertente, Mei, ora ridammeli».
«Non vale, ti sei girato!» Quella diabolica insolente rise di nuovo e fece probabilmente una linguaccia. Poi si mise a parlare con quella che sembrava Mina, lì vicino nel cerchio creato dalla sua classe. In meno di un minuto avevano già fatto amicizia.
Mentre Tenya si interrogava sui motivi per cui la rappresentante della 5ªB dello scientifico si trovava lì, giungendo alla conclusione che al 99,9% voleva soltanto dare fastidio con la scusa di fare gli auguri a tutti, la sua attenzione fu richiamata da degli individui non meglio identificati di fronte a lui, dall'altra parte del cerchio.
«Bro, sei stranissimo senza occhiali! Però stai bene!»
«Vero, ma... Esattamente quant'è che non ci vedi?»
A giudicare dalle voci e dalle macchiette nere e rosse, dovevano essere Hanta ed Eijiro. E, data la domanda, doveva star assumendo espressioni strane, intanto che stringeva invano gli occhi per vedere meglio. «Tre diottrie».
«Dai, non sei messo malissimo allora».
«Non sono quelle che mi mancano, ma quelle che vedo».
«Ah».
«Quindi così quante dita sono?» intervenne Hanta in quella triste conversazione con il rosso.
Di norma Tenya indossava sempre gli occhiali, ventiquattr'ore su ventiquattro. La prima azione che svolgeva appena sveglio alla mattina era recuperarli dal comodino e l'ultima a fine giornata toglierseli. Erano solo situazioni rare come quelle a ricordargli quanto essere miopi faceva schifo. Toru aveva proprio ragione quando diceva che non ti accorgi di ciò che hai finché non lo perdi, anche se doveva sostenerlo per ben altri motivi.
«Uhm, due?» tirò a indovinare. Si era sentito rivolgere quella domanda fin troppo spesso e statisticamente andava più volte così, che le persone mostravano due dita. Ma Hanta aveva un modo tutto suo di ragionare, forse sconosciuto persino a lui stesso, quindi rivelò che il numero esatto era zero prima di scoppiare a ridere.
Si lasciò sfuggire un sorrisino divertito. «Ve l'ho sempre detto: non sottovalutate la mia miopia».
«Sembri Hirotaka di Wotakoi» fu il commento distratto di Izuku alla sua sinistra. Conoscendo il suo migliore amico, per il 70% si trattava di un anime e per il restante 30% di un videogioco, ma non ebbe modo di indagare oltre.
«Minchia, Tenya, sei peggio di una talpa!» Mei, alla sua destra, tornò a urlargli nell'orecchio. Non gli era affatto dispiaciuto quel minuto di pace in cui non lo aveva tormentato come al solito.
«E lei Narumi...» in sottofondo si sentì borbottare ancora tra sé e sé il ragazzo dai capelli verdi, tornato a scrutarli più attentamente, colto da un lampo di realizzazione a lui solo comprensibile.
Tenya sospirò di nuovo e si concentrò sul suo problema principale. «Mei, ti ho già detto di usare un linguaggio più consono e non gridare tanto, sì?»
Inutile dire che lei non lo ascoltò e rispose con qualcosa che non c'entrava niente con la logica del discorso. «Il tipo con la faccia da fatto ha ragione, senza occhiali sei ancora più un figo!»
«Ancora con questa storia?»
«Ancora?» squittì Mina, che ovviamente non si stava perdendo nulla «In che senso ancora?!»
Purtroppo era esattamente come sembrava. Non erano le prime uscite del genere di Mei. Per esempio, gli ripeteva che le piacevano i ragazzi sportivi e intelligenti come lui, oppure la strana sera di un mese prima, quella della festa degli ex alunni, gli aveva detto che il suo nuovo undercut gli evidenziava ancora di più la mascella squadrata e così era "tipo ma davvero tremendamente sexy". Ecco, era una che sbandierava ai quattro venti qualsiasi cosa le passasse per la testa, Tenya supponeva più per il suo bisogno di sentirsi al centro dell'attenzione che per altro.
Comunque, era meglio che i suoi amici non venissero a conoscenza di certi episodi. Già Mina doveva star pensando ai più disparati scenari, stando a come iniziò a saltellare eccitata sul posto e incalzarlo con le domande.
Cambiò discorso. «Mei, ridammi gli occhiali e basta. Come hanno appurato tutti, mi servono, sul serio. Lo capisci, sì?»
«E se ti dicessi di no?»
Stavolta, più che sospirare, prese un respiro talmente profondo che si ghiacciò il cervello per l'aria fredda di fine dicembre. «Non ti conviene farmi perdere la pazienza, non sai cosa potrei farti, quindi non-»
«Wow, Tenya, siamo già a questo punto della nostra relazione? Non lo sapevo, così mi imbarazzi! Avvisami prima di fare avances sessuali così esplicite la prossima volta!»
«Ma cosa...?»
Nel breve istante che impiegò a processare quanto era suonato equivoco, si levarono fischi e risatine da quelli che stavano ascoltando.
«Ha-Hai frainteso! N-Non intendevo in quel senso!»
Mei rise insieme agli altri. Ci provava proprio gusto a stuzzicarlo e fargli perdere il controllo. A riprova, continuò in tono provocatorio: «Non fare tanto il santarellino, piccolo caro. Non sembrava ti stesse dispiacendo la situazione che noi sappiamo...»
«Che situazione?! Cosa ci nascondi, Tenya?!»
Il ragazzo in questione, su cui adesso era puntata l'attenzione di tutto il gruppo, non la scorgeva chiaramente, ma credette che Mina gli stesse puntando un dito contro. Persino Izuku lo rigirò involontariamente nella piaga con la sua ingenua curiosità, chiedendo a cosa si riferisse.
«Un mese fa, la sera della festa, nella tua macchina...»
«Smettila! Così lo fai sembrare qualcosa di strano!» stavolta fu Tenya a interrompere Mei. Le tappò una bocca con una mano, per fortuna riuscendo a prendere la mira senza schiaffeggiarla dato che era vicina. Normalmente avrebbe evitato contatti, un po' misofobo com'era e per giunta in pubblico, però stava davvero esagerando.
Tornò a rivolgersi ai compagni, o meglio alle masse colorate informi al posto loro. «Vi assicuro che non è successo niente. Smettetela di pensare male».
Era altamente probabile, all'incirca al 1000% e oltre, che si stessero facendo idee sbagliate. Tuttavia lui diceva la verità. Non era accaduto niente quella sera, quando dopo la festa aveva dato un passaggio a Izuku e Ochako e infine aveva portato a casa anche Mei.
Cioè, tecnicamente c'era stato un bacio, ma era davvero niente a confronto di quello che sarebbe successo se un'auto vicina, che per inciso poi si rivelò essere occupata dai genitori di lei, non li avesse interrotti suonando il clacson e rendendolo partecipe che si trovava in divieto di sosta. Ne era consapevole, eppure non aveva previsto che Mei non si sarebbe decisa a scendere e filare in casa e che avrebbe iniziato a provocarlo. Si erano messi a bisticciare come al solito e in breve senza una logica erano finiti con le facce appiccicate l'una all'altra. Se non fosse stato per quel rumore si sarebbero spinti oltre, con lei a cavalcioni su di lui ad approfondire il bacio.
Non che stesse facendo tutto da sola. Aveva cominciato lei, ma Tenya si era ritrovato a ricambiare. Dopotutto era anche lui un essere umano, non un robot come gli facevano scherzosamente presente, e dannazione era anche lui un ragazzo con gli occhi per vedere quanto Mei fosse bella quella sera. Il maglione e la gonna stonavano con il suo solito abbigliamento casual, fatto di canottiere, felpe larghe e pantaloni spesso rovinati a stare ogni pomeriggio nel laboratorio di robotica; in ogni caso, i vestiti non facevano differenza, era a prescindere una bella ragazza e non poteva negarlo.
Soltanto che detestava che gli avvenimenti non seguissero i suoi piani, aveva paura di perdere il controllo della situazione e di sé stesso. Finalmente si era liberato dal desiderio di vendetta che lo aveva corroso dentro a lungo, quando tre anni prima suo fratello maggiore finì in carrozzina, paralizzato alle gambe a causa dell'aggressione per conto di un criminale che aveva condannato al carcere, e non voleva ritrovarsi ancora a farsi trascinare dalle emozioni, positive o negative che fossero.
Perciò, nel mese successivo a quell'evento, aveva represso i propri sentimenti. Da parte sua, Mei sembrò dello stesso avviso: si limitò a girargli attorno, senza prendere ulteriori iniziative fraintendibili.
A Tenya stavano bene così le cose. Non che Mei non gli piacesse. La trovava ancora fastidiosa, troppo allegra e giocherellona e tutto il resto, ma neanche la odiava. Con il tempo la sua presenza aveva iniziato a non dispiacergli tanto quanto dava a vedere, a dirla tutta. Solo, non aveva la testa per qualcosa di impegnativo come una relazione. Non ci si vedeva lui stesso e inoltre le relazioni sentimentali erano per antonomasia tra le cose più imprevedibili in assoluto.
«Va bene, va bene» la ragazza che spesso lo portava sull'orlo di un esaurimento nervoso stavolta gli parlò con calma. Si alzò in punta di piedi per rimettergli occhiali e mormorò, in un tono dolce più unico che raro: «Scusa. La smetto, ma non essere arrabbiato con me».
Si rendeva conto di quanto era implausibile che...? La domanda passò in secondo piano nella mente di Tenya, troppo concentrata sul fatto che gli stava sorridendo e arruffando piano i capelli e che era estremamente vicina.
«Grazie» bofonchiò soltanto. Dovette indietreggiare di un passo e portare una mano ad aggiustarsi gli occhiali, non perché ce n'era davvero bisogno, ma per nascondere le guance in fiamme.
Era raro avere reazioni emotive di quel tipo, e chissà perché c'era sempre di mezzo lei. Ancora non sapeva rispondersi se era un bene o un male, pensò intanto che la osservava di sottecchi andarsene e salutare di sfuggita anche Momo, di ritorno con il resto della band.
Con suo sollievo, non ci fu tempo di commentare quanto accaduto, perché la discussione si spostò sulla performance dei ragazzi.
«Cambiando discorso» fece poi Momo «Avete completato i bigliettini dei buoni propositi?»
Le risposero tutti affermativamente, così iniziò a raccoglierli. Tenya stava per aiutarla quando ricevette una chiamata. Chiese a Shoto di farlo al posto suo e si allontanò di qualche passo. Era suo fratello, che gli annunciò una sorpresa: era riuscito a liberarsi dal lavoro e avrebbe passato il Natale a casa con il resto della famiglia.
Tornò felice dal gruppo. Nel frattempo i professori Aizawa e Hizashi erano passati per di lì, per raggiungere le loro macchine, e venivano trattenuti da Eijiro e Mina che gli spiegavano animatamente che cosa stessero raccogliendo.
Era stata un'idea sua e di Momo. L'amica si era offerta di ospitare tutta la classe alla sua baita in montagna per qualche giorno della settimana a cavallo tra dicembre e gennaio, per festeggiare il Capodanno insieme. Avevano già cominciato tutti i preparativi, programmando viaggio, spese, prenotazioni all'impianto sciistico, altre attività e persino serate a tema.
Una di queste sarebbe stata dedicata a quei bigliettini, in cui ciascuno aveva scritto il proprio buon proposito per il nuovo anno. Li avrebbero estratti casualmente fino a leggerli tutti, nel rispetto dell'anonimato. In quanto rappresentanti, ci tenevano a promuovere queste iniziative per mantenere un bel clima all'interno della classe.
Questo era anche il motivo per cui Tenya stimolava Shoto a fare qualcosa di apparentemente banale come aiutare i compagni, partecipare ai progetti della classe, uscire con il suo gruppo di amici.
O anche per cui, insieme a Tsuyu, aveva mediato tra Izuku e Ochako qualche settimana prima dato il loro strano comportamento. Non si erano intromessi nelle loro faccende personali, semplicemente avevano fatto da galeotti e predisposto un loro incontro. Poi fu Ochako stessa a confidarsi con lui, così Tenya venne a sapere tutto: la sua pseudo-dichiarazione alla festa degli ex alunni, il disagio che ne era seguito ma anche che erano finalmente riusciti a chiarire. Quella festa non aveva portato casini solo a lui, rifletté.
La sua migliore amica gli raccontò che Izuku era stato dolcissimo, quando infine si era deciso a esporle la verità. Le aveva detto che la reputava una bellissima persona, che non sapeva neanche cosa era l'amore quindi non si vedeva in una relazione romantica con lei però voleva assolutamente che fossero ancora amici perché non avrebbe sopportato perderla.
Insomma, Ochako stava ancora sotto un treno per lui, ma era visibilmente più serena adesso che si era sentita dire una volta per tutte come stavano le cose.
Con un sorriso spontaneo sul volto, il rappresentante guardò la classe di cui era tanto fiero per i bei legami che si erano creati. Ochako e Tsuyu chiacchieravano spensierate con Momo, galvanizzata come non mai per l'imminente gita fuori porta. Denki, una volta consegnato il bigliettino a Shoto, lo trascinò in una conversazione con i suoi amici. Mina e Toru cercavano di convincere Mashirao, Mezo e Rikido a venire anche loro alla baita e intanto impedivano a quel pervertito di Minoru di avvicinarsi alle ragazze a suon di schiaffetti. Sorrise persino vedendo Katsuki che urtava Izuku e gli rivolgeva improperi, non perché fosse arrabbiato ma più per il gusto di farlo, un'abitudine, o almeno così ipotizzava.
Finché si sentì osservato. Incrociò lo sguardo del professor Aizawa, che finalmente fu lasciato libero di andarsene insieme al collega. Per la prima volta in quattro anni lo vide sorridere. Sorridere davvero, non quei sorrisetti sadici di quando uno studente era impreparato o quelli nervosi che preannunciavano una predica infinita. No, il prof stava proprio sorridendo, anche se nascondendolo con la sciarpa. E pure alla fine del concerto aveva notato che si era commosso.
Perfino di lui si sentiva fiero, pensò Tenya, guardandolo a sua volta sorridente che si allontanava borbottando: «Pure tu, Iida... Già, il Natale rende proprio tutti dei rammolliti».
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