0.9│Inferno personale
art: lapin
Erano tante le cose che irritavano Katsuki Bakugo. Talmente tante che si faceva prima a elencare le poche che non rientravano nella categoria.
Lo facevano arrabbiare cose piccole e banali come la sveglia che smetteva di funzionare a caso, il traffico, i mezzi pubblici in ritardo, il freddo e la pioggia. Perfezionista qual era, detestava non avere il controllo su simili variabili e ultimamente finiva sempre con l'iniziare la giornata con la luna storta. Per la verità, non ricordava l'ultima volta che non ne aveva cominciata una da scazzato.
Naturalmente, lo infastidivano anche le persone. Da quella megera di sua madre, che veniva in camera sua giusto per il gusto di rompergli le palle e non richiudeva mai la porta prima di andarsene, agli amici quando si approfittavano troppo della sua rara generosità scroccandogli sigarette e passaggi in macchina. Lo infastidivano le persone che gli parlavano sopra senza farlo finire, che facevano casino al cinema, che cambiavano i programmi all'ultimo minuto. E ancora quelle troppo invadenti, quelle che tentavano di conversare prima delle dieci di mattina, quelle intolleranti così come quelle troppo buone.
Insomma, erano le persone in generale, a dargli sui nervi. Era giusto un po' misantropo. Ma se avesse dovuto indicarne una tra tutte, avrebbe scelto a mani basse il fottuto Deku.
In passato, quando erano bambini, lo faceva incazzare perché era debole e incapace, non reagiva alle sue prese in giro e anzi gli stava sempre appiccicato al culo come una cozza. Si faceva sottomettere, eppure era sempre disposto a tendergli una mano al minimo accenno di difficoltà. Soltanto che lui ce l'avrebbe fatta benissimo da solo, dopotutto era il migliore. Non aveva bisogno del suo aiuto e lo mandava su tutte le furie quel suo sguardo accondiscendente che lo faceva sentire inferiore quando non lo era affatto.
Adesso, invece, lo irritava perché continuava ad essere un ammasso di gentilezza e bontà benvoluto da tutti e proseguiva la sua vita. Così, come se Katsuki non avesse fatto altro che renderlo più forte e ora non avesse più potere su di lui.
Osservandolo da lontano, si era accorto che riservava a tutti lo stesso atteggiamento che aveva con lui da piccolo: si avvicinava e prestava aiuto, senza volere nulla in cambio. Era semplicemente il suo carattere.
Allora Katsuki non aveva ricevuto un trattamento particolare? Non era diverso da tutti quegli altri. Non era... speciale?
A quanto pareva, no. E come quella, anche il fatto che Deku lo guardasse con superiorità, che non era più solo un sassolino fastidioso sul bordo della sua strada e altre cazzate, erano solamente stronzate che si era raccontato nel corso degli anni per proteggere il suo ego molto più fragile di quanto mostrava.
Quel ragazzo non aveva alcuna intenzione di demolirlo. Al contrario, lo aveva sempre ammirato e preso come punto di riferimento e possibile rivale, in senso positivo, non di nemico. L'idea che rappresentasse un pericolo da estirpare il prima possibile era sempre stata solo e soltanto nella sua testa, bombardata fin dall'infanzia dai complimenti e dalla convinzione di essere una persona eccezionale destinata a grandi cose, quando in realtà era solo un bastardo come tutti gli altri che avrebbe dovuto ugualmente spalare merda a mani nude per sopravvivere e guadagnarsi il suo posto nel mondo. Ma Deku non c'entrava con questo, non era colpa sua se la società ti impone pressioni ancora prima che tu nasca.
In sintesi, Deku lo infastidiva perché, in fondo, non aveva più un motivo per odiarlo, e si era reso conto che forse non lo aveva mai avuto.
Ci volle tanto tempo, anni interi, per giungere a interiorizzare questa consapevolezza. A capire che era stato il suo inferno personale senza una valida ragione. Proprio per questo, in quel periodo, la persona con cui Katsuki era più incazzato al mondo in realtà era sé stesso.
Sbuffò pesantemente e si tirò a sedere sul letto. Da quando si faceva tutte quelle pippe mentali?
Ributtò sulla scrivania lì accanto il libro di fisica, deducendo che non sarebbe riuscito a studiare nonostante fosse la materia che, senza allargarsi a definire come la sua preferita perché non era tanto sfigato da averne una, reputava essere quella con cui andava più d'accordo, insieme a matematica e scienze.
Afferrò il cellulare dal comodino e si mise a scorrere i nomi in rubrica. D'istinto si soffermò su quello di Eijiro, ovviamente salvato come "Capelli di Merda".
Si trattenne. Non voleva fare l'ipocrita. Glielo aveva detto lui stesso, in modi più o meno espliciti, di smetterla di anteporre i problemi degli altri ai suoi, quindi non poteva correre ancora da lui.
Poco sotto iniziava la lettera D. E appena vide quel nome lo schiacciò senza pensarci due volte, anzi senza pensare affatto.
«Pronto? Chi è?» dopo decine di secondi, dall'altro capo della linea finalmente giunse la voce del coglione.
«'Sto cazzo» ribatté prontamente.
Silenzio.
«Ma non lo leggi il nome prima di rispondere, Deku?»
«Ma io... Certo che l'ho letto, ed è per questo che non sapevo se...»
«Non mormorare. Non sento un cazzo».
«Niente, Katsuki. Ho solo detto che ho visto che sei tu. Non che parlando lasci dubbi...» Lo sentì chiaramente deglutire a vuoto prima che riprendesse, in un misto tra disagio e gentilezza: «Scusami. Per questo ci ho messo un po' a rispondere, tutto qua. Allora cosa... Cosa posso fare per te?»
«Tra un quarto d'ora, al parchetto dietro casa tua. Dobbiamo parlare».
«Oh...»
"Oh"? "Oh"?! Che cazzo di risposta era? Un sì o un no? Poco importava, l'avrebbe costretto.
«Ehm, veramente io adesso sarei impegnat-»
«Niente scuse. So dove abiti. Se non ti fai trovare lì, ti vengo a prendere. E poi ti ammazzo con le mie stesse mani». Gli attaccò in faccia prima che potesse anche solo dire "Ok".
In pochi minuti Katsuki raggiunse il luogo stabilito.
Definirlo parco era generoso. Più che altro era una misera distesa d'erba con uno scivolo, due altalene, una buca con la sabbia, qualche altro gioco e un paio di panchine in croce. Proseguiva in un bosco attraversato da un ruscello, ma la zona era stata vietata al pubblico per ragioni di sicurezza anni prima. Eppure da piccolo quell'insulso parchetto di un paese di periferia era tutto il suo mondo. Su cui lui dominava incontrastato, naturalmente.
Si sedette sullo schienale di una panchina e si accese una sigaretta. Era nervoso.
Si sentiva osservato dai pochi bambini che stavano giocando e dai vecchietti che passavano per di lì. Per fortuna i mocciosi se ne andarono presto, richiamati dai loro genitori. Ormai era quasi il tramonto, che arrivava sempre più presto dato che si stava avvicinando lo schifo di inverno, inoltre i grandi nuvoloni di quel venerdì pomeriggio di inizio dicembre non promettevano bene.
Tuttavia, doveva riconoscere che la ragione principale per cui si sentiva nervoso era da imputare a sé stesso. Perché, come sempre quando si trattava di relazioni interpersonali, da egoista e impulsivo che era prima agiva senza riflettere e dopo pensava alle conseguenze.
Così, rimasto solo e in attesa che la piccola merda si palesasse, la sua mente cominciò a elaborare una serie di giustificazioni. Non tanto per poter dare spiegazioni a Deku, più per essere a posto con la propria coscienza.
Più che parlare, aveva una gran voglia di fare a botte. Di solito sublimava la rabbia repressa nel pugilato, in palestra o nella musica, ma quel giorno tutte le attività erano chiuse e comunque non avrebbero funzionato per sempre. Così non gli rimanevano altre opzioni e Deku era la persona perfetta: lo aveva visto perdere il controllo innumerevoli volte, anche se non accadeva da tempo aveva sperimentato la sua ira sulla propria pelle, e alla fine era colpa sua se quei pensieri ricorrenti gli martellavano in testa senza tregua anche quando doveva studiare. Non poteva permettersi di perdere tempo in quella maniera, perciò prima risolveva e meglio era. La violenza non era mai una soluzione definitiva, ma era l'unico altro modo che conosceva.
«Oi, finalmente» commentò quando il responsabile delle sue paranoie si degnò di arrivare.
Deku si fermò a qualche metro di sicurezza. Si strinse nelle spalle, mani in tasca e parte del viso nascosto nella sciarpa, con il suo fare goffo. «Ciao» si decise poi a spiccicare parola «Tutto bene? Di cosa volevi parlare?»
Nemmeno lui sembrava convinto che fosse quello lo scopo dell'incontro, a giudicare dall'incertezza con cui pronunciò l'ultima parola. Katsuki poteva elencare tante cose negative di lui, però che fosse un completo stupido non rientrava tra esse.
Balzò giù dalla panchina e si avvicinò fino a trovarsi a pochi centimetri da lui. Lo guardò fisso mentre prendeva un ultimo tiro abbondante dalla sigaretta, e poi gli soffiò il fumo in faccia, facendolo strizzare gli occhi e tossicchiare. Non sapeva perché l'aveva fatto, in realtà. Forse era che le sue reazioni lo divertivano ancora a distanza di anni, o forse che gli andava e basta.
Si spostò a buttare la cicca nel cestino accanto alla panchina e tornò a fissarlo per un po', in silenzio. Giusto per godersi il suo sguardo intimidito vagare da lui all'ambiente circostante e infine ai suoi piedi. Poteva convincersi di essere cambiato quanto voleva, ma in sua presenza si sentiva ancora in soggezione e questo, avere dopotutto ancora qualche controllo su di lui, lo compiaceva.
«Picchiamoci».
«... Eh?»
«Picchiamoci». Si scrocchiò i polsi. «Come ai vecchi tempi».
Il coglione sgranò gli occhi e balbettò qualcosa del tipo che non gli sembrava il caso.
«Non te lo sto chiedendo».
Ignorò le sue obiezioni, che erano anche giuste e sensate. Ormai aveva deciso e non sarebbe tornato indietro, alle conseguenze avrebbe pensato dopo. E poi quei discorsi da buonista e pacifista del cazzo non facevano altro che fargli ribollire il sangue nelle vene.
Allungò le mani, in preda al familiare formicolio, e lo spinse indietro. Lo fece incespicare ma per sfortuna non abbastanza per cadere.
«Picchiamoci. Avanti, reagisci, fa' qualcosa, dannazione!» alzò la voce.
«Non voglio... Non voglio che nessuno dei due si faccia male».
«Hah?!» a quel punto esplose. Ormai stava urlando. Lo spinse di nuovo. «Ma ti senti quando parli?! Quindi se uno ti punta un coltello addosso, tu al posto di difenderti gli vai incontro, e magari già che ci sei ti ammazzi da solo?!»
«Non voglio farti male, Katsuki».
Che cazzo di risposta era?, si ritrovò a pensare per la seconda volta nel giro di nemmeno mezz'ora. Lo stronzo ragionava completamente al contrario.
Non poté evitare di ridere, una delle sue risate di scherno e, come amava chiamarle Faccia da Scemo, da sadico psicopatico. «Tu, fare del male a me? Semmai l'opposto». Come era e sarebbe sempre stato, avrebbe aggiunto, se solo non fosse stato interrotto.
«Non voglio, ma mi stai costringendo» Deku continuò a lamentarsi, a voce bassa. Però poi strinse lievemente i pugni e le labbra e lo guardò con una determinazione che mai aveva osato rivolgergli.
Quello fu l'apice. Prima si lagnava che non voleva, poi si preoccupava più per lui che per sé, e ora questo. Katsuki non capiva. Lo stava sfidando a sua volta? Credeva davvero di avere qualche possibilità contro di lui? Non capiva e ciò lo fece andare definitivamente in escandescenze.
Avvenne tutto in fretta. Sferrò un pugno verso Deku, che schivò, poi un altro e un altro ancora, fino a che lo colpì. O meglio, così credette, prima di ritrovarsi con la schiena a terra. Rimase esterrefatto per qualche attimo. Portò lo sguardo al suo braccio destro, a cui lui era ancora avvinghiato, e allora comprese. Il coglione non era poi così coglione. Aveva previsto le sue mosse e agito di conseguenza, con dei movimenti fluidi e inaspettati anche per un pugile.
«Corso di autodifesa» spiegò, come leggendogli la mente «Inoltre tu inizi sempre con un gancio destro. Scusa».
«Che cazzo ti scusi? E non è mica finita».
Stavolta fu lui a coglierlo alla sprovvista, alzandosi quel tanto che bastava per afferrarlo per il cappotto e atterrarlo a sua volta.
«Non ti hanno insegnato a non avere pietà per il tuo aggressore, hah?»
Iniziarono a rotolare e azzuffarsi tra le foglie secche del parco.
Non era più il MerDeku di prima, questo doveva riconoscerlo. Si era impegnato sul serio a cambiare e migliorarsi. Era anche diventato forte a sufficienza per tenergli testa. Lo aveva raggiunto di nuovo e ciò lo faceva rosicare, così come con i voti a scuola. Ma col cazzo che sarebbe bastato.
In breve riuscì a intrappolarlo sotto di sé con la schiena a terra: una gamba piegata in orizzontale a bloccare le sue, l'altra a bloccare un suo braccio, la mano sinistra a tenere fermo l'altro polso mentre la destra gli avvolgeva il collo.
«Ho vinto» annunciò trionfante, dopo qualche secondo di silenzio colmato solo dagli ansiti in cui la priorità di entrambi fu riprendere fiato.
«... Già» Deku mormorò, non abbastanza convinto per i suoi gusti. O forse era solo stupito perché si aspettava che ci sarebbe andato più pesante. Ma a lui non interessava la violenza, voleva vincere, proprio contro di lui, e ora ce l'aveva fatta.
«Ho vinto io. Ripetilo».
«Sì sì, hai vinto tu, Katsuki» si affrettò a concordare, la voce ridotta a un suono debolissimo.
Inutile negarlo: lo compiaceva da morire quella situazione. Finalmente era lui a poterlo guardare dall'alto in basso, a sottometterlo, ad avere il controllo. I sensi di colpa e la consapevolezza di essere un mostro erano appena accennati, sovrastati da quella afrodisiaca sensazione.
«Mi... Mi fai male...»
Sentì Deku lamentarsi quando, inconsciamente, aumentò la presa sul suo collo da sopra la sciarpa.
«Potresti... Per favore...»
Osservò il suo viso con attenzione, in ogni suo singolo dettaglio, mentre cominciava a dimenarsi. Le labbra schiuse in cerca d'aria, le lacrime che si formavano ai lati degli occhi. Sì, era un sadico, per davvero e non per scherzo come dicevano i suoi amici, e in quel momento non sentiva alcun rimorso. Non avrebbe messo, se solo...
«Non... Non respiro... Ti prego, Katsuki...»
All'improvviso, gli balenarono in testa le parole di Faccia Piatta. Di quando tempo prima, da sbronzo, aveva suggerito l'immagine di loro due che "facevano cose".
Si ritrasse di colpo, più per questo pensiero che perché gli stava facendo male sul serio.
Rotolò nell'erba a fianco a lui, supino sul manto di foglie secche di fine autunno. Serrò gli occhi e prese a fare respiri profondi per liberare la mente, intanto che Deku si tirava su e si riprendeva.
Si concentrò sull'aria che gli entrava e usciva dai polmoni e sui muscoli che si rilassavano, sul leggero scricchiolio delle foglie a causa del vento e sulla consistenza del suolo sotto di sé, sulla sensazione che piano piano lo pervadeva.
Che cos'era? Calma? Era da mesi che non la provava così intensamente. Non era più nervoso. Aveva funzionato?
Si sentì osservato e in effetti, quando riaprì lentamente gli occhi, trovò subito quelli dell'altro ragazzo fissi su di lui.
«Ora ti senti meglio?» chiese con premura, nessun rancore, come se non avesse appena rischiato di morire strozzato per mano sua. Il concetto di vendetta doveva essergli sconosciuto, nonostante l'inferno che gli aveva fatto passare per anni e che doveva appena avergli ricordato.
Katsuki grugnì una risposta affermativa e puntò lo sguardo al cielo. Si vedevano le chiome marroncine e semispoglie degli alberi lì vicini e le nuvole illuminate dagli ultimi raggi di sole, tinte di un tenue rosa misto ad arancione. Se normalmente non gliene sarebbe fregata un'emerita minchia, in quei rarissimi momenti riusciva ad apprezzare anche le più piccole cose e a dimenticare quelle che lo facevano arrabbiare. Doveva essere ciò che provavano le persone normali.
Lasciò persino che Deku si sdraiasse accanto a lui e lo imitasse.
Dopo un numero indefinito di minuti, nel portarsi le braccia dietro alla testa, gli occhi gli ricaddero su di lui. Lo stava ancora guardando.
Stranamente, neppure quello lo infastidì. Diamine, questa calma era qualcosa di magico. Dovevano fare a botte più spesso se il risultato era quello.
«I piercing» si giustificò quello al suo sguardo accigliato, ma per una volta non irritato «Non li metti mai a scuola. Ti... Ti stanno bene».
Corrugò la fronte. Non aveva la minima idea del perché l'aveva notato o glielo stava dicendo. «Hah? Ovvio che mi stanno bene» ribatté solo e tornò a guardare in alto.
Lo stalker aveva detto giusto, non li metteva mai a scuola. Aveva un buco e due helix all'orecchio destro da un paio di anni, ma evitava di indossare i suoi amati orecchini ad anello e il piccolo dilatatore nel contesto scolastico. Già aveva faticosamente riabilitato la propria reputazione dopo l'incidente del cestino in fiamme del primo anno, e in generale era evidente il suo caratteraccio, ci mancava solo che i professori o il preside lo prendessero di mira per quello. Non sembravano i tipi da fare una cosa del genere, ma non si sapeva mai. Non ci si poteva mai fidare del tutto delle persone. E poi avrebbe attirato altre attenzioni indesiderate, come era capitato a Faccia da Scemo quando si era fatto il piercing più recente alle labbra.
Da Deku provenne un rumore strano. Stava... ridendo...? Sì, la merdina stava proprio ridendo, coprendosi invano la bocca con una mano.
«Oi, cazzo ridi?» Katsuki gli colpì una gamba con la sua, senza successo.
Era una risata lieve, in qualche modo melodiosa e genuina, di certo non volta a prenderlo per il culo. Più passavano i secondi, più lo devastava, quella risata. Forse perché non capitava da anni che ridesse in sua presenza. Non ricordava l'ultima volta che era accaduto e si era dimenticato quel suono. In un certo senso, gli era... mancato?
Ma che andava a pensare? Si decise a smettere e lui poté accantonare il pensiero in qualche angolo recondito del suo cervello.
«Pensavo solo che alcune cose non cambiano mai, Kacchan».
Katsuki lo fissò a sua volta, ad occhi sgranati. Non sapeva per cosa essere più preso in contropiede. Il sorriso sincero, il tono nostalgico, o l'ardire di usare quel nomignolo dopo anni in maniera quasi... dolce.
Deku dovette pensare lo stesso. Si tappò di nuovo la bocca, come se si potesse dire qualcosa del genere per sbaglio, e si scusò in fretta.
«Non... Non sono arrabbiato».
Era la verità. La risata era giustificata: aveva ragione a dire che non era cambiato, la sua supponenza dopotutto era sempre stata e rimaneva un dato di fatto. Quel soprannome, dopo tanto tempo che non l'aveva sentito pronunciare da lui, non gli diede così fastidio. E in ogni caso non avrebbe saputo mentire di fronte a quello sguardo, così trasparente e vero che costringeva ad esserlo a propria volta.
Perché Deku era un fottuto libro aperto in fatto di emozioni e in quel momento vi ritrovò tutto. La sua ingenua sincerità, l'ammirazione che nutriva per lui da piccolo, la determinazione della nuova persona che era diventata.
«Oh...»
Erano belli, i suoi occhi, ora che ci faceva caso. Verdi, grandi, curiosi di cogliere ogni particolare di ciò che gli stava attorno e di stupirsene come un bambino, sempre a brillare per la felicità o per le lacrime.
Anche le lentiggini che gli tempestavano le guance e parte del nasino leggermente all'insù, doveva ammettere che erano... carine, o quantomeno rendevano la sua faccia un po' più decente e sopportabile.
E le sue labbra... Gli stava dicendo qualcosa.
Borbottando e straparlando, per la precisione. «Va... Va bene. Dico, che stai meglio, anche. Cioè, è bello, no? È fantastico. Sono contento. Sai, in generale, di come è andato questo... incontro e-»
«Tch».
Katsuki si impose di tirarsi a sedere e affondò le mani tra i capelli. Quella bastarda della calma stava giocando brutti scherzi e facendo prendere una piega sbagliata. Alla conversazione, ai suoi pensieri, a tutto.
Perché si era messo a fargli una radiografia a raggi X alla faccia? D'accordo, non gli stava così vicino in tranquillità da tempo, e sapeva di non essere indifferente ai ragazzi, però... Cristo santo, era Deku. Deku! Perché stava ripensando alle parole di Hanta? E perché lo stronzo se ne usciva con quei discorsi, arrossiva pure, rendeva tutto così imbarazzante?!
«Ti ho letteralmente usato come sacco da boxe» gli ricordò con freddezza.
Gli sorse anche il dubbio che si stesse facendo strane idee, tipo che da quel giorno sarebbero tornati amici in un rapporto tutto rosa e fiori, arcobaleni e unicorni e vissero tutti felici e contenti. No, era impossibile. Lo aveva appena aggredito, dannazione. Era meglio ritornare ad essere il solito scazzato e riportare entrambi con i piedi per terra quanto prima.
«Vero. Intendo la parte dopo. Il fatto è che...»
Continuò a dargli le spalle e voltò solo di poco la testa, per scrutarlo di sottecchi. Giocherellava con le sue stesse dita e teneva la fronte corrucciata, come se si stesse impegnando per scegliere con cura ogni singola parola.
«Lo so che mi odii, però io non riesco a odiare te. Dopo tutti questi anni c'è ancora una parte di me che ti ammira, che vuole essere tua amica e... ti vuole bene. E so che sicuramente non te ne importa niente di quello che provo io ma voglio comunque dirlo. Sono felice che hai chiamato me. Che ti sei fatto aiutare da me, anche se chiaramente non hai bisogno di nessuno che ti soccorra. Che hai passato del tempo con me anche solo per una volta e che... Scusa, sto divagando. Il punto è che, indipendentemente dalla mia parte di merito, tu stai meglio ed è andata... così, bene, direi, perciò... Niente. Veramente, sono felice».
C'era tanta, troppa roba da analizzare in quel discorso intricato e intriso di patetismo come solo lui li sapeva fare, in quel suo mormorare impacciato, in quelle guance rosee e lo sguardo timido che tornava su di lui. C'erano tante cose, eppure la mente di Katsuki si fermò a quel "ti vuole bene" e non ne volle sapere di collaborare oltre.
Si rigirò e sospirò a fondo. Come aveva immaginato, Deku si stava facendo troppi viaggi mentali. Almeno sembrava consapevole di starsi illudendo. Però, rifletté torturando dei fili d'erba, con che cazzo di dichiarazioni se ne saltava fuori? Lo stava mettendo in difficoltà, anche se quasi di certo non se ne rendeva conto.
Comunque non glielo avrebbe permesso. Faceva schifo con i sentimenti, ma, soppesando le sue alternative, poteva sforzarsi una volta per tutte. Dopodiché non ne avrebbero più parlato e avrebbero ricordato quel pomeriggio come una strana parentesi da non ripetere nel loro normale rapporto di antagonismo e disinteresse reciproco.
«Non è a me che dovresti volere bene» fu l'unica cosa di senso compiuto che gli uscì dopo due minuti di intensa elaborazione. Fanculo, ci rinunciava. Perlomeno era abbastanza esplicita da non provocare altri fraintendimenti. «Piuttosto, pensa a chiarire con Faccia Tonda».
«Faccia...? Oh, intendi Ochako?»
«Seh, lei».
Non sapeva di preciso quale fosse il collegamento scattato nella sua testa, in ogni caso riteneva davvero che dovesse farlo. Dopo le smancerie che quei due si erano scambiati alla festa degli ex alunni a cui suo malgrado aveva in parte assistito, a scuola quella settimana era stato un continuo teatrino di sguardi imbarazzati, frasi non dette, disagio nell'aria che si tagliava con un coltello. Il clima all'interno della classe, soprattutto nel loro gruppetto di sfigati, ne risentiva e la cosa gli dava sui nervi. Se persino quel socialmente impedito del Bastardo a Metà se n'era accorto, c'era un palese problema di fondo.
«Ehm, a proposito di quello che hai visto...» Deku farfugliò, mentre si sedeva anche lui «Presumo che tu abbia frainteso...»
«Non me ne fotte un cazzo» lo interruppe brusco. Si alzò in piedi e pulì via con poca grazia le foglie rimaste appiccicate ai pantaloni. «Non mi interessa quello che c'è tra di voi. Solo, vedi di tirare fuori le palle, dirle chiaro e tondo cosa pensi di lei e risolvere la cosa, perché è evidente che ci sta male e non si merita questo trattamento di merda».
Suonava molto ipocrita, detto da parte sua. Eppure il coglione non ebbe da replicare. Rimase lì, seduto a gambe incrociate sul prato, a guardarlo dal basso con quel misto di ingenuità e stupore come se avesse appena ricevuto un'illuminazione divina, come se da solo non fosse arrivato a quella conclusione tanto ovvia.
Finché dall'alto iniziarono a cadere una, due, tre gocce e in poche manciate di secondi si ritrovarono sotto alla pioggia.
«Sul serio? Fanculo!» Katsuki aprì le braccia e imprecò contro il cielo. Lo aveva pure apprezzato prima, nei suoi pensieri, e questo era il ringraziamento.
Camminò veloce verso la panchina dove aveva lasciato il suo ombrello, saggiamente portato da casa. Quando tornò sui suoi passi, Deku era in piedi, con la testa e una mano aperta rivolte in alto, gli occhi chiusi e le labbra che accennavano un sorriso idiota, a prendersi tutta l'acqua addosso.
«Oi, che cazzo stai facendo?»
Riaprì piano gli occhi e sorrise di nuovo. «Mi piace la pioggia».
Che minchia di spiegazione era?
«Io la odio» sentenziò secco e si diresse verso l'uscita dal parco. Non sentendo alcun passo dietro di sé, si girò. Lo trovò ancora a guardarlo, immobile e ormai fradicio come uno scemo. Ma come funzionava il suo cervello, al rallentatore?
«Vieni o hai intenzione di stare lì come un coglione tutto il giorno?»
Passarono in silenzio, quei pochi minuti di camminata verso casa di Deku sotto lo stesso ombrello. Che per la cronaca Katsuki si assicurò di tenere lui, non gradendo esattamente, in caso contrario, di finire decapitato per via della differenza di altezza.
Era strano, perché il nerd era quel tipo di persona che pensa tanto, fin troppo, ma sempre meglio dei discorsi di prima. A ripensare che erano avvenuti davvero gli veniva da vomitare.
Gli parlò solo per dirgli di tenere un attimo l'ombrello perché doveva riallacciarsi una scarpa. Eccola, un'altra cosa che non sopportava: quelle stronze delle stringhe che si slacciavano nei momenti meno opportuni.
«Mettile in tasca».
Nel riafferrare l'ombrello, aveva sfiorato le sue mani ghiacciate.
A giudicare dallo sguardo interrogativo a quel suo ordine-consiglio, Deku non stava capendo. Era incredibile quanto fosse sveglio su certe questioni e un perfetto idiota riguardo altre.
Racimolò tutta la pazienza di cui era capace. E cioè che rasentava lo zero. «Le tue mani» ringhiò «Sono fredde. Mettile in tasca se non vuoi farle andare in ipotermia».
Lui sussurrò un «Oh, hai ragione» e poi fece come gli aveva detto.
«Cosa c'è adesso?» Katsuki si ritrovò a sbottare dopo pochi passi. Lo stava ancora osservando.
«Niente».
Deku si strinse nel cappotto e affondò il viso nella sciarpa, ovviamente verde. Pareva ossessionato da quel colore. Anche le punte dei suoi capelli scuri lo erano, apparendo così un cespuglio informe, e in generale il verde era come un suo marchio di fabbrica, insieme al rosso delle sue scarpe che si ostinava a ricomprare dello stesso tipo per qualche ignoto motivo.
«Stavo solo pensando che sai essere gentile... a modo tuo».
«Hah? Cosa staresti insinuando?»
«Nulla, nulla, veramente».
Non lo aveva percepito sul serio come un attacco, ci stava addirittura ironizzando sopra e il suo ex amico d'infanzia tratteneva un sorrisino. Erano dei grandi passi avanti. Fino a poche ore prima non sarebbe riuscito a immaginarsi mentre teneva una normale conversazione con Deku, oltre alle sterili interazioni che avevano a scuola. Banale ma straordinario. Allora tutti quegli anni di impegno a gestire la rabbia e i suggerimenti di Capelli di Merda stavano servendo a qualcosa.
Ormai erano in prossimità del condominio di Deku.
«È anche bello che alcune cose invece sono cambiate, Kacchan».
Katsuki si bloccò sul posto, inducendo l'altro a fare lo stesso un paio di passi dopo. Se ne stava di nuovo uscendo con quelle frasi strane. Per giunta si voltò e gli sorrise, con le guance un po' rosse ad enfatizzare le lentiggini e contrastare con il colorito cadaverico del resto del viso, che lo faceva seriamente pensare che stesse per andare in ibernazione.
Sapeva essere così vero e fragile allo stesso tempo.
D'istinto allungò una mano verso la sua testa. Dopo un attimo di incertezza, e di allarme da parte sua, colmò la distanza poggiandogliela sui capelli. Erano morbidi come immaginava e ovviamente bagnati perché prima aveva avuto la brillante idea di prendersi in pieno un acquazzone. Alcune ciocche mosse gli ricadevano sulla fronte, più scure del solito così come le ciglia lunghe, da sotto cui quegli occhi da cerbiatto lo scrutavano attoniti.
«Smettila di renderlo così imbarazzante». Non sapeva se stava imprecando contro di lui o sé stesso, forse entrambi.
Gli scompigliò i capelli e li tirò leggermente prima di liberarlo dalla sua presa, così, giusto per curiosità di farlo.
Stava diventando tutto troppo strano.
«Siamo arrivati. Io vado».
Solo dopo avergli dato le spalle e mosso diversi passi, sentì il saluto mormorato a scoppio ritardato. «Va bene, a... a domani».
Il domani arrivò e, come prospettato, a scuola si comportarono al solito, tornando a ignorarsi a vicenda.
Alla prima ora di quel sabato mattina, negli spogliatoi della palestra, Katsuki notò per caso che gli aveva lasciato un paio di lividi su braccia e gambe. Spiccavano abbastanza per via della carnagione chiara e spruzzata di lentiggini qua e là in modo irregolare.
Non fu l'unico ad accorgersene. Prima Quattrocchi, poi pure Capelli di Merda. «Ehi, Izuku, che hai combinato?» si intromise nella conversazione tra i due. Era più forte di lui, non riusciva a farsi i cazzi propri. Ma conoscendolo non lo faceva per noia, quanto per sincero interesse, perché un'altra sua specialità era accollarsi le rogne altrui, di qualsiasi tipo e anche se non richiesto.
«Oh, questi? Non lo so nemmeno io» fece Deku ridacchiando. Pur essendo una totale schiappa a mentire, gliela diede a bere. Dopotutto era anche quel tipo di persona talmente sbadata da ritrovarsi dei lividi addosso senza davvero sapere come se li era procurati e da rompersi almeno un osso all'anno.
Ripeté lo stesso copione con Faccia Tonda, quando si recarono in palestra nella solita tuta corta. Naturalmente lei si preoccupò subito, come la crocerossina che era, e la scusa sembrò reggere.
Katsuki, per sicurezza, durante la giornata lanciò un paio di occhiate omicide al nerd e vederlo rabbrividire ogni volta, oltre a compiacerlo, lo rese partecipe che aveva recepito il messaggio di non fare parola con nessuno riguardo al giorno precedente.
In sintesi, filò tutto liscio e la parentesi del pomeriggio prima si richiuse velocemente così come si era aperta. Poteva tornare a disinteressarsi di Deku.
Fu proprio Capelli di Merda ad affiancarlo all'uscita da scuola, come sempre. Parlarono di cose a caso, mentre attraversavano il cortile, fino a che gli disse qualcosa che non gli piacque: Mina voleva parlare.
«Col cazzo» sbottò prontamente.
L'Oca con quegli orrendi capelli rosa shocking gli aveva a dir poco scartavetrato le palle con quelle "riunioni straordinarie della BakuSquad", per quanto si sentisse onorato che portassero in parte il suo nome. Il sabato, poi, l'unico giorno che finivano prima le lezioni e poteva avere a che fare con l'umanità una preziosa ora in meno. Se si escludevano le prove di musica nel tardo pomeriggio, che purtroppo non poteva balzare perché si avvicinava il saggio di Natale.
«E dai, Kat» prese a implorarlo l'amico, con un braccio attorno alle sue spalle. «Solo due minuti. Ascoltiamo quello che ha da dire e se non ti interessa ce ne andiamo, ok?» Il suo sorriso accecante come il fottuto sole fu il colpo di grazia.
Katsuki cacciò le mani in tasca, si imbronciò ma infine emise uno «Tch» stizzito che significava sì.
L'amico capì al volo e sorrise di nuovo, come se gli stesse facendo il regalo più bello della sua vita. Lo sollevava che almeno con lui la maggior parte delle volte non doveva specificare cosa intendeva.
«Però tu fai quel cazzo che ti pare» aggiunse. Al contrario, non gli piaceva il plurale che aveva usato. Il senso era che doveva fare quello che si sentiva, agire come voleva e non solo per sostenere lui, come non era raro che avvenisse anche quando non era d'accordo. Più chiaro di così non riusciva a esprimersi, e se non capiva con tutte le volte che glielo diceva erano cazzi suoi.
L'Oca li aspettava al loro solito posto, il tavolo semiabbandonato in un angolo abbastanza appartato del cortile. Aveva già rapito e intrappolato tra le sue grinfie l'Emo, Faccia Piatta e Faccia da Scemo.
Il ragazzo la ascoltò due minuti esatti.
Blaterò sul fatto che di recente non erano stati sinceri gli uni con gli altri. Era venuta a conoscenza di cose che non si erano detti e le dispiaceva che si nascondessero i problemi perché gli amici esistono apposta per sostenersi a vicenda. Dio, sembrava di sentir parlare Capelli di Merda. Del resto quei due si conoscevano da ancora prima del liceo e condividevano la stessa visione idealizzata e smielata dell'amicizia.
Poi, non si trattenne più. «Quindi basta che sarò sincero e mi lascerai andare?»
Già mentre l'Oca stava rispondendo che era quello lo scopo della riunione, iniziò a vomitare loro addosso tutto quello che pensava, puntando di volta in volta un dito severo contro la vittima di turno.
«Mina. Sei troppo pettegola e invadente. Se le persone non ti parlano di tutto magari significa che hanno bisogno di tempo, non che non si fidano di te. Puoi dimostrare affetto anche in altri modi, tipo stando loro vicino. E possibilmente tenendo quella boccaccia chiusa.
Hanta. Sballarti e vivere in funzione del sabato sera non è la soluzione definitiva ai problemi. Datti una regolata e prendi il controllo della tua vita o finirai allo sbando.
Denki. Anche tu, datti una svegliata. Basta fare il pagliaccio e prendere la scusa di essere stupido. Chiarisci le priorità nei tuoi sentimenti e lotta davvero per quello che vuoi.
Kyoka. Inutile girarci intorno: se continui così ci lasci le penne. Lo so che suona fottutamente ipocrita da parte mia ma, sul serio, lasciati aiutare.
Eijiro. Te l'ho già detto, falla finita con il mettere sempre gli altri prima di te e delle tue esigenze. Essere altruisti va bene ma anche prendersi cura di sé è importante. Impara ad essere un po' egoista».
Ammutolirono tutti. Persino l'Oca e Faccia da Scemo non fiatarono. Come mai? Perché li aveva chiamati per nome? Perché ci era andato troppo pesante? Perché li aveva scioccati, feriti o qualcosa del genere? Non lo sapeva, e non gli importava.
«Bene, io ho finito. Ci vediamo, stronzi». Se li lasciò alle spalle con questo affettuoso saluto e se ne andò.
Esatto, non gli importava. Essere sinceri significava questo, giusto? Nella sua particolare concezione dei rapporti interpersonali, l'amicizia era anche arrabbiarsi per i difetti degli altri e farli notare, a sottintendere un minimo di interesse e preoccupazione.
Forse, si disse Katsuki, per una volta la rabbia poteva essergli utile. Poteva farsi aiutare da lei a prendere a cuore una persona che non fosse sé stesso e a dare vita a qualcosa di costruttivo.
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